lunedì 29 dicembre 2008

Il nuovo libro di Mauro Pesce e Adriana Destro

L'uomo Gesù

Tracciare un ritratto di Gesù, prima di tutto come un uomo, con le sue pratiche di vita, i suoi incontri, il suo corpo, le sue emozioni e i suoi sentimenti. Questo è lo scopo del nuovo libro di Mauro Pesce, storico del cristianesimo divenuto celebre per il libro Inchiesta su Gesù (firmato insieme a Corrado Augias) e dell’antropologa Adriana Destro, L’uomo Gesù, uscito a novembre per i tipi della Mondadori.


I due autori, la cui collaborazione si inserisce nelle correnti di rinnovamento della ricerca sul Gesù storico e sulle origini del cristianesimo, soprattutto grazie all’utilizzo di un approccio antropologico (vedi Antropologia delle origini cristiane, 1997; Come nasce una religione, 2000; Forme culturali del cristianesimo nascente, 2006), ci restituiscono un quadro sullo stile di vita di Gesù, proponendo, anche al lettore meno attrezzato, una ricostruzione della vicenda umana di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe).

Un’operazione necessaria – come ricordano Mauro Pesce e Adriana Destro – «convinti che una lettura prevalentemente teologica della vicenda di Gesù la svuoti di gran parte della sua forza e del suo significato» (p. 207).

Il libro, che si articola in sette capitoli, tenta di ridare una cornice concreta e umana alla vicenda di Gesù. Allontanandosi a poco a poco, per vedere chi e che cosa circondava il profeta di Nazaret, si riesce scorgere una visione di insieme, un ritratto umano e vicino anche agli uomini contemporanei. «Per scavare nella vicenda di Gesù – spiegano gli autori – abbiamo voluto accostare analisi tradizionali (storiche, filologiche, archeologiche) e ipotesi meno convenzionali (di tipo antropologico), proprio perché avevamo di fronte un mondo di incontri personali, di faccia a faccia, un mondo significativo proprio perché precario, esposto a pericoli, fatto di gente generalmente marginale che conosceva difficoltà concrete» (p. 207-208).

Il libro ricostruisce in modo originale – compiendo anche un opera di divulgazione delle ultime ricerche sociologiche, antropologiche e storiche su Gesù – le geografie in cui Gesù si muoveva, il significato del suo camminare per le strade della Palestina e cosa questo comportava praticamente, la gente che egli incontrava e che aveva attorno come sostenitori e discepoli, il significato profondo del mangiare insieme alla stessa tavola, il rapporto con la dimensione domestica, il suo corpo, le sue emozioni e i suoi sentimenti. «Ogni giorno, Gesù ricomincia il suo cammino, riattualizza il suo progetto, sostenuto dalla speranza in Dio. La conseguenza di questo stile di vita è di ‘desacralizzare’ luoghi, attività, materiali e ambienti. Il lavoro, la proprietà e la famiglia non sono più i valori massimi cui subordinarsi, sono relativizzati e rimessi in discussione in una successione di sfide. Le cose a cui ordinariamente si tiene di più non rappresentano il centro di interesse del suo progetto o del suo stile di vita. Sono abbandonate e private dei loro caratteri di necessità» (p. 51).

