martedì 5 aprile 2011

Un bene fragile. Il nuovo libro di Antonietta Potente

E' uscito nelle librerie il nuovo libro di Antonietta Potente "Un bene fragile. Riflessioni sull'etica" (Mondadori, p. 180, euro 10).


"Antonietta Potente è una suora domenicana, ma non bisogna immaginarsela nel chiuso di un convento, immersa tutto il giorno nella tranquillità della preghiera. Vive in Bolivia, insieme a una famiglia indigena, e ha sviluppato una riflessione teologica tra le più profonde e originali, che parte da un ripensamento totale della vita religiosa alla luce di una spiritualità ancorata al presente, capace di unire la mistica alla politica e all’impegno per la salvaguardia dell’ambiente. In questo libro, accostando i temi dell’etica all’immagine familiare di una casa e delle sue stanze, l’autrice avvicina tutti, credenti e non, ai grandi quesiti che ci pone la contemporaneità". (Dalla quarta di copertina)

"Questo libro non è tanto un trattato sull’etica quanto piuttosto un invito a descrivere la vita, sollecitando ciascuno a guardarsi intorno e rendersi conto dei dettagli che la compongono... si tratta comunque di una proposta di attiva partecipazione in un momento storico in cui ci sentiamo sempre più strumentalizzati e sempre meno protagonisti, al pari dell’ambiente e delle sue risorse..." (dalla prefazione)


venerdì 3 settembre 2010

Commento al vangelo di domenica 5 settembre

La libertà degli “spostati”


Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. (Lc 14,25-33)


“Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Cos'è questa richiesta di Gesù di rinunciare a tutto per lui? Appare sproporzionata, fuori da ogni ragionevolezza e da ogni buon senso. Chi è lui per chiedere così tanto: odiare madre, padre, moglie, marito, figli e fratelli; caricarsi della propria croce; rinunciare a tutti i propri averi? Si tratta di condizioni che pochissime persone potrebbero accettare. Rinunciare ai propri affetti, ai propri beni, al proprio orgoglio: per chi, per che cosa? E quale garanzia sarebbe offerta a chi accetterebbe di compiere questa enorme spoliazione? Non è specificato, almeno in questo passo; il Regno di Dio? Sì, ma cos'è? Ne abbiamo soltanto sentito parlare, chi sa davvero di cosa si tratta?

Questo repertorio di sentenze e considerazioni sull'atteggiamento del discepolo che l'evangelista pone in bocca a Gesù sono da leggere, probabilmente, come un'esortazione rivolta a una comunità di discepoli ben precisa, quella a cui Luca si rivolge. Alla creazione dell'identità collettiva di una chiesa. Parole specifiche per persone specifiche in un contesto specifico, insomma.

Eppure, l'apparente irragionevolezza delle parole del Nazareno si scontra con un ragionamento, una restituzione di senso, quasi un calcolo razionale: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.

Ma qual è il prezzo di tanto sforzo? E per cosa poi? Come si può rinunciare a quelle cose, anche di poco conto, anche minute, di cui ci circondiamo, e che comunque danno un senso alla nostra vita. A una prima lettura, sembra quasi che Gesù non dia nessun valore alle cose. Eppure, in realtà, egli gliene dà tantissimo. Perché è alle cose che bisogna rifiutare per seguirlo.

Provate a dire a chi è in difficoltà, a chi non ha lavoro, a chi è precario, di rinunciare alle poche cose che possiede perché è l'unico modo per seguire Gesù. Vi riderà in faccia, oppure vi prenderà per pazzo, o per fanatico. Questo passo del Vangelo, pertanto, è pericolosissimo. Innanzitutto perché è tra quei brani che hanno contribuito alla creazione, nei secoli, di una certa visione pauperistica della chiesa che tanti danni ha provocato: primo fra tutti lo scarso riconoscimento che spesso viene dato nelle nostre comunità alla fatica, al lavoro e all'impegno delle persone. Tanto che le chiese non sono esenti (e in questo non sono affatto dissimili dal resto della società) dal precariato e dallo sfruttamento del lavoro delle persone; con tutto ciò che comporta. Si instaurano così relazioni di dominio, per cui la libertà e il coraggio della parola vengono sacrificati sull'altare dell'opportunità, della dipendenza economica; alimentare quasi. Che fa dire: “tengo famiglia”.

Basterebbe, allora, rinunciare a tutto per essere liberi e autentici discepoli di Gesù? Abdicare ad ogni dipendenza materiale dall'istituzione? L'invito di Gesù a seguirlo, ad essere suo discepolo, non può che essere personale: tu rinuncia, se vuoi seguirmi. E non: voi rinunciate. In un rapporto personale, segnato dall'amicizia, le relazioni che si creano (anche di dominio) sono comunque – se il rapporto è sano – frutto di una scelta reciproca. Allora sì che un individuo può anche scegliere di rinunciare a qualcosa (o a tutto) per andare incontro a un altro suo simile. Si stabilisce una relazione di proporzionalità tra le rinunce dell'uno e dell'altro. Ma se la rinuncia è fatta in nome di una comunità, di un gruppo, di una collettività, ecco che l'individuo si troverà comunque succube, dominato, in balia di un vento che non riesce a controllare. La comunità sceglierà per lui, e lui non potrà mai scegliere per il gruppo. Si infrange così la scelta, libera e proporzionata, di un reciproco scambio, che è ciò che contraddistingue le relazioni di amicizia; dono che non necessariamente dev'essere simmetrico, ma piuttosto dissimmetrico.

