venerdì 3 settembre 2010

Commento al vangelo di domenica 5 settembre

La libertà degli “spostati”


Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. (Lc 14,25-33)


“Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Cos'è questa richiesta di Gesù di rinunciare a tutto per lui? Appare sproporzionata, fuori da ogni ragionevolezza e da ogni buon senso. Chi è lui per chiedere così tanto: odiare madre, padre, moglie, marito, figli e fratelli; caricarsi della propria croce; rinunciare a tutti i propri averi? Si tratta di condizioni che pochissime persone potrebbero accettare. Rinunciare ai propri affetti, ai propri beni, al proprio orgoglio: per chi, per che cosa? E quale garanzia sarebbe offerta a chi accetterebbe di compiere questa enorme spoliazione? Non è specificato, almeno in questo passo; il Regno di Dio? Sì, ma cos'è? Ne abbiamo soltanto sentito parlare, chi sa davvero di cosa si tratta?

Questo repertorio di sentenze e considerazioni sull'atteggiamento del discepolo che l'evangelista pone in bocca a Gesù sono da leggere, probabilmente, come un'esortazione rivolta a una comunità di discepoli ben precisa, quella a cui Luca si rivolge. Alla creazione dell'identità collettiva di una chiesa. Parole specifiche per persone specifiche in un contesto specifico, insomma.

Eppure, l'apparente irragionevolezza delle parole del Nazareno si scontra con un ragionamento, una restituzione di senso, quasi un calcolo razionale: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.

Ma qual è il prezzo di tanto sforzo? E per cosa poi? Come si può rinunciare a quelle cose, anche di poco conto, anche minute, di cui ci circondiamo, e che comunque danno un senso alla nostra vita. A una prima lettura, sembra quasi che Gesù non dia nessun valore alle cose. Eppure, in realtà, egli gliene dà tantissimo. Perché è alle cose che bisogna rifiutare per seguirlo.

Provate a dire a chi è in difficoltà, a chi non ha lavoro, a chi è precario, di rinunciare alle poche cose che possiede perché è l'unico modo per seguire Gesù. Vi riderà in faccia, oppure vi prenderà per pazzo, o per fanatico. Questo passo del Vangelo, pertanto, è pericolosissimo. Innanzitutto perché è tra quei brani che hanno contribuito alla creazione, nei secoli, di una certa visione pauperistica della chiesa che tanti danni ha provocato: primo fra tutti lo scarso riconoscimento che spesso viene dato nelle nostre comunità alla fatica, al lavoro e all'impegno delle persone. Tanto che le chiese non sono esenti (e in questo non sono affatto dissimili dal resto della società) dal precariato e dallo sfruttamento del lavoro delle persone; con tutto ciò che comporta. Si instaurano così relazioni di dominio, per cui la libertà e il coraggio della parola vengono sacrificati sull'altare dell'opportunità, della dipendenza economica; alimentare quasi. Che fa dire: “tengo famiglia”.

Basterebbe, allora, rinunciare a tutto per essere liberi e autentici discepoli di Gesù? Abdicare ad ogni dipendenza materiale dall'istituzione? L'invito di Gesù a seguirlo, ad essere suo discepolo, non può che essere personale: tu rinuncia, se vuoi seguirmi. E non: voi rinunciate. In un rapporto personale, segnato dall'amicizia, le relazioni che si creano (anche di dominio) sono comunque – se il rapporto è sano – frutto di una scelta reciproca. Allora sì che un individuo può anche scegliere di rinunciare a qualcosa (o a tutto) per andare incontro a un altro suo simile. Si stabilisce una relazione di proporzionalità tra le rinunce dell'uno e dell'altro. Ma se la rinuncia è fatta in nome di una comunità, di un gruppo, di una collettività, ecco che l'individuo si troverà comunque succube, dominato, in balia di un vento che non riesce a controllare. La comunità sceglierà per lui, e lui non potrà mai scegliere per il gruppo. Si infrange così la scelta, libera e proporzionata, di un reciproco scambio, che è ciò che contraddistingue le relazioni di amicizia; dono che non necessariamente dev'essere simmetrico, ma piuttosto dissimmetrico.

