giovedì 8 novembre 2007

Documento dei domenicani olandesi sul problema del ministero e della celebrazione dell’Eucaristia

Verso una Chiesa che abbia un futuro

Durante il capitolo provinciale dei monaci domenicani olandesi, tenutosi a giugno 2005, è stata discussa una mozione presentata da alcuni gruppi di domenicani olandesi, il cui testo è riportato qui di seguito:

Chiediamo pertanto al Capitolo di istituire al più presto un comitato o un gruppo di lavoro di esperti, che abbia come obiettivo lo studio degli aspetti teologici della questione se la celebrazione dell’Eucaristia dipenda esclusivamente da un ministro ordinato o se sia possibile che la comunità ecclesiale o i pastori da essa scelti celebrino l’Eucaristia per loro conto.

Al Capitolo questa mozione è stata supportata al punto che ne è derivata una risoluzione contenuta negli Atti del Capitolo, intitolata “Le parrocchie alla luce di una nuova visione della Chiesa”

Un centro di fede e spiritualità può essere una nuova forma di chiesa. In una assemblea così composta ci potrebbe essere anche l’esigenza di celebrare l’Eucaristia. Questo desiderio è presente anche in quelle assemblee in cui non è attualmente possibile celebrare a causa della mancanza di un ministro ordinato. Quindi, richiediamo che venga istituita un commissione o un gruppo di lavoro al più presto, che avrà il compito di studiare gli aspetti teologici della questione se la celebrazione dell’Eucaristia dipenda esclusivamente da un ministro ordinato o se sia possible che la comunità ecclesiale o i pastori da essa scelti celebrino l’Eucaristia per loro conto. Questo studio dovrebbe portare alla definizione di un documento che indichi chiaramente una direttiva, che i domenicani olandesi metterebbero a disposizione poi di tutta la chiesa olandese, alle parrocchie e ai centri di fede e spiritualità, con l’obiettivo di creare un dialogo aperto fra tutti i soggetti coinvolti. Il comitato dovrebbe inoltre definire una strategia che faciliti tale dialogo.

Questa Commissione ha iniziato il suo lavoro visitando numerose parrocchie, per vedere come la gente rifletta su questi temi (eucaristia, ministero ordinato, ndt), quale realtà si trovino davanti nella loro attività parrocchiale, e come vedano lo sviluppo della situazione per il futuro. La Commissione non ha trovato in nessuna di queste parrocchie un’assoluta unanimità. Hanno posto domande e sollevato dubbi ed erano incerti su come procedere.

Tuttavia, su alcuni temi sembrava esserci un consenso di fondo, soprattutto sull’atteggiamento nei confronti delle concrete politiche adottate dalla gerarchia della Chiesa in varie diocesi olandesi, che sono in generale considerate di difficile applicazione. Molti dei fedeli provano un sincero disagio per la presente condizione, spesso percepita come dolorosa e scoraggiante. Apparentemente c’è il desiderio di chiarificare i veri temi in discussione. Questo documento rappresenta un primo tentativo per chiarirle. Il testo è stato redatto dalla commissione istituita dai membri della provincia: André Lascaris, Jan Nieuwenhuis, Harrie Salemans e Ad Willems. In termini chiari e comprensibili essi hanno tentato di fare luce sui vari aspetti del problema: l’immagine della Chiesa, i sacramenti e specialmente l’Eucaristia, il ministero e coloro che presiedono le funzioni liturgiche.

Questo documento è stato accettato dagli amministratori della Provincia olandese dei Domenicani e viene distribuito da loro. Non va inteso come una presa di posizione dottrinale o come un manuale, ma come un contributo per un dibattito rinnovato ad un livello più profondo. Vuole aiutare a trovare una via d’uscita all’impasse attuale e a dare avvio, se possibile, a una consultazione che possa migliore l’esperienza di fede di molti.

11 gennaio 2007,

Il Consiglio Provinciale della Provincia Olandese Domenicana

1. La situazione

Chiunque voglia avere un quadro complessivo della situazione attuale di "Chiesa e ministero", troverà opinioni e pratiche divergenti tra coloro che sono stati direttamente coinvolti nell’organizzazione o supervisione di assemblee ecclesiali dentro o fuori le parrocchie. Soprattutto, è chiaro che c’è una differenza fondamentale tra, da una parte, l’opinione e la pratica di chi ha un’autorità ufficiale e, dal-l’altra, la pratica quotidiana di coloro che ogni settimana sono responsabili della celebrazione nella propria comunità ecclesiale.

I paragrafi seguenti presentano una descrizione, sebbene non definitiva, dello stato attuale delle cose riguardo l’esercizio quotidiano e lo svolgimento dei doveri ministeriali.

La attuale situazione

La gerarchia ecclesiastica persegue una politica rigida e stabilita specialmente riguardo ai presidenti delle celebrazioni eucaristiche – a volte anche riguardo l’amministrazione di altri sacramenti -, che prevede che solo un prete ordinato può presiedere la celebrazione dell’Eucaristia, l’Unzione degli Infermi, nonché fare omelie. In assenza di un ministro ordinato la celebrazione eucaristica è fuori discussione.

Non molto tempo fa questa posizione fu riportata in un articolo sul Trouw del 25 marzo 2006 in questi termini: “Secondo la dottrina della chiesa i cosiddetti ‘Servizi della Parola e della Comunione’ sono secondari: mentre stai seduto in chiesa l’Eucaristia ti passa oltre. Un operatore pastorale, naturalmente, non può da solo ‘trasformare’ pane e vino nel corpo e sangue di Cristo. Lui/lei possono soltanto distribuire le ostie precedentemente consacrate nella celebrazione da un prete”. Poco tempo dopo il Vescovo di Hertogenbosh, A Hurkmans, responsabile dell’ufficio liturgico della Conferenza dei Vescovi, scrisse sulla stessa testata: “I Servizi della Parola e della Comunione” possono avere una loro valenza in paesi in cui la celebrazione eucaristica sia realmente impossibile. Ma qualora questi servizi divenissero una procedura fissa e consolidata come alternativa valida al posto dell’Eucaristia, sminuiremmo il significato dell’Eucaristia stessa nella vita della Chiesa. Ne risulterebbe che le chiese del domani sarebbero costruite senza la necessaria stabilità” (6 aprile 2006).

Questa posizione non sembra condivisa da una larga fetta di ‘operatori’ sul campo. Molte parrocchie e gruppi di fedeli si stanno confrontando con l’evidenza che oggi o nel prossimo futuro, non avranno un ministro ordinato a disposizione e non ci sarà rimedio a questa situazione. Le autorità della Chiesa cercano di porre rimedio alla mancanza di preti sia importando preti stranieri, oppure attraverso un processo di ‘regionalizzazione’: accorpando le parrocchie di una stessa area, facendo in modo che il parroco segua più realtà. Molte comunità sono a dir poco scontente di questa situazione e cercano ogni soluzione possibile per modificare questa politica.

Una obiezione importante da parte delle comunità a questa politica è che in questo modo la gerarchia ecclesiastica cerca di proteggere l’attuale forma di ministero presbiterale a scapito del diritto dei fedeli di accedere all’Eucaristia. Secondo il punto di vista ufficiale, utilizzare le formule eucaristiche approvate dall’istituzione non solo è più importante della comunità dei fedeli, ma sembra essere un potere appannaggio esclusivo dei preti ordinati.