Importanti, poi, le precisazioni che restituiscono la figura di Gesù, non solo alla sua storia ma anche al suo ambiente culturale, alla sua ebraicità. Il Gesù che Mauro Pesce e Adriana Destro ci riconsegnano «non aveva intenzione di fondare una propria associazione svincolata dai luoghi e dalle forme sociali (i nuclei domestici, in particolare) in cui si svolgeva la vita della gente. Voleva rivolgersi a tutta la popolazione di Israele per prepararla a entrare nel futuro regno di Dio tramite un radicale rinnovamento della vita quotidiana delle case» (p. 95). «In questo libro – dichiarano i due autori – sosteniamo che Gesù crede nel suo Dio tradizionale e non è il fondatore di un sistema religioso diverso da quello in cui è nato. Il suo stile di vita e il suo messaggio, il movimento che egli ha creato durante la sua esistenza non erano una religione, concetto peraltro assente dal giudaismo del suo tempo. Egli invitava a mutare comportamento in funzione di un profondo rinnovamento all'interno del mondo giudaico in cui viveva. Solo quando i suoi seguaci divennero in grande maggioranza non giudei, Gesù fu del tutto sottratto alla cultura giudaica. La sua dimensione umana si perse di vista quando si cominciò a considerarlo prevalentemente come un essere divino. La sua figura si trasformò allora da quella di un autentico credente quale egli era in quella di un innovatore e riformatore critico della sua cultura. Si cominciò così a perdere il senso della sua fiducia e della sua attesa nell'intervento di Dio. È a partire da questo momento che si inserisce un cuneo tra il Gesù storico e quello delle chiese successive» (p. 16). Una considerazione questa che, partendo dai risultati dell’esegesi moderna, riconosce il passo del Vangelo di Matteo (16,18), «Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa», come un’aggiunta successiva dell’evangelista, posteriore di almeno 50 anni. Considerazione dimostrata dal fatto che la parola ekklesia non compare mai negli altri tre vangeli.

Gesù e il suo movimento sono in cammino, sempre sulla strada per incontrare le persone e per muoversi nel loro contesto di vita. Il Nazareno, dunque, non era all’interno di una istituzione, e questo non gli forniva nessuna garanzia, nessuna credenziale particolare nei confronti della gente che lo ascoltava. «Egli va considerato come un predicatore marginale, cioè privo di autorità riconosciuta, non legittimato dai poteri istituzionali, senza credenziali. Poteva trovare un riconoscimento solo attraverso la reazione diretta della gente. In alcuni suscitava attrazione, speranza di poter raggiungere, mediante lui, le proprie aspirazioni. In altri provocava, come abbiamo visto, interesse, dubbio o sospetto. In altri, infine, opposizione anche mortale» (p. 98). Un predicatore marginale che si faceva portatore di un grande sogno: «Gesù non promette solo emancipazione dal bisogno o egalitarismo. Promette una nuova era» (p. 99).

Tra i capitoli più interessanti ed efficaci del libro si trova quello dedicato a L’orizzonte della commensalità, che risulta molto utile e riesce a ricostruire un immagine viva e nitida dello stile di vita di Gesù. «La commensalità era uno dei modi preferiti da Gesù per creare un contatto profondo e intimo con la gente. Anche all'interno del suo gruppo egli sembra celebrare i momenti più alti mediante una partecipazione coinvolgente alla mensa» (p. 110). Un «simbolo» – quello della commensalità – che gli autori dei vangeli presentano come strettamente «necessario per rendere comprensibile tutta la vicenda di Gesù» (p. 115).

L’analisi della vicenda di Gesù di Nazaret e del suo ambiente di vita che ci viene presentata dai due autori, tiene fortemente conto delle più recenti acquisizioni in campo antropologico; come la tesi della antropopoiesi, formulata dell’antropologo Francesco Remotti. Un’idea che diventa la chiave di lettura per comprendere meglio l’orizzonte della commensalità del predicatore galileo. Secondo la teoria del professor Remotti, infatti, «l’individuo, nascendo in una cultura, fin dai suoi primi momenti entra in un processo di sviluppo e perfezionamento garantito dall’ambiente culturale» (nota n. 52, p. 237). Così, Gesù «nel mangiare insieme vedeva un’occasione per avvicinare e condividere la vita della gente. Si può pensare che per Gesù non ci sia una forma di aggregazione sociale altrettanto forte della riunione conviviale. Fra tutti i meccanismi partecipativi (comprese le riunioni sinagogali e del Tempio), sembra che la mensa comune sia fondamentale per la ‘costruzione degli uomini’». Il momento «principale dell’inclusione e non quello dell’esclusione, in cui devono essere inseriti i più poveri e i cosiddetti ‘peccatori’» (p. 121).

Prezioso anche il capitolo Emozioni, sentimenti, desideri che, soprattutto grazie all’utilizzo degli strumenti antropologici, avvicina il lettore all’umanità di Gesù, alla sua personalità, alle emozioni che, senz’altro, gli capitò di provare: compassione, ansia, commozione, tristezza, ira, indignazione, desiderio…

L’idea centrale del libro di Destro e Pesce ruota attorno a Gesù, che «si fa conoscere anzitutto per quello che fa. Il suo messaggio è contenuto nelle sue parole, ma non può essere ridotto a esse soltanto» (p. 109), bisogna, infatti, concentrarsi nella ricerca del contesto vitale, dell’ambiente dove egli operò e visse per comprendere appieno la sua figura.