Ed è per questa miopia, per questa confusione, per questa prospettiva ingannevole che spesso le nostre chiese diventano luoghi di dominio delle coscienze, di violenza e di soggezione. Perdendo di vista la relazione primaria che deve costituirsi, nella libertà, tra le persone: l'amicizia.

L'esempio di una dissimmetria (cioè di un rapporto che nasce necessariamente tra persone diverse, mai uguali in tutto e per tutto, mai omologate; ma che assumono su di sé la propria unicità in un reciproco riconoscimento, facendone il punto di partenza del loro rapporto, libero; la loro ragione di esistere) ci viene dato dall'atteggiamento del Samaritano.

La prospettiva assunta da quest'uomo ci fa scorgere la possibilità di nuove proporzioni, di nuove relazioni tra le persone. Questa storia ci fa capire che io sono “io” nel senso più profondo e più pieno che mi sia dato per essere “io”, proprio perché tu, permettendomi di amarti, mi dai la possibilità di essere co-relativo a te, di essere dissimmetricamente proporzionato a te. Io sono perciò libero di accettare chi io voglio, di scegliere da chi mi lascio dare la possibilità di amare. Questa prospettiva spalanca le porte verso un paesaggio che sinora non era mai stato scorto, né da Platone né da Aristotele né dai misteri greci. E quindi rinunciare ai propri averi, tenere in odio i propri affetti, assume un nuovo significato: sgombrare il campo da ogni ostacolo in grado di intralciare la nostra libertà di scelta.

Lasciarsi ferire dalla differenza delle persone che ci sono amiche è possibile soltanto se mettiamo da parte, per un momento, la corazza che portiamo addosso quando camminiamo per le strade affollate delle nostre città (e diverso sarebbe se camminassimo in montagna, dove a ogni raro e casuale incontro segue un saluto, anche con lo straniero, con lo sconosciuto; e la nostra corazza è un po' più sottile).

Le relazioni tra gli uomini e le donne stentano ad essere colte, o sfuggono non appena vengono colte: questo è il senso della “dissimmetria”, che è corrispondenza in tutto, ma lievemente distaccata, “spostata”. Dio ha creato un mondo che è “spostato”, disallineato. E questo significa trovarsi “nudi” di fronte al proprio amico (stando però attenti al rischio – ché non sempre è bene – di trovarsi indifesi e spogli in una fossa di leoni, dove la scelta non è possibile perché non si tiene conto della persona).

Rinunciare a tutto per seguire Gesù, allora, può voler significare proprio questo: la nudità: un atteggiamento etico, l'unico possibile in questo mondo, dove non è più possibile considerare le cose fuori da relazioni di compra-vendita, di dominio, di violenza; dove la parola “gratuità” è diventata impossibile da pronunciare, insieme a un'altra parola: virtù. Perché è inutile nasconderci che questo modo di porsi di fronte alla vita richiede un addestramento faticoso, che gli antichi chiamavano askesis (ascesi). Non nel senso di una rinuncia, che spesso diventa fine a se stessa o finalizzata all'esaltazione narcisistica della propria probità, ma nel senso di una austerità, di una liberazione progressiva da ogni strumento, oggetto utile o pensiero che ci rende difficoltoso l'agire con gratuità e semplicità; condizioni che il vangelo ci chiede: gesti di carità, di fede, di speranza.

giovedì 13 maggio 2010

Documento delle Comunità di base sulla Sindone

Non è qui, è resuscitato(Lc 24,5-6)


Abbiamo un sincero rispetto delle molte migliaia di cristiani che in questi giorni vengono a Torino per vedere la sindone. Non giudichiamo la fede di chi, vedendo l’immagine di un corpo martoriato impressa in un vecchio lenzuolo, prova emozione, si sente confortato nella sua fede. Non ci permettiamo di giudicare la fede di nessuno.

Né ci interessa argomentare sull’autenticità del “sacro lino”, anche se concordiamo con chi ritiene che non abbia veramente avvolto il corpo di Gesù.