Molte parrocchie e comunità ecclesiali contestano questa struttura, non solo a causa delle attuali necessità, ma anche in relazione al valore dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II in merito all’amministrazione dell’Eucaristia. La posizione ufficiale riguardo l’amministrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti è oggi ritenuta critica. Questo documento vuole prima di tutto identificare la natura di questa crisi e, nei capitoli successivi, identificare nelle Scritture e nella tradizione una base per ipotizzare possibili soluzioni.

Ostacoli dell’attuale situazione

Per poter risolvere il dilemma fin qui descritto molte parrocchie e comunità ecclesiali fanno esse stesse una distinzione tra ciò che si intende come ‘celebrazione dell’Eucaristia’ e il ‘Servizio della Parola e della Comunione’. Nella Celebrazione Eucaristica presiede un prete ordinato; nel ‘servizio’ presiede qualcuno che non è prete. Questi non pronuncia le parole di consacrazione ma distribuisce le particole precedentemente consacrate. La differenza tra queste due forme di liturgia viene annunciata all’inizio, così da permettere al fedele di scegliere se partecipare o meno.

Perché le parrocchie scelgono il ‘servizio’? Perché è l’unica alternativa che hanno. La situazione le costringe ad attuare questa soluzione, anche se in cuor loro magari ne farebbero volentieri a meno. Esse ritengono valide e genuine entrambe le forme di celebrazione. Così fanno molti di quelli che vengono in chiesa, difficilmente consapevoli delle differenze esistenti tra di esse. Una gran parte dei fedeli considera il Servizio della Parola e della Comunione alla stregua di una Celebrazione Eucaristica.

In parte perché la differenza tra ‘Celebrazione Eucaristica’ e ‘Servizio della Parola e della Comunione’ è scarsamente rilevante per l’esperienza dei fedeli, ma principalmente per obiezioni in linea di principio a questa distinzione – che sarà discussa in seguito – per cui molte comunità non usano più distinguere fra le due. A volte si utilizzano termini tipo ‘celebrazione dell’agape’ o ‘servizio memoriale’, a volte semplicemente ‘celebrazione domenicale’ o ‘celebrazione settimanale’, lasciando aperto il tema se debba essere un ministro ordinato a presiedere. Altri gruppi utilizzano termini tipo ‘servizio di emergenza’ nel caso in cui un ministro ordinato non possa presiedere. Su questo fronte l’immagine predominante è che si cerca di bilanciare le proprie scelte al limite di ciò che è ufficialmente previsto dalla dottrina ufficiale, a volte oltrepassando i confini, principalmente per poter superare il problema. Nelle intenzioni e nelle esperienze di fede le parrocchie preferirebbero di gran lunga non essere chiamate a scegliere tra le due distinzioni.

Sono d’accordo sul fatto che si debba urgentemente richiedere che i laici possano presiedere le celebrazioni comunitarie. In molti casi seguono corsi specifici per prepararsi ad assolvere a questa funzione. In altri casi si prevede un periodo di prova, durante il quale venga evidenziata l’idoneità del soggetto. In nessun caso si ritiene che una persona possa essere assegnata a questo servizio senza una adeguata selezione. E’ però convinzione generale che la selezione dei ministri sia responsabilità dell’intera comunità parrocchiale; in altre parole, la decisione deve essere presa ‘dal basso’ e, se necessario, seguendo procedure di ampio consenso. E’ opinione comune che la funzione di presiedere alla celebrazione comunitaria non sia solo supportata e confermata dalla comunità, ma che la comunità abbia preventivamente definito e legittimato tale funzione. In molti casi le parrocchie o le comunità ecclesiali sono convinte che la funzione di presiedere le celebrazioni abbia le sue origini ‘dal basso’ e che il ministro sia nominato dalla comunità stessa. Nell’identificare questo ministro laico, non esiste pregiudizio se esso debba essere maschio o femmina. La visione predominante è che un donna possa egualmente svolgere a pieno titolo tale funzione.

In tutti i casi i fedeli percepiscono la situazione attuale come restrittiva. La diocesi punta espressamente su parrocchie servite dal clero. Le parrocchie opterebbero piuttosto, ove possibile, alla coesistenza di preti “ordinati” e ministri laici, uomini o donne, che siano stati ‘chiamati’ a tale ministero. Le parrocchie tendono a mantenere una politica di trasparenza nei rapporti con la diocesi, ma a volte hanno dovuto scegliere di non esporsi. L’attuale situazione è, come ritenuto da molti, bloccata dalla gerarchia: le parrocchie non possono fare ciò che, per necessità pastorali, ritengono opportuno.

In molte parrocchie esistono ‘piani di emergenza’, a vari livelli di elaborazione, per i casi in cui dovessero affrontare un intervento dell’autorità che proibisse alcune iniziative. Non sempre intendono accettare qualunque prete scelto dall’autorità. E ci sono altri ancora che non sono interessati al confronto con la diocesi. In ogni caso queste parrocchie desiderano restare nel corpo della Chiesa Cattolica. Spesso il contatto con la diocesi viene avvertito come un ‘camminare sulle uova’: da una parte si ritiene che non sempre sia fruttuoso un aperto contrasto, ma dall’altra esiste la convinzione, e talvolta la precisa esperienza, di scontrarsi contro un muro di gomma senza riuscire a portare avanti i propri programmi o ciò che si pensa sia giusto. Una rimostranza diffusa è che la gerarchia cerca di tenere insieme la Chiesa rafforzando strutture tradizionali. Qualunque sia il sogno che una parrocchia vuole realizzare, esso viene spesso rigettato perché non in linea con la pratica o la dottrina in vigore. “Qualunque cosa accada, noi andremo avanti”, dicono alcuni. Ma, nonostante la determinazione, alcuni temono che il loro sogno non si avvererà. Le parti non hanno alcuna fiducia reciproca.

Ambiguità della situazione attuale

Abbiamo già detto che un numero sempre crescente di parrocchie o di comunità ecclesiali cercano soluzioni proprie. Mantenere la distinzione tra ‘Celebrazione Eucaristica’ e ‘Servizio della Parola e della Comunione’ è una di queste. In pratica però spesso diventa necessario ignorarla. Se, ad esempio, le particole consacrate non fossero sufficienti si cerca di trovarne altrove, anche se questo può essere considerato irrispettoso verso l’Eucaristia stessa. A volte le particole consacrate disponibili sono accompagnate da particole non consacrate, con la scusa che ‘tanto nessuno lo sa’. Si ha l’impressione, quindi, che la distinzione fatta fino ad ora venga usata più per evitare un conflitto con l’autorità che per una vera e propria convinzione. Le soluzioni adottate sono poco convincenti – o ritenute tali – e sembrano essere soluzioni di pseudo-emergenza.

