giovedì 2 aprile 2009

Commento al vangelo di domenica 5 aprile

La morte del Cristo

Marco 14,1-15,47

Il racconto della Passione è lungo e complesso. Gli studiosi si sono concentrati sull’analisi di ogni singolo elemento, sino ai particolari più nascosti e misteriosi, e questo ha portato alla produzione di una raccolta molto estesa di opere che trattano il tema. Dunque, non mi avventurerò in una esegesi del racconto, in una spiegazione complessiva degli ultimi giorni della vicenda storica di Gesù. Il testo, del resto, è molto coinvolgente, sia emotivamente sia letterariamente, e forse bisognerebbe leggerlo semplicemente, così com’è, senza avere troppe pretese; senza pensare di arrivare ad una ricostruzione storica e definitiva dei fatti che portarono alla morte del profeta di Nazaret. Del resto, il racconto in questione non è né una cronaca né un verbale di interrogatorio, ma piuttosto una ricostruzione a posteriori che ha come scopo principale la narrazione di una vicenda di fede, un’esperienza che è diventata fondante per le prime comunità.


Una morte avvenuta nel silenzio

«Si può pensare che la sua morte sia avvenuta nel silenzio». Così, il biblista Giuseppe Barbaglio conclude il capitolo sulla crocifissione del suo libro su Gesù (Gesù ebreo di Galilea, Edb, Bologna 2002, p. 519). Probabilmente, nessuno era presente sul Golgota durante la morte del maestro galileo – a parte qualche soldato, gli esecutori materiali del supplizio. Nessuno dei suoi discepoli – troppo impauriti per farsi vedere in giro – e nessuno dei grandi e dei potenti della terra – troppo lontani da quella periferia di Impero romano che era la Palestina dell’epoca. Ma lì, sul quel monte, si stava consumando la vicenda di un uomo che avrebbe cambiato la storia dell’Occidente (nel bene e nel male) e che avrebbe assunto il ruolo – suo malgrado – di «personaggio fondante» di una nuova religione.
Quando i seguaci di Gesù provarono a raccontare la vicenda dell’uccisione del loro maestro, partirono praticamente da zero: «Tutto ciò che i discepoli più prossimi sapevano della Passione era che Gesù era stato crocifisso» (J.D. Crossan, The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, San Francisco 1992, p.375). Dunque, «la ricostruzione del processo di Gesù nei vangeli è in funzione apologetica», ciò non toglie che «la sentenza e la condanna non sono state una finzione» (O. da Spinetoli, Gesù di Nazaret, La meridiana, Molfetta 2005, p. 209).
Il motivo della condanna di Gesù è da ricercare nella sua vita, nelle sue scelte, nella sua autenticità e nella coerenza del suo stile di vita con il messaggio da lui annunciato. Così, «giunto al compimento del suo dramma, al momento di massima tensione emotiva, riaffiora la fedeltà allo stile di vita che aveva abbracciato. Gesù rimane solo, con le sue sole forze, faccia a faccia con Dio. Continua a essergli obbediente. Non chiede nulla che non sia quello che deve avvenire. E tutto avverrà davanti a un mondo che non può dominare e che gli è sostanzialmente lontano ed estraneo. Uomo della mobilità e della convivialità, rimarrà totalmente solo e immobilizzato sul legno» (A. Destro – M. Pesce, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008, p. 214).
Quando fu il momento di narrare la vicenda della Passione, i discepoli – attuando un procedimento tipico delle tradizioni antiche e presente in tutta la Bibbia – attinsero dalle Scritture ebraiche le immagini e le citazioni adatte a descrivere Gesù all’interno del piano salvifico di Dio e della storia di Israele – cominciando ad identificare il maestro di Nazaret con il Cristo, il Messia. Nacque così l’accostamento tra Gesù e l’immagine veterotestamentaria del «servo sofferente» (cfr. Isaia 52,13 e il Salmo 22). «L’intero salmo 22 diventò un repertorio di elementi che entrarono nella narrazione della morte di Gesù, e più tardi vennero inseriti nella liturgia della Passione» (C. Ginzburg, Ecce. Sulle radici scritturali dell’immagine di culto cristiana, in Occhiali di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 100-17, p. 107). Così, in Marco leggiamo che «si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse» (v. 15,24), e che «i passanti lo insultavano scuotendo il capo» (v. 29). Tutte citazioni del Salmo 22.
Ma il racconto raggiunge il culmine della drammaticità nel grido di Gesù sulla croce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34, cfr. Sal 22,2).


La maledizione della croce

La morte sulla croce di Gesù dovette rappresentare un trauma enorme per i suoi discepoli e le sue discepole. Morire in croce, oltre all’atroce supplizio che comportava, significava – per la tradizione ebraica – essere «maledetti». Le origini di questa maledizione si trovano nel Deuteronomio, dove si legge: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità». (Dt 21,22-23).
Per le prime comunità questo trauma fu fondamentale. Si cercò di porre rimedio a questa situazione e si arrivò a «spiegare» in altri modi la morte di Gesù di Nazaret. Paolo, nella lettera ai Galati, diede la sua interpretazione dell’evento: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno» (Gal 3,13). Questo problema, comunque, continuò a destare scandalo ancora per molto tempo, risultando a molti inspiegabile. Per esempio, l’autore della traduzione latina della Bibbia (la Vulgata), il padre della chiesa Girolamo, tentò di dare una sua spiegazione del problema negando completamente la visione di Paolo (cfr. Girolamo, Comm. in Gal. Lib. II, Patrologia latina, vol. 26, 388).
Nonostante i numerosi tentativi per dare una soluzione a questo scandalo con la Chiesa che ci ha costruito sopra tutta una serie di impalcature teologiche, l’idea della maledizione è giunta fino a noi. Sergio Quinzio così scrive: «Alla croce è stato appeso e sulla croce è morto Dio, diventato peccato e maledizione, e si può solo sperare che la morte di Dio sia più sapiente e più forte della vita degli uomini». A morire sulla croce, così è stato «creduto lungo i secoli, è Dio, a salire sulla croce non può essere altri che Dio» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 57).