Come cristiani e cristiane appartenenti a piccole comunità sparse per il Piemonte (a Chieri, Torino, Pinerolo, Piossasco, Alba, Cuneo) riteniamo che i vertici della chiesa cattolica abbiano perso una occasione per ricordare al popolo dei credenti che Gesù non lo incontriamo in un lenzuolo ma nella vita, nella sofferenza, nelle lotte e nelle speranze dei poveri, perché Gesù è vivo, è presente nella storia.

Crediamo che non ci sia bisogno di immagini per vivere la fede: Dio si rivolge a noi con la forza della sua parola che ci richiama a cercarlo tra i vivi, a testimoniarlo tra le tante persone che vivono con fatica.

Riteniamo invece gravissima la scelta del vescovo di Torino di utilizzare la sua autorità per concedere alle donne che, nei giorni dell’ostensione della sindone, confessano a un prete di aver abortito, l’automatica cancellazione della scomunica che, altrettanto automaticamente, era stata loro comminata. Gesù aveva affidato la responsabilità di “legare e sciogliere” alla comunità intera, in una relazione di amore reciproco che è il cuore della sua preghiera eucaristica, così come leggiamo nel Vangelo di Giovanni: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato” (Gv 15,12). Davanti a lui nessuno aveva tirato la pietra a quell’adultera... Invece questa responsabilità comunitaria è stata trasformata in un “potere” esclusivo dei “sacri gerarchi”.

Viene utilizzata l’occasione dell’ostensione per arrogarsi il diritto di condonare una scomunica, data arbitrariamente per un atto così delicato che provoca enormi sofferenze alle donne che lo vivono.

Ci limitiamo a constatare quanto poco amore evangelico ci sia in queste assurde scelte della gerarchia.

La gerarchia della chiesa cattolica insiste nel culto delle reliquie; non ci stupisce, ma ci amareggia profondamente, perché così facendo sposta l’attenzione dei fedeli dalla testimonianza alla superstizione.

Noi, cristiani e cristiane delle comunità di base del Piemonte, con umiltà pensiamo che nell’oggi difficile che stiamo vivendo non dobbiamo cercare il volto di Gesù nelle immagini e nelle reliquie, ma nel volto del nostro prossimo, qualunque sia la sua cultura o la sua fede. Solo tentando di vivere la fede in Gesù in questo modo, nella fatica di tutti i giorni, possiamo essere un segno, una testimonianza utile a costruire una società meno divisa, più accogliente, più cristiana.

Le comunità cristiane di base del Piemonte

maggio 2010


giovedì 11 marzo 2010

Al papa non piace Gioacchino da Fiore: nella chiesa non c'è spazio per l'utopia

Pubblichiamo l'articolo di Enzo Mazzi, tratto da il manifesto dell'11 marzo, dove si analizzano le prese di posizione di Ratzinger contro le spinte utopiche nella storia della chiesa. L'articolo, condivisibile per molti versi, mostra l'atteggiamento miope e limitato del "pastore tedesco", il quale non fa mistero di ispirarsi ad una visione filosofico-culturale figlia di certo agostinismo. Portatore di una visione ristretta della storia dell'occidente e della modernità, il Papa si pone completamente al di fuori di ogni riflessione sull'ermeneutica, di cui Gioacchino fu uno dei massimi precursori; dimostra inoltre di non condiderare - e di non (ri)conoscere - quella preziosa corrente sotterranea che ha attraversato i secoli, nutrimento fondamentale della cultura occidentale, che Henri de Lubac definì La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.


Lo scandalo del sacro
di Enzo Mazzi

Questo montante dilagare dello scandalo della pedofilia nel cuore della istituzione ecclesiastica cattolica a tutte le latitudini pone gravissimi problemi al senso di appartenenza ecclesiale in settori sempre più ampi del cattolicesimo mondiale. Il potere ecclesiastico, che per lunghi anni ha cercato colpevolmente di nascondere il fenomeno dietro una cortina di silenzio, sembra aver capito che il tempo dell'onnipotenza del mondo del sacro è ormai finito. L'abito talare, lo zuccotto rosso o la tiara papale non garantiscono più la immunità di fronte alla giustizia terrena. E il potere della informazione ha stracciato definitivamente il «velo del tempio» penetrando impudicamente nelle oscurità delle sacrestie, dei collegi cattolici, dei conventi, e perfino dei palazzi apostolici.