Un libro utile che presenta nuovi spiragli nella ricerca su Gesù e che, al di là delle singole interpretazioni esegetiche su cui si può sempre discutere, pone delle domande interessanti e rigorose grazie all’analisi storica supportata dall’antropologia.

Resta il fatto che «Gesù era un giudeo che rimase estraneo alle aspirazioni e ai modi di vita introdotti dalla romanizzazione» e che «di fronte alla potenza culturale di Roma fece appello all’elemento più intimo e più forte della sua cultura, cioè all’idea del potere assoluto del Dio giudaico e alla necessità che Dio regnasse prendendo possesso di tutta la terra». Una «speranza nel regno di Dio, che avrebbe combattuto ed eliminato l’ingiustizia» (p. 208). Un regno imminente di cui era urgente l’annuncio affinché la gente cambiasse vita per acquisire il diritto ad entrarvi.
(G.G.)

• Mauro PESCE - Adriana DESTRO, L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, 2008, pagine 257, 18 euro.



Un'altra recensione si trova QUI:


Le dodici tesi del libro:

1. Il primo messaggio di Gesù è il suo stile di vita (itinerante, senza lavoro, senza famiglia, senza casa e senza possedimenti). Una novità del libro sta nel mettere in primo piano la pratica di vita di Gesù mentre altri libri si concentrano sulle parole di Gesù o su alcuni eventi isolati.

2. Gesù era contrario alla romanizzazione della Terra di Israele e contro la romanizzazione ha fatto appello agli elementi centrali della sua cultura giudaica (in particolare l’idea del regno del Dio tradizionale degli ebrei su tutta la terra). Il suo annuncio del regno di Dio è una riposta giudaica creativa alla romanizzazione. La sua risposta è stata vincente, perché alla lunga il cristianesimo si è impadronito dell’Impero Romano.

3. Gesù era un uomo di villaggio che evitava le città (che erano ellenizzate e romanizzate) e frequentava solo i piccoli centri e le strade secondarie, per spingere gli ebrei alla conversione.

4. Gesù non crea una chiesa: il suo gruppo si incunea all’interno delle famiglie e non dà vita un’associazione autonoma e si rivolge solo agli Ebrei.

5. Il corpo di Gesù è il luogo principale dell’incontro della gente con lui (corpo normale, ma anche corpo taumaturgico, guaritore, corpo che possiede una luce speciale che si manifesta nella trasfigurazione, corpo senza peso che cammina sull’acqua)

6. Non sappiamo nulla dell’immagine fisica di Gesù, cancellata dall’immagine del corpo degradato e crocifisso e da quella del corpo risorto

7. Gesù evita modi di comunicazione indiretta (come la scrittura). Cerca di avere solo incontri diretti con le persone faccia a faccia e soprattutto a tavola. La commensalità è per lui la manifestazione più alta della convivenza umana.

8. Gesù era un uomo solo. Certo, egli cercava sempre l’incontro della gente, ma periodicamente si isolava per momenti di solitudine, per pregare e per un contatto con Dio fatto di rivelazioni e visioni. Molto dalla sua vicenda personale è rimasta perciò ignota ai suoi discepoli e ai vangeli.

9. Gesù predicava Dio, ma gli uomini attirati dal suo messaggio e dalla sua potenza di guaritore cercavano lui. Gesù non voleva essere una guida di masse, ma le folle si coagulavano attorno a lui. Non voleva essere una guida popolare, ma lo fu contro la sua volontà.

10. Gesù non controllava gli avvenimenti provocati dalla sua azione, voleva che il regno di Dio si manifestasse mentre egli era ancora vivo, ma invece dovette accettare il destino doloroso della sua sconfitta e della sua morte, interpretandola come un volere di Dio.