Ed è per questa miopia, per questa confusione, per questa prospettiva ingannevole che spesso le nostre chiese diventano luoghi di dominio delle coscienze, di violenza e di soggezione. Perdendo di vista la relazione primaria che deve costituirsi, nella libertà, tra le persone: l'amicizia.

L'esempio di una dissimmetria (cioè di un rapporto che nasce necessariamente tra persone diverse, mai uguali in tutto e per tutto, mai omologate; ma che assumono su di sé la propria unicità in un reciproco riconoscimento, facendone il punto di partenza del loro rapporto, libero; la loro ragione di esistere) ci viene dato dall'atteggiamento del Samaritano.

La prospettiva assunta da quest'uomo ci fa scorgere la possibilità di nuove proporzioni, di nuove relazioni tra le persone. Questa storia ci fa capire che io sono “io” nel senso più profondo e più pieno che mi sia dato per essere “io”, proprio perché tu, permettendomi di amarti, mi dai la possibilità di essere co-relativo a te, di essere dissimmetricamente proporzionato a te. Io sono perciò libero di accettare chi io voglio, di scegliere da chi mi lascio dare la possibilità di amare. Questa prospettiva spalanca le porte verso un paesaggio che sinora non era mai stato scorto, né da Platone né da Aristotele né dai misteri greci. E quindi rinunciare ai propri averi, tenere in odio i propri affetti, assume un nuovo significato: sgombrare il campo da ogni ostacolo in grado di intralciare la nostra libertà di scelta.

Lasciarsi ferire dalla differenza delle persone che ci sono amiche è possibile soltanto se mettiamo da parte, per un momento, la corazza che portiamo addosso quando camminiamo per le strade affollate delle nostre città (e diverso sarebbe se camminassimo in montagna, dove a ogni raro e casuale incontro segue un saluto, anche con lo straniero, con lo sconosciuto; e la nostra corazza è un po' più sottile).

Le relazioni tra gli uomini e le donne stentano ad essere colte, o sfuggono non appena vengono colte: questo è il senso della “dissimmetria”, che è corrispondenza in tutto, ma lievemente distaccata, “spostata”. Dio ha creato un mondo che è “spostato”, disallineato. E questo significa trovarsi “nudi” di fronte al proprio amico (stando però attenti al rischio – ché non sempre è bene – di trovarsi indifesi e spogli in una fossa di leoni, dove la scelta non è possibile perché non si tiene conto della persona).

Rinunciare a tutto per seguire Gesù, allora, può voler significare proprio questo: la nudità: un atteggiamento etico, l'unico possibile in questo mondo, dove non è più possibile considerare le cose fuori da relazioni di compra-vendita, di dominio, di violenza; dove la parola “gratuità” è diventata impossibile da pronunciare, insieme a un'altra parola: virtù. Perché è inutile nasconderci che questo modo di porsi di fronte alla vita richiede un addestramento faticoso, che gli antichi chiamavano askesis (ascesi). Non nel senso di una rinuncia, che spesso diventa fine a se stessa o finalizzata all'esaltazione narcisistica della propria probità, ma nel senso di una austerità, di una liberazione progressiva da ogni strumento, oggetto utile o pensiero che ci rende difficoltoso l'agire con gratuità e semplicità; condizioni che il vangelo ci chiede: gesti di carità, di fede, di speranza.

giovedì 13 maggio 2010

Documento delle Comunità di base sulla Sindone

Non è qui, è resuscitato(Lc 24,5-6)


Abbiamo un sincero rispetto delle molte migliaia di cristiani che in questi giorni vengono a Torino per vedere la sindone. Non giudichiamo la fede di chi, vedendo l’immagine di un corpo martoriato impressa in un vecchio lenzuolo, prova emozione, si sente confortato nella sua fede. Non ci permettiamo di giudicare la fede di nessuno.

Né ci interessa argomentare sull’autenticità del “sacro lino”, anche se concordiamo con chi ritiene che non abbia veramente avvolto il corpo di Gesù.

Come cristiani e cristiane appartenenti a piccole comunità sparse per il Piemonte (a Chieri, Torino, Pinerolo, Piossasco, Alba, Cuneo) riteniamo che i vertici della chiesa cattolica abbiano perso una occasione per ricordare al popolo dei credenti che Gesù non lo incontriamo in un lenzuolo ma nella vita, nella sofferenza, nelle lotte e nelle speranze dei poveri, perché Gesù è vivo, è presente nella storia.