«Maledetta incarnazione!» ovvero il tarlo della secolarizzazione

La «rivoluzione» di Gesù – se così vogliamo chiamarla – consistette nella liberazione dell’essere umano dal dominio del sacro. Ed è da questa idea di desacralizzazione che nasce la modernità, con tutte le implicazioni che questo ha comportato e continua a comportare. Ma a queste correnti sotterranee di liberazione (che potremmo definire le «correnti del regno di Dio»), si affiancano perennemente delle forze contrarie che lavorano per rinnegare il regno e trasformarlo in dominio del sacro. Uno studioso francese, Jaques Ellul, ha definito questo processo continuo e dialettico la «subversion» (sub-vertere) del cristianesimo, intendendo questo termine come «sovversione» ovvero come «pervertimento». (cfr. J. Ellul, La subeversion du christianisme, Seuil, Paris 1984, p. 73-75). Il processo di desacralizzazione, innescato dal cristianesimo nascente, pur essendo per sua natura irreversibile, è stato ad un certo punto arrestato – o almeno si è tentato di farlo o creduto di poterlo fare – per avviare una «ricostruzione del sacro» che, nella storia, si è rivelata «pervertimento del cristianesimo».
Potremmo dire che il tarlo della secolarizzazione, il germe della liberazione dal sacro, è stato portato dal cristianesimo insieme al concetto di kenosis (abbassamento, svuotamento di Dio). Il grande studioso Ivan Illich, arrivando a porsi il problema del male e del continuo emergere del sacro, e della violenza che esso comporta, ha affermato: «Mi trovo, come storico, di fronte a una realtà storica, un’epoca che, quanto più la guardo, tanto più mi appare confusa, incomprensibile e incredibile. Non ha nulla a che spartire con nessun’altra epoca storica ... Come spiegare questo male straordinario che non si è visto in altre società, ma solo là dove è stata importata la società occidentale? È qui, a mio parere, che il mysterium iniquitatis mi fornisce una chiave per comprendere il male di fronte al quale oggi sono, e per il quale non so trovare oggi una parola. Come uomo di fede, dovrei chiamarlo il misterioso tradimento o la perversione di quel tipo di libertà che i Vangeli hanno portato ... Quanto più ti permetti di concepire il male che hai sotto gli occhi come un male di nuovo genere, di un genere misterioso, tanto più forte diventa la tentazione – non posso fare a meno di dirlo – di maledire l’incarnazione di Dio». (I.Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, Macerata 2008, p. 28).
Il mondo moderno, secondo Illich, è coinvolto in un tradimento del suo antecedente cristiano ed è sostanzialmente un tempo apocalittico: «la perdita di fiducia nelle istituzioni moderne esprime non la fine del cristianesimo, ma il disvelamento di quel male misterioso che fece il suo ingresso nel mondo col cristianesimo. Questo male fu identificato dagli autori del Nuovo Testamento come l’Anticristo, un male, essi sostennero, che sarebbe maturato in seno alla chiesa come l’intima e sempre presente possibilità di un tradimento del Vangelo da parte di coloro che avrebbero falsamente proclamato di parlare in suo nome» (Ivi, p. 100).
Questo male, causa del pervertimento continuo e della corruzione (corrupto optimi pessima, ciò che era ottimo, una volta corrotto, è pessimo) del cristianesimo non è una forza esterna, qualcosa che interviene da fuori, ma è insito nel cristianesimo stesso, e tramandato lungo i secoli. È questo il mysterium iniquitatis («Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene», 2Te 2,7). È questa la chiave ermeneutica necessaria per giungere ad un disvelamento definitivo della storia, affinché il regno possa arrivare.
Questa concezione non è lontana dalla vita, ma anzi ci permette di leggere dentro le cose, e demistificare, e decostruire gli oggetti, i fatti, la realtà che ci circonda a partire dalle istituzioni economiche e sociali. «L’Anticristo, che assomiglia in così tante cose a Cristo, e che insegna concezioni globali, responsabilità universale, umile accettazione di quel che viene insegnato anziché personale ricerca della verità, guida attraverso istituzioni. L’Anticristo, o diciamo il mysterium iniquitatis, è il conglomerato di una serie di perversioni con le quali cerchiamo di dare alle nuove possibilità che sono state aperte attraverso il Vangelo, istituzionalizzandole, sicurezza, capacità di sopravvivenza, indipendenza dalle persone singole. Io sostengo che il mysterium iniquitatis ha covato a lungo ... ma oso dire che oggi esso è presente più chiaramente di quanto lo sia stato prima». (Ivi, p. 101, sottolineatura nostra).
Questo è il paradosso del pervertimento del cristianesimo. Il tradimento della Chiesa «non è qualcosa di non-cristiano» ma «è parte della kenosis», è dentro la chiesa stessa, dentro il cristianesimo. E, addirittura, la paradossalità della corruptio optimi è trasferita direttamente in Dio (cfr. Ivi, p. 149).

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