11. Uno dei lasciti più importanti per la cultura dei secoli successivi era il suo modo di reagire interiormente alla sofferenza degli uomini. Gesù ha insegnato ai discepoli a provare le emozioni interiori che portano ad agire a favore degli uomini.

12. I vangeli sono documenti storicamente attendibili, e su di essi si può ricostruire con solidità la storia di Gesù. Vanno però sottoposti alla critica storica perché contengono divergenze, non sono opere di testimoni oculari e le occasioni storiche e geografiche in cui gli eventi della vita di Gesù si svolsero sono per loro in genere incerte. Non solo i vangeli canonici, ma molte opere cristiane antiche sono utili per ricostruire la vicenda storica di Gesù.


domenica 7 dicembre 2008

Commento al vangelo di domenica 7 dicembre 2008

Cominciare (e continuare) a gridare


Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.
Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,

si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». (Marco 1,1-8)


Inizia la buona notizia

«Inizio dell’euanghélion di Gesù»: con queste parole comincia il Vangelo di Marco, il racconto della vicenda storica di Gesù. Marco – che può essere considerato l’inventore del genere letterario «vangelo» – inizia la buona notizia (l’evangelo) e lo annuncia alla sua comunità.
Da una parte la buona notizia consiste nell’annuncio di Gesù, della sua vicenda storica, del suo messaggio e della sua predicazione (che è stata essenzialmente l’annuncio del Regno di Dio); dall’altra parte questa buona notizia annunciata dall’evangelista riconosce già una speranza in Gesù: egli è il «Cristo, Figlio di Dio», cioè il messia, colui che è stato unto dal Signore per una missione speciale, atteso dal popolo di Israele per «portare il lieto annunzio ai miseri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61,1-2).
Marco fa di questo appellativo, Figlio di Dio, il leitmotiv di tutto il suo vangelo. Egli è interessato a stabilire l’identità di Gesù, dall’inizio del vangelo fino al riconoscimento dell’ufficiale pagano ai piedi della croce che dice: «Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (Mc 15,39b). La parola «inizio» utilizzata da Marco richiama comunque l’idea di una realtà che incomincia e continua, al di là della vicenda storica di Gesù e della sua missione messianica.


Preparare la strada

Subito dopo il titolo, Marco fa un’ampia citazione biblica, un collage di tre passi del Primo Testamento: il verso 2 («Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada») riprende e fonde Esodo 23,20 e Malachia 3,1; il verso 3 («Voce di uno che grida nel deserto…») corrisponde a Isaia 40, 3.
Queste citazioni servono a Marco per mettere direttamente in relazione la venuta di Gesù con i momenti cruciali della storia di Israele, la storia della salvezza; i momenti in cui Dio è intervenuto in favore del suo popolo: la liberazione dalla schiavitù egiziana (Esodo), la liberazione dalla schiavitù babilonese e il ritorno in patria (Isaia), la restaurazione escatologica (Malachia).
Marco dunque ripropone queste promesse e le fa sue, e della sua comunità. Egli vede in Gesù il messia che ricapitolerà tutte queste promesse di Dio compiendo definitivamente la promessa finale, l’instaurazione del Regno di Dio.
Ma questa citazione biblica, con cui Marco inizia il suo vangelo, può essere riferita anche all’opera di Giovanni il Battista, vicenda elencata subito dopo. Egli, infatti, può essere visto come il «precursore» di Gesù, il banditore che «grida nel deserto» per «preparare la strada» al «Signore», colui che si mette alla testa di tutti gli esuli per condurli alla liberazione definitiva. In questo senso Giovanni viene visto, nella tradizione cristiana, come una figura funzionale a Gesù, che ne prepara l’avvento. L’annunciatore è in funzione dell’annunciato e così, se nella citazione di Isaia la strada che bisogna preparare è per Dio («il Signore»), in Marco colui che deve venire è Gesù.