Lo stesso accade per altre implicazioni di tale distinzione. L’utilizzo della formula di consacrazione approvata dalle autorità della Chiesa, ad esempio, è spesso disattesa nella pratica senza grossi scrupoli. Alcune comunità ritengono queste linee guida insignificanti e agiscono di conseguenza. Spesso le formule utilizzate dal celebrante o dalla comunità trovano maggior riscontro di quelle ufficiali poiché sono sulla stessa lunghezza d’onda della gente e riguardano aspetti della loro vita quotidiana. Inoltre viene spesso proposto – e messo in pratica – di lasciare da parte le formule stabilite dall’istituzione, sostituendole con espressioni di più facile comprensione e più in sintonia con le moderne espressioni della fede. Ancora una volta le parole e i gesti imposti dalle autorità ecclesiastiche sono percepite come un ostacolo, col risultato che di fatto la gente, più o meno di nascosto, scelgono diversamente. La visione d’insieme su questi temi è caratterizzata da una serie di equivoci, spesso privi della dovuta trasparenza, per cui esiste una attività sotterranea portata avanti nella segretezza. Sembra che su questo punto la chiesa sia tornata alle catacombe, mentre in superficie nessuno sembra voler sapere cosa accada al di sotto.

Un simile livello di ambiguità lo riscontriamo durante la selezione e nomina dei laici, maschi o femmine, che presiedano il ‘Servizio della Parola e della Comunione’. Devono rispondere a chiari requisiti. Talvolta sembra esserci l’intenzione di equipararli al prete diocesano per poi formare, ad esempio, un ‘team pastorale’ che superi il ruolo esclusivo del prete.

Un fattore importante in questa situazione conflittuale tra diocesi e parrocchie riguarda i fondi della chiesa. Anche in questo settore ci sono grandi difficoltà. Alcuni parrocchiani hanno interrotto le loro donazioni alla parrocchia poiché destinate in seguito alla diocesi. Per questa ragione in alcune comunità sono state istituite fondazioni indipendenti, i cui fondi sono esclusivamente destinati alle proprie esigenze pastorali e diaconali. Coloro che non vogliono finanziare la diocesi possono destinare i fondi a queste associazioni. Esse hanno una propria amministrazione non collegata a quella diocesana di cui rispondono i ministri laici, maschi o femmine, scelti dalla comunità. Questa posizione rappresenta una pista alternativa all’amministrazione della chiesa, e porta a sottrarsi al controllo esclusivo delle alte gerarchie.

D’altra parte, gli edifici della chiesa sono spesso di proprietà della diocesi e, in teoria, le autorità ecclesiastiche hanno il potere di impedire o autorizzare le attività al loro interno, o per lo meno di esercitare il controllo su di essi. Molte comunità avvertono questa situazione come una forma di restrizione. Le parrocchie hanno mani e piedi legati e non possono fare ciò che vogliono; percepiscono di andare contro un muro, che rende impossibile ciò che invece dovrebbe essere possibile. La questione dei fondi della chiesa costringe e allinea i fedeli a seguire le regole. Non si sentono liberi. Ne deriva che essi ricerchino strade alternative per divincolarsi da una situazione che sentono come costrittiva. La chiesa quindi tende a somigliare a un recipiente sigillato piuttosto che ad una comunità di fedeli aperta all’ispirazione dall’alto.

Guardando verso il futuro

Se si domanda loro quali siano le loro speranze per il futuro, le parrocchie spesso rispondono: "Avere la possibilità di fare a modo nostro". Ciò non significa un arbitrio illimitato, ma la possibilità di fare, secondo la loro autentica responsabilità e in accordo con le loro autentiche convinzioni di fede, ciò che al livello più profondo ritengono vada fatto.

In primo luogo, ciò vuol dire che, in principio, uomini e donne possono essere scelti dalla comunità stessa per presiedere l’Eucaristia, cioè ‘dal basso’. Ciò non significa che non vogliano che la loro scelta sia seguita da una confermazione o benedizione o ordinazione da parte della gerarchia della Chiesa, ovvero dal vescovo locale. Anzi, dal loro punto di vista questa confermazione o ordinazione è importantissima per questo ministero. Conseguentemente, vorrebbero un rito in cui la comunità locale possa proporre al vescovo per l’ordinazione le persone – sia uomini che donne – scelte come leader della propria comunità, e in cui il vescovo le ordini. In questa procedura auspicata ci sarebbe, quindi, un’azione combinata dall’‘alto’ e dal ‘basso’: la comunità presenta i candidati e il vescovo li benedice e conferma sulla base della tradizione apostolica. Certamente non si può dire che queste comunità non vedano l’importanza dell’autorità della Chiesa e della tradizione apostolica. Anzi, vogliono rimettere l’autorità al posto che ha nella tradizione e, conseguentemente, tributarle un rispetto maggiore di quanto ne abbia oggi.

In questo modo, sperano in una liturgia in cui le parole dell’istituzione possano essere pronunciate sia da coloro che presiedono l’Eucaristia che dalla comunità (da cui provengono coloro che presiedono). Il pronunciare queste parole non è ritenuto una prerogativa esclusiva dei preti; se fosse così, come sarebbe possibile evitare una forma di potere e di diritto quasi magico? Le parole costituiscono una consapevole dichiarazione di fede da parte dell’intera comunità, che offre la sua voce alla persona che presiede la celebrazione.

In questa speranza per il futuro, il compito e il ministero del leader della comunità sono fondamentalmente (‘democraticamente’) decisi dalla comunità ecclesiale. Come leader, lui o lei è parte della comunità, un credente che viene dalla comunità. D’altra parte, il suo ministero è allo stesso tempo e in sé una funzione ‘di fronte’ alla comunità: il ministero, ricoperto da lui o da lei, di proclamare e dichiarare qualcosa alla comunità sulla base della tradizione del Libro. Si tratta, quindi, letteralmente di una doppia funzione: chiamati dalla comunità e tratti da essa, è la comunità stessa che li incarica di proclamare ciò che dovrebbe essere proclamato. Poiché vengono dalla comunità e in essa rimangono, questi leader ricevono ‘autorità’ (che in olandese ha la stessa radice di zeggen, dire, ndt) da parte della comunità in senso letterale: lui o lei ‘ha qualcosa da dire’ e lo deve dire perché il suo compito abbia un senso.

Il duplice senso del ministero si ritrova anche nella funzione di presiedere la preghiera eucaristica. La comunità chiede che coloro che presiedono compiano i gesti liturgici e li affida a loro. Non si può affermare che il ministro, con l’ordinazione, riceva il potere di fare qualcosa che gli altri non sono in grado di fare. È una forma di responsabilità., piuttosto che di potere, quella che la comunità affida loro, perché agiscano per conto di tutti e in nome di tutti. I leader nella comunità quindi sono come sollevati per un momento al di sopra di se stessi dalla comunità. Per un momento si allontanano in modo da diventare la personificazione, la mano e la voce della comunità. Il gesto liturgico quindi è esclusivo, ma non in misura tale da conferire potere o diventare eccezionale. Non è fatto ‘a esclusione di voi’, ma ‘includendo voi, grazie a voi e per conto vostro’.

