venerdì 2 gennaio 2009

Commento al vangelo di domenica 4 gennaio 2009

Gesù: una «parola» ebraica

(Vangelo di Giovanni 1,1-8)


Logos?

Il Vangelo di Giovanni inizia con un inno cristologico (conosciuto come il Prologo) che accenna alle principali tematiche affrontate dall’evangelista lungo tutto suo racconto. Per esempio, vengono utilizzati i termini, che in seguito avranno una forte valenza simbolica riferiti al Cristo, luce, rivelazione, vita...
Si tratta di un inno che risente di un forte influsso ellenistico, ovvero greco, che ci fornisce una rappresentazione del Cristo utilizzando il linguaggio filosofico tipico del mondo greco. Un linguaggio senz’altro molto suggestivo, ma che rischia di allontanarci dalla figura storica di Gesù di Nazaret. Gesù, infatti, è qui presentato come il logos che si fa carne (che in greco significa parola, ma anche ragione o discorso). Un logos preesistente, che era già «in principio» (en arché).
«In principio», sono le stesse parole con cui inizia la Bibbia (Gn 1,1). In questo caso, però, non si tratta di quel Dio che crea il mondo semplicemente camminando alla brezza del giorno (Gn 3,8), ma piuttosto si tratta il mistero di un Dio che genera in sé il suo figlio, raffigurato qui come la Parola creatrice. Una formulazione che, nonostante il tragico tentativo di personificare il Logos, si rivelerà oscura, faticosa e terribilmente precaria, e che darà vita a quelle interminabili dispute – cristologiche e trinitarie – che hanno dilaniato la storia della chiesa dei primi secoli.
Il concetto di logos come manifestazione di Dio, era già presente nella cultura greca precedente a Gesù, mentre nella cultura ebraica comparve per la prima volta grazie al filosofo Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C. circa). Filone era un ebreo ellenizzato che arrivò ad introdurre una interpretazione della Bibbia a partire dalla dottrina del grande filosofo greco Platone, arrivando così a teorizzare l’interpretazione allegorica dei testi sacri. Egli si poneva il problema del dialogo tra la cultura greca del suo tempo e la cultura ebraica da cui egli stesso proveniva; fu così che arrivò ad incorporare il concetto di logos all’interno della propria teologia: l’idea di logos fu connessa al tema biblico della «parola di Dio», intesa come mediatrice tra Dio e il mondo.
Il Prologo di Giovanni solleva, da parte degli studiosi, complicate questioni di critica testuale in relazione al rapporto con il resto del vangelo. Senz’altro si tratta di un testo molto rimaneggiato ed intriso di elementi esterni, sia alla cultura ebraica, sia al resto del vangelo, ma che nello stesso tempo ne anticipa gli elementi teologici principali.


La Parola

In ebraico il termine parola si traduce con davàr, un termine che – nella tradizione biblica – indica prima di tutto una creazione, un gesto, un fatto, un evento. Tuttavia, ad un certo punto nella Bibbia questa parola subì un processo di personificazione, (lo stesso avvenne per esempio per la Sapienza, cfr. Sap 6-9). La personificazione, un processo tardo che cominciò a partire dall’elaborazione dei libri sapienziali (Pr 1-9), era un modo, per gli uomini del tempo, di indicare l’azione di Dio nella storia. Così, se da una parte la personificazione della Parola consentì di sentire Dio immediatamente vivo e operante (intendendola come persona vicina agli uomini), dall’altra parte portò, a lungo andare, ad una astrazione concettuale sempre più lontana dalla vita degli uomini, sempre meno concreta.
Si tratta di un rischio sempre vivo che, è il caso tipico del Prologo di Giovanni, rischia di farci immaginare Dio come maestoso e trionfante, e la sua azione operante nella storia come un progetto già concepito e nello stesso tempo intoccabile. Tutto ciò come se fosse già determinato in un processo costituito a priori, dove gli uomini e le donne non sono liberi/e di cooperare alla creazione all’interno di una relazione di responsabilità attiva. La creazione, invece, deve essere considerata in continuo movimento e compimento. L’azione di Dio, infatti, non è certo pre-comprensibile all’interno delle nostre narrazioni umane, qualunque esse siano.
Senza contare, poi, che la storia di Gesù, colui in cui – secondo il vangelo di Giovanni – si incarnò, personificandosi, il logos, fu – nella sua pienezza di umanità – la storia di un fallimento. Una storia difficilmente immaginabile e impossibile da astrarre; una storia che fu possibile (lo è tutt’oggi) vivere soltanto, vivere e basta.


Un Gesù divino

Nel Vangelo di Giovanni «il Gesù terreno appare trasfigurato in un essere divino; lo scritto infatti si presenta espressione di una cristologia incentrata nella Parola eterna di Dio: “In principio era la Parola e la Parola era rivolta verso Dio e la Parola era divina”, fattasi “carne” nel tempo (sarx egeneto), cioè uomo caduco e mortale. Incarnazione finalizzata alla rivelazione, perché è Parola disvelatrice del volto nascosto di Dio: “Dio nessuno lo ha mai visto; l’unigenito essere divino (theos) che è volto verso il seno del Padre, lui ce ne ha fatto l’‘esegesi’ (exegesato)”, cioè lo ha tratto fuori dalla sua impenetrabilità (Gv 1,18), mostrandocelo come colui che “ha tanto amato il mondo umano da donargli il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada alla rovina eterna ma possieda la vita del nuovo mondo” (Gv 3,16). […] Eppure lo scritto non abbandona, del tutto, il campo storico: la Parola divina incarnata è pur sempre in nazareno» (G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, pag. 55).
La divinizzazione di Gesù, la sua ipostatizzazione, la sua trasformazione in un essere divino ha finito per allontanarlo dalle persone, da quegli stessi uomini e da quelle stesse donne che probabilmente egli avrebbe potuto incontrare sulle strade della Palestina di 2000 anni fa.
Questo processo – che è durato dei secoli – ha portato alla costituzione del Cristianesimo come vera e propria religione, con i suo dogmi, i suoi apparati, le sue organizzazioni, la sua morale e la sua dottrina. In qualche modo questo cammino ci ha allontanati dalla fede, soprattutto dalla fede di Gesù: la fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, la stessa fede del popolo di Israele. Si è perso di vista il fatto stesso della «ebraicità» di Yehoshua figlio di Giuseppe, allontanandosi sempre di più dalla radice ebraica della fede biblica.
Riappropriarci di questa fede, ormai dispersa e lontana anche all’interno dell’ebraismo a noi contemporaneo, è il grande sforzo che la coerenza verso il messaggio di Gesù ci richiede pressantemente; un messaggio – non dimentichiamolo – che ci è stato tramandato attraverso l’esperienza dai suoi primi discepoli (anch’essi ebrei) e delle sue prime discepole (anch’esse ebree).

Nessun commento:

__________________________________________________________________

Questo BLOG è stato inserito tra i siti del portale

"EVANGELO DAL BASSO"
(http://www.evangelodalbasso.net/).


"Evangelo dal Basso.net" (EdB) è il portale che segnala e apre i siti Internet di gruppi e movimenti indipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche che, aspirando a un profondo rinnovamento della riflessione e della vita delle chiese a partire dall’ispirazione e dalle acquisizioni del Concilio Vaticano II e del movimento ecumenico, propongono la lettura della Parola di Dio alla luce delle proprie esperienze di fede.Il portale serve anche a diffondere informazioni e documenti che trovano poca o nessuna eco sui mass-media sia religiosi che laici.

_______________________________________________________________