Il Battista

Proprio per queste ragioni di identificazione tra Giovanni e il «banditore» di Isaia, egli viene presentato come colui che «battezza nel deserto» («Voce di uno che grida nel deserto…»). Un’altra identificazione che viene fatta è quella tra Giovanni ed Elia: infatti, anche Elia viene descritto come «uomo peloso e cinto ai suoi fianchi da una cintura di cuoio» (II Libro dei Re 1,8), mentre in Zaccaria (13,4) la veste tipica dei profeti era «il mantello di pelo». Dunque Giovanni è «il profeta» per antonomasia, e nello stesso tempo quell’Elia che si attendeva come precursore della venuta escatologica di Dio.
Dopo la descrizione di Giovanni, l’evangelista presenta il contenuto del suo annuncio: sta per venire il più forte con la pienezza dello Spirito. L’immagine del «più forte» evoca le speranze messianiche dell’eroe divino che salva il popolo e lo libera.
Il battesimo d’ora in poi sarà fatto con lo Spirito Santo, e non con l’acqua. Questo fa capire che il personaggio atteso appartiene ai «tempi ultimi», i tempi in cui era prevista l’effusione dello Spirito secondo le profezie (Gl 3,1 ss.; Is 44,3).


Una voce che grida…

«Voce di uno che grida…». In queste parole è contenuta una delle più belle immagini della bibbia, della profezia biblica. Due diverse interpretazioni sono state date a questa citazione riportata in Marco. Nel testo di Isaia la citazione viene riportata come:

«Una voce grida:
nel deserto preparate la via del Signore!
Raddrizzate i suoi sentieri…». (Is 40,3)

Il profeta, infatti, annuncia di preparare il rientro in Palestina dopo l’esilio babilonese, di prepararsi per un viaggio difficoltoso tra deserto, steppa e alture. Questo dunque è un grido di gioia, che deve essere sentito da tutto il popolo. Un grido di speranza.
Nella versione di Marco il testo viene citato cambiando la punteggiatura di una virgola, di due punti, e diventa:

«Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri» (1,3).

In Marco – come abbiamo già visto – il precursore, l’annunciatore messianico è colui che «grida nel deserto», Giovanni il Battista, e questo viene reso attraverso un espediente letterario tipico della cultura ebraica, fatta di citazioni e rimandi, sempre all’interno del testo e della tradizione biblica.
Ma viene da chiedersi: chi, nel deserto, può ascoltare la voce di uno che grida? Anche se grida, chi può sentirlo? Sono forse le urla di un disperato o di un pazzo? Questi interrogativi ci pongono di fronte ad un’angoscia. L’angoscia che Gesù stesso provò nel Gestémani, quando ormai aveva compreso che il suo grido era rimasto inascoltato, fino all’abbandono, al tradimento di chi, come Giuda, voleva subito il suo posto nel Regno, un tornaconto immediato; e al rinnegamento di chi, come Pietro, avrebbe dovuto essere il testimone privilegiato del suo messaggio – secondo la tradizione il fondamento della «sua» chiesa.
Tradimenti, pervertimenti, rinnegamenti che appartengono prima di tutto alle strutture chiesastiche; a chi vuole farsi portatore e difensore delle cosiddette «radici cristiane» della cultura occidentale; a chi pensa che il messaggio evangelico sia secondario rispetto alla «tradizione». Una tradizione che, invece di essere un fiume di acqua viva e fresca, è diventata un rigagnolo fetido e mortifero, inquinato da ogni sorta di nefandezza.
Sono questi tradimenti che hanno pervertito (come diceva Ivan Illich) il messaggio della fede nel Dio di Gesù. La perversione di chi per salvaguardare i propri interessi scellerati arriva ad affermare la negazione della libertà di amare, che è la libertà del samaritano. Una perversione che ha camminato lungo tutta la storia e che è giunta fino a noi: dai roghi delle streghe e degli eretici fino alla condanna degli «amori diversi» e all’alleanza con quei poteri «diabolici» che uccido uomini e donne perché gay, perché lesbiche, perché trans. Non dobbiamo pensare però che questi tradimenti appartengano soltanto alle strutture istituzionali: il rischio di tradire e pervertire il messaggio dell’evangelo è sempre vivo anche nei singoli individui.
E anche se la parola profetica resta un grido nel deserto, una voce inascoltata, non bisogna astenersi dal pronunciarla ricordando il messaggio di Gesù. Lo stesso messaggio a causa del quale fu condannato a morte, e alla morte di croce. Ed è sulla croce che, in definitiva, si ripropone il grido della profezia, un grido che tuttora resta inascoltato.


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