La situazione attuale in cifre

Alcune cifre per chiudere questo capitolo. Nei Paesi Bassi il numero di Celebrazioni Eucaristiche nel fine settimana è sceso da 2.200 nel 2002 a 1.900 nel 2004; il numero di ‘Servizi della Parola e della Comunione’ è cresciuto nello stesso periodo da 550 a 630. Nella maggior parte delle diocesi olandesi il numero di questi servizi raggiunge il 50% del totale delle Celebrazioni Eucaristiche. Nelle diocesi di Utrecht (165 celebrazioni nei fine settimana del 2004) e Breda (70) il numero è notevolmente più elevato. Nella diocesi di Den Bosch il livello è il più alto di tutti nel 2004: ogni fine settimana ci sono state 95 Celebrazioni Eucaristiche in meno rispetto al 2003 e 50 servizi alternativi in più. La diocesi di Groningen/Leeuwrden batte tutte le altre: il numero delle Eucaristie in questa regione equivale a quello degli altri servizi, 50 ogni fine settimana. Nella diocesi di Roermond non c’è solo il più alto numero di Celebrazioni Eucaristiche, circa 530 alla settimana nel 2004, ma anche il più basso numero di riti e servizi alternativi. Secondo il portavoce della diocesi Bemelmans questo sarebbe in parte dovuto al fatto che nella diocesi ci sono pochissimi operatori pastorali attivi, ma, aggiunge, è anche dovuto ‘alla nostra politica di dissuasione. Noi chiamiamo questi servizi “Eucaristia con un buco al centro”’. La situazione nella diocesi di Roermond è relativamente favorevole, dato che ha un numero sufficiente di preti per celebrare l’Eucaristia ogni domenica in ogni parrocchia. Bemelmans: ‘Ma anche noi dobbiamo chiudere delle parrocchie, ne abbiamo chiuse circa 20 negli ultimi dieci anni. Per anni abbiamo anche avuto la necessità di ridurre il numero di celebrazioni: è meglio avere una sola vera Messa ogni fine settimana. E reclutiamo preti stranieri, ad esempio dall’India o dall’Argentina’. Solo la diocesi di Haarlem e Utrecht sono riuscite a ridurre il numero di servizi alternativi nel 2004 e ad aumentare sensibilmente le celebrazioni Eucaristiche. ‘Siamo fermamente determinati a ridurre il numero dei Servizi della Parola e della Comunione’, ha detto Wim Peeters, portavoce della diocesi di Haarlem.

L’enorme discrepanza tra la chiesa di base e le politiche della gerarchia ecclesiastica non potrebbe essere meglio illustrata che da questi numeri. C’è una differenza abissale tra le vedute ristrette su chiesa, celebrazioni liturgiche e ministero e la pratica reale in molti luoghi di interesse pastorale. I regolari aggiornamenti su stampa, periodici, tv e nelle interviste che questo comitato ha condotto, non lasciano alcun dubbio su questo punto.

Per poter valutare questa situazione e conseguentemente tirare delle conclusioni, sembra necessario tener presente la connessione tra i vari problemi precedentemente indicati. Per facilitare tale processo dobbiamo prima porre attenzione su cosa è ‘chiesa’.

2. Cos’è la Chiesa?

Un movimento che si tende a dimenticare

Il gap con quale ci confrontiamo così dolorosamente, risale al Concilio Vaticano II (1962-1965), sebbene le parti fossero avversarie da molto prima. Al Concilio, comunque, l’opposizione che era stata in letargo per tanto tempo si è manifestata con forza; un serafico esperto fiammingo, che ha seguito il Concilio dall’inizio alla fine, osservava queste cose già nel 1967. Secondo lui esistevano due diverse correnti ‘di cui una sperava di perpetuare le vie tradizionali del XIX secolo, mentre l’altra manifestava una ampia apertura verso i nuovi sviluppi teologici’. (Msgr. G. Philips, De Dogmatiche constitutie over de kerk, Antwerp, 1967, p. 12).

Una prima grande differenza sulla visione di chiesa venne alla luce già durante il Concilio. Dopo una intensa consultazione i vescovi presenti decisero di cambiare l’ordine dei capitoli sul documento inerente la chiesa. L’obiettivo di questo cambiamento era rendere possibile l’inserimento di un nuovo paragrafo, dal titolo ‘Il popolo di Dio’. Soltanto dopo questo paragrafo si sarebbe introdotto l’argomento gerarchia (papa e vescovi).

Con sommo rammarico dei partecipanti ‘tradizionalisti’ questa modifica fu accettata sulla base di argomentazioni brevi, ma efficaci. Fu stabilito che ‘il popolo e la salvezza del popolo’ erano l’obiettivo della comunità ecclesiale. Quindi si decise (come riportato nel rapporto ufficiale della commissione) che ‘la gerarchia deve tendere a questo obiettivo quale strumento’. Con questo la gerarchia era letteralmente ritenuta secondaria.

La discussione su questo punto fu molto dura e non meraviglia che una tale prospettiva potesse avere conseguenze lungimiranti. E proprio a causa di queste conseguenze, un tale movimento del Concilio fu relegato, negli anni successivi, in secondo piano. Dopo il Concilio, infatti, gli organi centrali dell’organizzazione ecclesiastica non ritennero opportuna una nuova immagine di chiesa. Il cambiamento costituzionale della chiesa divenne ‘una manovra dimenticata’.

Ancora oggi la speranza sollevata all’epoca non si è completamente sopita. E’ stato chiarito che la chiesa non è innanzitutto una organizzazione gerarchica costituita dall’alto verso il basso, partendo dal papa, seguendo con i vescovi, ecc. Piuttosto la chiesa è l’intero popolo di Dio in pellegrinaggio attraverso i tempi. Nella vastità del popolo sono attivi i doni dello Spirito. Riconoscendo ed apprezzando questi doni sorse nel corso dei secoli una organica comunità di fedeli. In origine, la sostanza e il nome di questi doni dello Spirito variavano a seconda delle aree geografiche di diffusione del Vangelo. Tenendo conto delle esigenze delle comunità locali, variava altresì il panorama delle funzioni ministeriali.

La leadership nella comunità

Uno dei doni che necessariamente si manifestava era la leadership. Generalmente era il fondatore della comunità che assolveva a questa funzione, come da prassi. Ma durante il periodo successivo alla morte del fondatore, la comunità era solita pronunciarsi di comune accordo riguardo una decisione finale. In definitiva è la comunità che conosce le sue esigenze e che porta avanti le attività. (1Cor 12,7.10; 14,3-5,12. 32, cf. J. Tigcheler, ‘Bouwen op het fundment van apostolen en profeten’, in Speling 57 (2005), nr. 4, p. 18).

Nel corso del tempo il servizio di guida è stato frazionato in varie funzioni, con diversi nomi. A parte gli apostoli e i profeti evangelizzatori, comparvero nella comunità anche i pastori e gli insegnanti. Nelle ultime comunità paoline esistevano anche funzioni come diaconi, supervisori (episkopoi) e il ‘comitato degli anziani’ (presbyteroi) (1 Tim 3.1.8; 4,14). La gestione della funzione guida divenne ben più di una faccenda istituzionale: il leader prescelto riceveva la grazia attraverso ‘le formule’ pronunciate dal concilio dei presbiteri con ‘l’imposizione delle mani’.

Nell’antichità la gestione rituale della leadership e della presidenza della liturgia era chiamata ‘sacramento’. Originariamente questo termine veniva utilizzato per indicare svariati procedimenti all’interno della comunità ecclesiale. S. Agostino ne fu un precursore convinto. Se il fedele poi confermava la preghiera con un ‘amen’, anche questo era ritenuto un ‘sacramento’. Questa convinzione derivava dal fatto che si riteneva che ogni attività svolta all’interno della comunità fosse in qualche modo ‘sacramentale’, dato che rappresentava una realtà sacra mediante segni ed azioni visibili. Solo alcuni secoli dopo si decise di riservare i termine ‘sacramento’ ai sette sacramenti ad oggi riconosciuti.