Di fronte a un quadro così complesso, che richiederebbe tanta saggezza, capacità di rinnovamento e lungimiranza, è sconcertante che i massimi vertici della gerarchia cattolica si attardino ancora nel riproporre i vecchi schemi della unicità-perennità della Chiesa e del centralismo-assolutismo del papato. E che continuino a guardare con sospetto a ciò che si muove alla base della Chiesa e a tentare ancora la via ormai anacronistica della repressione verso lo sviluppo del conciliarismo. «Ogni volta che nella Chiesa si affronta un periodo di declino - ha detto il papa ieri - si affaccia anche un utopismo spiritualistico», che porta alcuni a sognare la nascita di una «altra Chiesa». Una sorta di «utopismo anarchico», come quello ispirato nel Medioevo da Gioacchino da Fiore, si insinuò nel Concilio Vaticano II, ma «grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro hanno saputo difendere, con le novità del concilio, anche l'unicità della Chiesa».

Quello che il papa vede come un pericolo è da molti ormai considerato come l'unica possibilità di futuro per una fede cristiana liberata da dominio medioevale del sacro.

Gioacchino da Fiore, vissuto nella seconda metà del XII secolo, monaco del monastero cistercense di S.Giovanni in Fiore, nella Sila, si rese interprete delle attese delle classi umili del tempo. A cominciare dagli inizi del secondo millennio era avvenuta una grande trasformazione della società feudale: il declino del sistema di dipendenza della servitù della gleba e la nascita di comunità di villaggio dotate di autonomia e formate da contadini non più servi della gleba. Questo porta una nuova cultura, la cultura della cooperazione e della solidarietà. È in questo clima che il monaco cistercense Gioacchino da Fiore lancia l'annuncio della liberazione da tutti i poteri che in diversi modi dominano dall'alto e l'avvento di una società dello Spirito e dell'amore universale. Un annuncio che in diverso modo nutrirà tutte le rivoluzioni moderne, come ci dicono molti storici autorevoli. Tracce della profezia di Gioacchino da Fiore si ritrovano nel modernismo a cui guardava con simpatia papa Giovanni e nei movimenti della liberazione post-moderna come ad esempio nella riflessione di un Teillard De Chardin, nelle comunità di base e nella Teologia della liberazione.

Altro che utopismo anarchico. È il futuro che si delinea. Utopismo lontano dalla realtà appare piuttosto questa insistenza nel blindare la Chiesa nel bunker del sacro illudendosi che in tal modo essa possa sfuggire alle sfide della secolarizzazione. Gli orrori della pedofilia così come tutto il marcio che emerge dal buio degli spazi sacri non si può più affrontare con quell'assolutismo gerarchico che è la radice stessa dei mali della Chiesa. Occorre aprire porte e finestre allo Spirito che alimenta i «segni dei tempi».

giovedì 4 marzo 2010

Commento al vangelo di domenica 7 marzo

Certe verità dabbene. Giudizio di Dio o giudizio dell’uomo.

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». (Luca 13,1-9)

I muri scarabocchiati della casa di Alda Merini

Quei tali che si presentano da Gesù per «riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici» vogliono che egli si esprima su questi episodi violenti e che prenda posizione contro Pilato. Quegli uccisi erano presumibilmente membri del movimento zelota, il quale sosteneva la lotta armata contro l’occupazione romana. «Cosa pensi tu, Gesù, di questi zeloti? Sono buoni o sono cattivi?», domandano questi che gli si avvicinano. «Sono bianchi o sono neri, da che parte stanno?», sembrano chiedere «e, soprattutto, tu da che parte stai?». Gesù non risponde alle loro domande. Gesù non risponde mai alle domande con una affermazione netta, chiara. Verrebbe da dire: che uomo antipatico doveva essere! – uno che risponde ad una domanda con un’altra domanda: dà sui nervi. Probabilmente è l’atteggiamento del Sapiente che lo richiede, ma facilmente è anche la consapevolezza della complessità del mondo; l’esperire la difficoltà della strada che porta all’autenticità. Se volessimo fare una sintesi del messaggio di Gesù, forse, potremmo usare – semplicemente – questa parola: autenticità. Una parola che diventa la chiave di lettura di una vita, la vita di un poeta, di un artista.