La chiesa piramidale

Nel corso della storia della chiesa la prospettiva di leadership è completamente cambiata. Il punto di vista predominante è che il presbiterato sia parte di una piramide. La sommità, cioè il livello più alto della gerarchia, si trova più vicina al cielo, quindi partecipa ai massimi livelli alla vita divina. Da questa sommità il soprannaturale scivola verso il basso, attraverso la mediazione sacramentale del presbitero, fino alla parte inferiore della chiesa per arrivare poi alla base della piramide, cioè ‘i laici’. I sacramenti sono essenzialmente ‘strumenti di grazia’ e divengono effettivi quando espletati da ministri ordinati. Nel corso dei secoli la chiesa si è data un ordinamento giuridico elaborato, poi racchiuso nel codice di diritto canonico.

Secondo questo modello un prete viene ‘ordinato’ al momento della sua nomina. Questo significa che la sua natura viene modificata e la sua stessa essenza santificata. Mediante l’ordinazione egli viene ammesso ad uno speciale dominio del sacro e del soprannaturale, che lo porta oltre il dominio del terreno e del profano. Quindi egli è l’unico che ha il potere di compiere atti sacramentali ‘validi’ (cioè canonicamente riconosciuti). In tal modo si viene a creare una distinzione essenziale tra laici e ministri ordinati, distinzione considerata indelebile. Ovviamente, secondo questo stato di cose non potrebbe esistere il concetto di presbitero part-time. Un indivuo diventa prete ‘nella propria intera essenza’, cioè da capo a piedi, dal mattino alla sera, ‘in aeternum’.

Un diverso modello: la chiesa come corpo

Inserendo un nuovo capitolo nella Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, si affermò meglio un diverso modello di Chiesa: meno rigidamente gerarchico, più organico e orientato verso la comunità nel suo complesso. Questo modello richiama l’immagine paolina della Chiesa come corpo. Questo cambiamento aprì anche uno spazio per una diversa concezione della funzione di guida nella comunità. Nei primi tempi della Chiesa, la nomina di un tale ministro, in molte comunità, non richiedeva un’ordinazione nel senso di una ‘consacrazione’, ma nel senso di dare un posto, o ‘ordine’, tra le varie funzioni di un corpo. Il leader di una comunità non veniva trasferito in un altro ordine di ‘essere’, ma nominato e accettato dalla comunità per una specifica funzione. Un tale ministro, come Paolo, poteva esercitare una professione al di fuori della Chiesa (cfr. 1Cor 4,12; At 18,3-4; 20,34). Secondo questa concezione, non era scontato che un certo gruppo di persone dovesse venire escluso preventivamente da questa funzione perché il loro ‘essere’ era ritenuto impuro o troppo mondano. All’apostolo Pietro era stata affidata una funzione cruciale anche se era sposato e nella Chiesa primitiva c’erano anche varie ‘diaconesse’.

Secondo la concezione gerarchica della Chiesa e del suo ministero che è ancora attuale, il prete ordinato funge da ‘cardine’ nella mediazione della grazia, una funzione che non può essere contestata e non è aperta alla concorrenza dall’interno: il ministro ordinato definisce la Chiesa, che in sua assenza non può più funzionare. Nel modello ‘organico’ di Chiesa la situazione è diversa: la comunità di fede decide quali tipi di ministeri sono necessari qui e ora. Fin quando la minaccia della concorrenza determinerà il pensiero sulla Chiesa e sul ministero, non ci sarà spazio per una connessione organica in cui i vari ministri possano cooperare.

In realtà, è chiaro che, fino a quando rimarrà predominante il modello gerarchico della Chiesa, non ci sarà spazio per coloro che oggi chiamiamo ‘operatori pastorali’. Nella ‘Chiesa come piramide’ possono essere guardati soltanto con sospetto, per paura che, accanto ai ‘preti validamente ordinati’, possa sorgere un ‘clero parallelo’.

Non minaccia, ma sfida

Ciò che l’attuale gerarchia ecclesiastica ancora percepisce come una minaccia è il vantaggio di avere laici attivi in molte comunità ecclesiali locali. Questo però rappresenta anche una sfida. Mentre divengono sempre più consapevoli di rappresentare la antica tradizione della chiesa, riportata alla sua reale essenza dal Concilio Vaticano II, saranno in grado di agire in modo più disinibito. La loro creatività di fede sarà ispirata se realmente incoraggiata. Un riconoscimento incondizionato da parte degli altri membri della comunità mitigherà le difficoltà nella costruzione di una mutua relazione tra gli individui, che sono riscontrabili anche ai giorni nostri.

3. L’Eucaristia

Il senso della celebrazione dell’Eucaristia è di grande ricchezza. La stessa parola significa “ringraziamento”: nell’Eucaristia esprimiamo la nostra gratitudine per la creazione, per la nostra vita, per la liberante narrazione della storia di Israele e di Gesù. Allo stesso tempo chiediamo che la forza creatrice e liberante di Dio continui a sostenerci e ad ispirarci, per darci le ali e concedere che il mondo ne tragga profitto. L’Eucaristia consiste in un insieme di preghiere e azioni proprie della condivisione del pane e del vino. Le preghiere possono avere diverse forme; nell’antichità esistevano versioni differenti nel frasario istituzionale. Queste infatti non sono parole magiche e potrebbero perfino essere omesse, come ci insegnano gli antichi testi.

Un sacramento

L’Eucaristia è chiamata ‘sacramento’, un termine latino che significa ‘qualcosa che determina una certezza’. Nell’esercito romano il giuramento militare di fedeltà era chiamato ‘sacramentum’. Il termine fu adottato poi dalla chiesa di rito latino in occidente e utilizzato per indicare svariati atti fra cui la Celebrazione Eucaristica. Al fine di indicare ciò che questa azione indica, è preferibile considerare il termine greco di rito orientale ‘mysterion’, cioè ‘qualcosa che prima era nascosto e che ora diviene manifesto’.

Se vogliamo comprendere l’Eucaristia dovremmo iniziare ad esaminare cosa facciamo quando la celebriamo; questa forma di ringraziamento prende la forma di un banchetto rituale comunitario e le relative preghiere indicato la specialità ed unicità di questo banchetto. Non tanto perché si tratti di un pasto elaborato, ma perché concentra la sua specificità in un gesto che ‘simboleggia’ (sarebbe ‘mettere insieme’, in greco ‘symballein’) o riassume quello che c’è in gioco in questo pasto speciale. Nelle lingue moderne il significato dei termini ‘sacramento’ e ‘simbolo’ è diventato troppo divergente.

La condivisione

L’Eucaristia non è qualcosa che ‘possediamo’. Nella condivisione del pane e del vino la comunità riconosce il senso della Thora – la tradizione giudaica – e come questa ha preso forma in Gesù. La condivisione rappresenta il fulcro di questo pasto comunitario. Nella celebrazione dell’Eucaristia esprimiamo la nostra fiducia, rappresentiamo e celebriamo la consapevolezza che la vita è soprattutto convisione. Esprimiamo la nostra convinzione a noi stessi e a mondo intero che Dio vuole condividere se stesso e comunicarsi a noi, che Egli ci accetta incondizionatamente e che, a imitazione di Dio, vogliamo dividere noi stessi e comunicarci agli altri.

Questa realtà è stata espressa e realizzata prima di tutto da Gesù di Nazareth nella sua vita e nel suo agire; egli ha condiviso la sua stessa vita fino a morire in croce. Questa forma di condivisione sconfinata è liberante: ci libera dai lacci che ci costringono, dal male, dagli errori che abbiamo commesso, dai ‘peccati’, da un passato oppressivo. Ci promette che in futuro, anche se incerto, possiamo sempre contare su Dio, che è amore.

La presenza

Nel condividere il pane e il vino, facendo ciò che Gesù ha fatto, riconosciamo la su presenza in mezzo a noi. Il pane spezzato si riferisce propriamente alla vita e alla morte di Gesù, il vino indica la sua forza vitale, la sua mente ed il suo spirito, il suo sangue; nella Bibbia il ‘sangue’ rappresenta la forza vitale.

Alla mensa eucaristica è presente tutto il mondo. Il lavoro della gente, la violenza tra uomo e donna, individuale o di gruppo, la mancanza di cibo, generalmente frutto di ingiustizie economiche e sociali, l’inquinamento ambientale, il desiderio di ogni persona di essere vista e riconosciuta – tutto questo è presente sulla mensa, anche se non esplicitamente menzionato.

La storia del popolo ebreo, col suo esodo dalla ‘schiavitù’, il lungo percorso attraverso il deserto, la siccità e la carestia, l’esilio e il ritorno alla terra promessa, ma anche l’olocausto, sono sulla mensa e così l’intera storia della vita di Gesù, la sua morte e la sua resurrezione, e l’intera storia di coloro che lo hanno seguito, nella buona e nella cattiva sorte. Il fatto che la gente continui a celebrare l’Eucaristia è segno della speranza che ci sarà un tempo in cui sarà fatta giustizia per ognuno.

Cibo per il viaggio

L’Eucaristia riunisce le persone intorno a Gesù, la vittima che ha rifiutato di fare altre vittime. L’Eucaristia è il pasto del viaggio della nostra vita. Non è la conclusione unificatrice dei popoli o dei cristiani, dal momento che Dio sarà tutto in tutto. Siamo ancora in viaggio. Tutte le situazioni e le condizioni del genere umano saranno riunite nell’Eucaristia se e quando ci sarà una comunione di intenzioni nel riproporre il rito. E’ un mensa aperta anche a gente di altre tradizioni religiose. In e attraverso la celebrazione diventiamo comunità. Questa celebrazione comunitaria anticipa ciò che la Bibbia chiama ‘il Regno di Dio’ e ‘cieli e terra nuova, in cui Dio sarà tutto in tutto’.

Eucaristia come sacrificio

Ci rendiamo conto che l’interpretazione e la valutazione relative all’Eucaristia da parte di molti cattolici nei Paesi Bassi differiscono sostanzialmente da quelle delle autorità ecclesiastiche di Roma. Il nostro sottolineare che si tratta di un banchetto rituale comunitario è un problema per la leadership della chiesa. Un tipico esempio di questa prospettiva è l’Istruzione Redemptionis Sacramentum che il cardinale Francis Arinze, capo della Congregazione per la Dottrina Liturgica, ha pubblicato il 25 marzo 2004, in stretta collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede, capeggiata dal cardinale Joseph Ratzinger, eletto papa Benedetto XVI il 19 aprile del 2005.

Il paragrafo 38 dell’Istruzione recita così nella versione inglese: “L’insegnamento costante del Chiesa sulla natura dell’Eucaristia, non solo come pasto, ma anche e prevalentemente come Sacrificio, è chiaramente da intendersi come chiave principale alla piena partecipazione di tutti i fedeli a questo grande Sacramento. Dato che privandolo del suo significato sacrificale, il mistero è ridotto al mero significato di banchetto fraterno”.

I dettami contenuti nell’istruzione relativamente al sacrificio vogliono escludere più possibile qualunque elemento che possa portare a pensare che l’Eucaristia come segno di un pasto comunitario. Il preciso significato di “sacrificio” nell’Eucaristia resta non chiarito. La nostra prospettiva è che il dono di sé che Gesù ci fa attraverso la sua vita e morte può essere definito ‘sacrificio’. Questo sacrificio si fa presente nell’Eucaristia sotto forma di banchetto comunitario in cui i fedeli che lo condividono partecipano all’atto sacrificale di Gesù. E’ ciò che noi abbiamo descritto come ‘condivisione’ e donazione di sé.

La preferenza dell’Istruzione vaticana per l’interpretazione sacrificale è collegata all’enfasi unilaterale data al carattere ‘verticale’ dell’Eucaristia. Ciò presuppone un’immagine tratta dalla filosofia antica: tutto ciò che è ‘buono’ discende, per diversi gradi, dall’alto verso il basso, in questo caso attraverso il prete che è un rappresentante di Gesù, fino ad arrivare ai fedeli. Questi rispondono a questo movimento discendente con un movimento ascendente che procede anch’esso per gradi – attraverso il prete – che è chiamato ‘sacrificio’.

La scelta di questa immagine semplifica la difesa di una concezione del ministero in cui la leadership della comunità è sì chiamata ‘servizio’, ma coloro che svolgono questo servizio sono, nei fatti, posti sempre su un gradino più alto degli altri fedeli e in questo modo esercitano un controllo su di essi. Anche se in teoria l’Eucaristia è al centro della liturgia, la sua celebrazione è di fatto resa dipendente da una persona che la presiede, il che rende l’ordinazione il più importante dei sacramenti.

Per come noi la vediamo, l’Eucaristia è una condivisione di pane e vino tra fratelli e sorelle, al cui centro c’è Gesù.

4. I ministri nella chiesa

La funzione di leadership è di grande importanza per ciascuna comunità, perché è uno dei canali attraverso il quale si mantiene viva la narrativa di Gesù al suo interno. Quindi la comunità di fedeli ha il diritto di essere assistita da funzionari che la aiutino ad andare avanti e ne assicurino l’ispirazione, e che, come testimoni del Vangelo, possano identificarvisi. Allo stesso tempo essi hanno il diritto di celebrare l’Eucaristia come sacramento di solidarietà e unione con Gesù e con gli altri.

Dalla prospettiva della Bibbia e della teologia non si può parlare di una sola forma di ministero nella chiesa, quale unica forma possibile e legittima. Riflettendo sulla storia della chiesa, non troviamo risposte confezionate ai problemi relativi al ministero dei giorni nostri, ma troviamo valide alternative che vale la pena considerare.

Le varie fasi della storia

Particolarmente nel primo millennio il ministero all’interno della chiesa ha subito considerevoli cambiamenti, parallelamente ai molteplici modelli e sviluppi avvenuti in Palestina, Asia Minore, Grecia, Roma ed Egitto.

Nella chiesa primitiva tutti i membri della comunità erano uguale in conseguenza del battesimo: “poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,27). Ogni battezzato con i suoi propri talenti e doni (carismi) è a servizio della comunità da eguale.