Ecco allora che il Profeta mette in discussione quella domanda che mal posta si insinua nella mente della gente, frutto della mentalità farisaica che stabiliva una perfetta equazione tra peccato e castigo: se gli zeloti hanno fatto quella fine avranno senz’altro combinato qualcosa di male e Dio si è vendicato. E però, pensare che i farisei, o chi per loro ha posto la domanda sul delitto e sul castigo irrimediabilmente giusto, siano dei «cattivi» non è corretto, non è giusto. I farisei non sono né buoni né cattivi, anche se il testo del vangelo gioca sulle contrapposizioni. Ci saranno stati farisei buoni e farisei cattivi (quest’ultimi, viene da pesare, invero pochi). Genuinamente, Gesù risponde loro mettendoli di fronte alla contraddizione: «Pensate davvero che questi che Pilato ha fatto uccidere, o quegli altri sui quali è crollata addosso la Torre di Siloe e sono morti, siano colpevoli di qualcosa? Colpevoli più di voi? Colpevoli più di tutti?».

Ognuno, uomo o donna, vive nella sua vita una difficoltà: lo sforzo verso l’autenticità, nonostante la contraddizione, nonostante la tensione tra il detto e il non-detto, tra ciò che si è (o ciò che crediamo di essere) e ciò che gli altri percepiscono di noi. Gesù lo sa, conosce questa «rottura», questo «smarrimento». Certo, appare blasfemo parlare di uno smarrimento di Gesù, di una sua sconfitta, lui che doveva essere il Messia.

Pensate al popolo di Israele, che attende ancora il suo messia, che aspetta ancora qualcuno che venga a liberarlo dal giogo della dominazione straniera, e intanto fa la guerra in nome di un messia; pensate a quante manifestazioni del sacro la gente afferma di vedere e di conoscere, e intanto stenta ad amare; a quanti dicono di sapere come Dio agisce, chi è a lui gradito e chi no, chi sono i dannati e chi sono i salvati, e intanto non perdona. È questo l’atteggiamento dei farisei, di ieri e di oggi: «noi sappiamo chi si merita la punizione di Dio, noi siamo dalla parte del bene e del vero, noi abbiamo la verità». Ma non credete a chi vi dice di avere la verità! La verità non si scorge dietro una curva, non si riflette in uno specchio; bisogna masticare tanto per sentirne un po’ il sapore, tutti i giorni, con difficoltà.

Ladrone, part. da Antonello da Messina

Eppure i farisei, di oggi e di ieri, sono «buoni», sicché possono giudicare ed esercitare «il potere dei più buoni». Ma, per fortuna, autenticità non corrisponde a probità – non del tutto almeno – come invece sembra supporre uno dei teologi più alla moda del momento nel suo ultimo libro La vita autentica. Non basta essere «buoni», soprattutto quando questo «essere per il bene» è conseguenza di certa dabbenaggine borghese (uso questo aggettivo volutamente, nonostante molti ritengano questa parola sorpassata e inservibile) piuttosto che di una vita autentica ancorata alla difficoltà dell’esistenza. La difficoltà di chi quotidianamente si trova a dover fare i conti con la contraddizione che abita il proprio cuore, con i propri errori, le proprie debolezze.

Gesù fu messo a morte perché metteva a nudo le debolezze di ogni accusatore, di ogni inquisitore, di ogni giudice; di chi si aspetta risposte o tutte bianche o tutte nere: risposte facili. Non ci sono risposte facili, ci sono risposte autentiche. «Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai»: ci sono risposte che aprono possibilità, non sentenze definitive; ci sono atti di misericordia e di pietade (dire semplicemente pietà, ormai fa pietà), non giudizi insindacabili. Un fico sterile allora diverrà opportunità di riscatto, ché è più facile ammirare un albero in fiore che sentirsi muovere qualcosa nelle viscere per una pianta rinsecchita, incapace ormai di dare frutto.

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