Nella vita delle prime comunità ricche e variegate, c’erano ovviamente alcuni membri che iniziavano e conducevano le attività missionarie, catechetiche, profetiche e liturgiche, attraverso le quale i cristiani sviluppavano la propria esperienza di fede in comunità. La funzione del leader è necessaria per la costruzione della chiesa in continuità con la tradizione apostolica e per salvaguardarne il retaggio, cioè il Vangelo. Le stesse comunità sceglievano o ‘chiamavano’ i propri leader sulla base delle loro caratteristiche personali. Papa Leone il Grande (440-461) dichiarò: “Colui che deve guidare tutti, deve essere da questi scelto”. Nella chiesa primitiva ai leader spettava un posto speciale (venivano ‘ordinati’) nella vasta gamma di ministeri ed attività comunitarie. Ne derivava che fosse naturale che presiedessero anche la Celebrazione Eucaristica.

Dopo la prima generazione di seguaci di Gesù, i servizi comunitari tesero ad essere regolati secondo modalità più uniformi. Allo stesso tempo fu ritenuto che l’insediamento di un capo della comunità dovesse essere accompagnato da una celebrazione liturgica. Pertanto l’imposizione delle mani da parte dei leader di comunità vicine esprimeva una creativa collegialità tra le stesse comunità locali.

Eucaristia e celibato

Nei primi dieci secoli né la chiesa orientale né quella occidentale hanno pensato mai di rendere il celibato, cioè l’essere non-sposato, condizione necessaria per diventare leader di una comunità. Sia gli sposati che i non-sposati potevano diventarlo. Alla fine del IV sec. una legge canonica – in linea con le tradizioni culturali dell’epoca – stabilì la regola della continenza sessuale come legge liturgica: la proibizione di avere rapporti sessuali la notte prima della celebrazione eucaristica, qualcosa che veniva già di fatto praticato da un po’ di tempo. Quando, alla fine del IV sec, è divenuta prassi celebrare l’Eucaristia quotidianamente, questo ha significato per i preti sposati una sorta di continenza perpetua. Fu in quel momento che la chiesa occidentale prescrisse la continenza per legge, la legge sulla continenza, appunto.

Dopo che il cristianesimo divenne la religione ufficiale nel IV secolo e smise di essere perseguitata, il suo clero ricevette lo status di ‘autorità’ ed iniziò ad agire di conseguenza. La funzione che in passato veniva espressa come forma di servizio, cominciò ad esprimere una forma di potere ed autorità: il potere dell’ordinazione, della giurisdizione. Il servizio di guida divene il potere di un’autorità a tutti gli effetti. La domanda ‘chi può essere guida nella chiesa?’ è cambiata con ‘a chi è permesso essere guida nella chiesa?’. Inizia un processo di clericalizzazione. I fedeli, d’ora in poi chiamati ‘laici’, da soggetti di fede ispirati dallo Spirito diventano oggetti della cura pastorale del prete. Il presbitero viene ridotto a Presidente dell’Eucaristia e la comunità a congregazione che celebra la liturgia.

Nel Concilio Laterano II del 1139, la legge sulla continenza, in vigore dal IV sec. fu sostituita dall legge del celibato presbiterale. Questa legge è stato uno strumento drastico utile ad assicurare il rispetto della legge sulla continenza, dato che fino ad allora la sua osservanza non era stata proprio stretta a dispetto delle penitenze e delle sanzioni pecuniarie previste. Da allora il presbiterato è un ostacolo invalidante al matrimonio; il Codice di Diritto Canonico definisce l’ordinazione un impedimento invalidante (can. 1087), infatti solo i non-sposati possono diventare preti e solo uomini celibi possono presiedere l’Eucaristia. Nel 1215 il Concilio Laterano IV sancisce che solo i ministri validamente ordinati possono validamente pronunciare la ‘formula di consacrazione’.

Dal XVII secolo il sacerdozio di Gesù non fu più basato sulla sua umanità, ma sulla sua divinità. Questo significa che i preti nella chiesa, d’ora in poi, partecipano al potere divino. Ai preti non è più assegnata una funzione (ordinazione) dalla comunità per mantenere e perpetuare la sequela di Gesù, ma sono ‘consacrati’ dal vescovo per poter celebrare l’Eucaristia. La chiesa diventa un società gerarchica, una chiesa dall’alto, come una piramide, la punta verso il cielo, dalla quale la grazia di Dio, attraverso la gerarchia, arriva in basso – come spiegato in dettaglio nel paragrafo precedente ‘cosa è la chiesa?’.

Il Concilio Vaticano II ha cambiato fondmentlmente questa prospettiva della chiesa. Dopo discussioni approfondite ed estenuanti ha deciso di anteporre il paragrafo sul Popolo di Dio a quello della gerarchia ecclesiastica sulla proposta costituzione della chiesa. Sulla scia di questo cambiamento la gerarchia sembra essere a servizio del Popolo di Dio. Infatti, la piramide si capovolge.

Come andare avanti?

Quando c’è una trasformazione nella concezione dominante dell’umanità e del mondo, quando ci sono cambiamenti socio-economici e si manifesta una nuova consapevolezza socio-culturale, l’ordinamento della Chiesa, come si è sviluppato storicamente, può, di fatto, contraddire e bloccare qualcosa che voleva proteggere fino ad oggi: la costruzione di una comunità cristiana. Ci si potrebbe chiedere se e in quale misura alcune forme e regole che avevano senso ed erano rilevanti e quindi realistiche nel passato siano ancora ragionevoli e realistiche nel nostro tempo, o se, piuttosto, siano controproducenti.

Quando diciamo questo, ci riferiamo specificamente al canone che proibisce agli uomini non celibi di essere investiti della piena leadership di una comunità e alla legge che esclude le donne da questo compito. Storicamente, una filosofia antiquata del genere umano e una concezione ormai sorpassata della sessualità sono all’origine di entrambe queste leggi. Sono leggi ecclesiastiche e quindi umane, non divine.

Nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II, papa Giovanni XXIII chiamò la Chiesa ad aprire le sue finestre al mondo. Una Chiesa che vuole essere rilevante dovrebbe avere il coraggio e prendersi la libertà di abolire leggi che mortificano la vitalità delle comunità e impediscono in molti luoghi la celebrazione dell’Eucaristia. Spesso, nel passato, pratiche ‘illegali’ diffuse nella base hanno convinto la gerarchia che era logico e ragionevole cambiare la legislazione esistente. Nuovi esperimenti possono indicare strade importanti per i cambiamenti della forma di una Chiesa adeguata alle esigenze del nostro tempo. È vero che nella nostra società occidentale le persone non sposate sono, intrinsecamente, più adatte a essere leader della comunità di fede delle persone sposate? E che nella nostra cultura occidentale gli uomini sono intrinsecamente più adatti a ispirare e guidare una comunità cristiana delle donne? La nostra risposta, e quella di molti altri credenti, è, per entrambe le domande, un inequivocabile ‘no’.

L’attuale penuria di preti è, per dirla tutta, fasulla, e, quindi, irreale. In molte parrocchie, ci sono uomini e donne che già agiscono, in modi stimolanti e che danno speranza, per dare avvio e ispirazione a comunità adatte ai nostri tempi, con cui i cristiani si possono identificare. Molti membri di queste comunità avrebbero piena fiducia nell’‘ordinarli’ come loro leader ufficiali e come ministri che presiedano alle celebrazioni liturgiche. Per tali funzioni, pensiamo, prima di tutto, agli operatori pastorali, uomini e donne, che sono stati nominati ufficialmente, ma anche a molti volontari. Questi uomini e donne sono nel cuore della loro comunità locale, in misura maggiore, spesso, dei preti ordinati. Questi preti sono stati nominati – spesso in più di una parrocchia – per presiedere alla celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’Eucaristia. Inevitabilmente, e con loro frustrazione e scoraggiamento, diventano sempre più degli ‘estranei’ per i credenti per cui celebrano nelle Chiese.

Linee guida per i leader della chiesa

Quali criteri utilizzare per selezionare le guide comunitarie?

- Coloro che presiedono le celebrazioni dovrebbero essere membri delle comunità in questione. Che siano uomini o donne, omo o eterosessuali, sposati o non sposati è irrilevante. Ciò che interessa è che la loro fede sia di ispirazione e di stimolo.

- Essi dovrebbero inoltre essere esperti, in particolare in relazione alle Scritture e tutto il materiale della tradizione cristiana, per poter predicare

- Dovrebbero lasciare che la comunità esprimesse la propria creatività liturgica

- E’ anche importante che abbiano un talento flessibile per l’organizzazione, con la capacità di individuare le nuove e valide tendenze che attecchiscano nella comunità.

Un appello urgente

Con una certa urgenza invitiamo le nostre comunità di fedeli e le parrocchie a rendersi conto di cosa è in gioco nell’attuale condizione di emergenza dovuta alla penuria di preti celibi ordinati e a prendersi – e a essere autorizzati a prendersi – quegli spazi di libertà teologicamente giustificati per scegliere un leader o un gruppo di leader al proprio interno.

Sulla base della precedenza del ‘popolo di Dio’ rispetto alla gerarchia – esplicitamente enunciata durante il Concilio Vaticano II – ci si potrebbe aspettare che il vescovo diocesano confermi questa scelta, dopo un’adeguata consultazione, per mezzo dell’imposizione delle mani. Se un vescovo dovesse rifiutare questa confermazione o ‘ordinazione’ sulla base di argomentazioni che non riguardano l’essenza dell’Eucaristia, come il celibato obbligatorio, le parrocchie possono essere sicure di essere in grado di celebrare la vera e genuina Eucaristia quando si riuniscono in preghiera e condividono il pane e il vino.

Invitiamo le parrocchie a comportarsi in questo modo con una grande dose di coraggio e sicurezza in se stesse. Bisogna sperare che, stimolati anche da questa pratica relativamente nuova, i vescovi possano in futuro comportarsi secondo il loro compito di servire ed eventualmente confermare i leader delle comunità locali nel loro ufficio.

In conclusione, vorremmo sottolineare ancora una volta che i nostri argomenti si basano sulle dichiarazioni del Concilio Vaticano II e sulle pubblicazioni di teologi di fama e esperti di pastorale che si sono distinti a partire da questo concilio. Ne presentiamo di seguito una selezione.

Il pastore svizzero Kurt Marti, conosciuto per le sue dichirazioni intelligenti, chiare e precise, ha scritto:

Dove andremo a finire se ognuno dice ‘dove andremo a finire’ e nessuno cerca di capire dove saremmo andati a finire se fossimo andati avanti.

LETTERATURA CONSULTATA PER QUESTO RAPPORTO:

- Augustinian Centre `de Boskapel', Nijmegen: Resultaten t.b.v. Veldonderzoek Basisgemeenschappen/Organisaties - [Results Enquiry Grassroots communities/organizations], Febr. 2005.

· Consultation Group `Geloven en Kerkelijke Gemeenschap' of the Council of Churches in The Netherlands: Gespreksnotitie over het Ambt in de oecumenische discussie [Report on church ministry in ecumenical discussion], Amersfoort, Febr. 2005.

· Concilium 1969, vol. 43: ‘The Identity of the Priest’, esp. the contribution of W. Kasper on the ecclesiological rather than christologcal foundation of office in the church (pp. 20-33, especially 22-27).

· Concilium 1972, vol. 80: ‘Office and Ministry in the Church’, especially A. Lemaire, ‘From Services to Ministries: Church ministry in the first two centuries’ (pp. 35-49); P. Kearny, ‘New Testament Incentives for a Different Ecclesial Order’ (esp. pp. 61-63 for application to the present situation); and P. Fransen, ‘Some Aspects of the Dogmatization of Office’ (pp. 97-106).

· Concilium 1980, vol. 133, ‘The Right of a Commmunity to a Priest’ contains, among other things, reports of experiences in various countries and a concluding article by Edward Schillebeeckx o.p., `The Christian Community and its Office-Bearers', 95-133.

· FitzPatrick P.J., In Breaking the Bread: The Eucharist and Ritual. Cambridge 1993.

· Kerk aan de stadsrand [Church at the periphery of the cities, collected essays]. Bundel bij het afscheid van Theo van Grunsven in Dukenburg, Nijmegen 2004.

· Philips, Mgr. G., De dogmatische constitutie over de kerk [The Dogmatic Constitution on the Church], Antwerpen 1967.

· Pohl–Patalans, U., Von der Ortskirche zu kirchlichen Orten, Göttingen, 2004 (cf. Tijdschrift voor Theologie, 2005, nr. 3, 327).

· Priester für heute: Antworten auf das Schreiben Papst Johannes Pauls II an die Priester, München 1980, esp. Peter Eicher, `Priester und Laien – im Wesen verschieden? Zum lehramtlichen Ansatz der notwendigen Kirchen Reform' (34-50).

· Schillebeeckx o.p., Edward, Ambt in dienst van gemeenteviering. In: Basis en Ambt, Bloemendaal 1979, 43-90 (esp. 78-88) [integrated in the next publication].

· Id., Ministry: A Case for Change / Ministry: Leadership in the Community of Jesus Christ, London/New York 1981, esp. pp. 88-96 (of orig. Dutch ed.).

· Id., The Church with a Human Face: A New and Expanded Theology of Ministry, New York 1985.

· Id., Theologisch testament, Baarn 1994, vooral 115-117.

· Schüssler Fiorenza, Elisabeth, In Memory of Her: A Feminist Theological Reconstruction of Christian Origins, New York 1983.

· Tigcheler, J., Bouwen op het fundament van apostelen en profeten [Building on the Foundation of Apostles and Prophets]. In: Speling 57, 2005, nr. 4, 15-24.

· Willems o.p., Ad, Kerkelijke gemeenschap en kerkelijke leiding in de Concilieconstitutie over de kerk [Church Community and Church Administration According to the Constitution Lumen gentium]. In: Tijdschrift voor Theologie 6 (1966), 51-59.

· Id., Moeten voorgangers `priester' zijn? [Should ministers always be `priests'?] In: Kosmos en Oekumene, nr.4/5, 1977, 103-108.

· Id., Leiden tot leven: Sacramentaliteit van wijding en aanstelling [The Sacramentality of Ordination and Appointment]. In: Kerugma, 38, 1995, nr.4, 2-12.

Traduzione a cura di Stefania Salamone e di Adista

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