Crediamo che non ci sia bisogno di immagini per vivere la fede: Dio si rivolge a noi con la forza della sua parola che ci richiama a cercarlo tra i vivi, a testimoniarlo tra le tante persone che vivono con fatica.

Riteniamo invece gravissima la scelta del vescovo di Torino di utilizzare la sua autorità per concedere alle donne che, nei giorni dell’ostensione della sindone, confessano a un prete di aver abortito, l’automatica cancellazione della scomunica che, altrettanto automaticamente, era stata loro comminata. Gesù aveva affidato la responsabilità di “legare e sciogliere” alla comunità intera, in una relazione di amore reciproco che è il cuore della sua preghiera eucaristica, così come leggiamo nel Vangelo di Giovanni: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato” (Gv 15,12). Davanti a lui nessuno aveva tirato la pietra a quell’adultera... Invece questa responsabilità comunitaria è stata trasformata in un “potere” esclusivo dei “sacri gerarchi”.

Viene utilizzata l’occasione dell’ostensione per arrogarsi il diritto di condonare una scomunica, data arbitrariamente per un atto così delicato che provoca enormi sofferenze alle donne che lo vivono.

Ci limitiamo a constatare quanto poco amore evangelico ci sia in queste assurde scelte della gerarchia.

La gerarchia della chiesa cattolica insiste nel culto delle reliquie; non ci stupisce, ma ci amareggia profondamente, perché così facendo sposta l’attenzione dei fedeli dalla testimonianza alla superstizione.

Noi, cristiani e cristiane delle comunità di base del Piemonte, con umiltà pensiamo che nell’oggi difficile che stiamo vivendo non dobbiamo cercare il volto di Gesù nelle immagini e nelle reliquie, ma nel volto del nostro prossimo, qualunque sia la sua cultura o la sua fede. Solo tentando di vivere la fede in Gesù in questo modo, nella fatica di tutti i giorni, possiamo essere un segno, una testimonianza utile a costruire una società meno divisa, più accogliente, più cristiana.

Le comunità cristiane di base del Piemonte

maggio 2010


giovedì 11 marzo 2010

Al papa non piace Gioacchino da Fiore: nella chiesa non c'è spazio per l'utopia

Pubblichiamo l'articolo di Enzo Mazzi, tratto da il manifesto dell'11 marzo, dove si analizzano le prese di posizione di Ratzinger contro le spinte utopiche nella storia della chiesa. L'articolo, condivisibile per molti versi, mostra l'atteggiamento miope e limitato del "pastore tedesco", il quale non fa mistero di ispirarsi ad una visione filosofico-culturale figlia di certo agostinismo. Portatore di una visione ristretta della storia dell'occidente e della modernità, il Papa si pone completamente al di fuori di ogni riflessione sull'ermeneutica, di cui Gioacchino fu uno dei massimi precursori; dimostra inoltre di non condiderare - e di non (ri)conoscere - quella preziosa corrente sotterranea che ha attraversato i secoli, nutrimento fondamentale della cultura occidentale, che Henri de Lubac definì La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.


Lo scandalo del sacro
di Enzo Mazzi

Questo montante dilagare dello scandalo della pedofilia nel cuore della istituzione ecclesiastica cattolica a tutte le latitudini pone gravissimi problemi al senso di appartenenza ecclesiale in settori sempre più ampi del cattolicesimo mondiale. Il potere ecclesiastico, che per lunghi anni ha cercato colpevolmente di nascondere il fenomeno dietro una cortina di silenzio, sembra aver capito che il tempo dell'onnipotenza del mondo del sacro è ormai finito. L'abito talare, lo zuccotto rosso o la tiara papale non garantiscono più la immunità di fronte alla giustizia terrena. E il potere della informazione ha stracciato definitivamente il «velo del tempio» penetrando impudicamente nelle oscurità delle sacrestie, dei collegi cattolici, dei conventi, e perfino dei palazzi apostolici.

Di fronte a un quadro così complesso, che richiederebbe tanta saggezza, capacità di rinnovamento e lungimiranza, è sconcertante che i massimi vertici della gerarchia cattolica si attardino ancora nel riproporre i vecchi schemi della unicità-perennità della Chiesa e del centralismo-assolutismo del papato. E che continuino a guardare con sospetto a ciò che si muove alla base della Chiesa e a tentare ancora la via ormai anacronistica della repressione verso lo sviluppo del conciliarismo. «Ogni volta che nella Chiesa si affronta un periodo di declino - ha detto il papa ieri - si affaccia anche un utopismo spiritualistico», che porta alcuni a sognare la nascita di una «altra Chiesa». Una sorta di «utopismo anarchico», come quello ispirato nel Medioevo da Gioacchino da Fiore, si insinuò nel Concilio Vaticano II, ma «grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro hanno saputo difendere, con le novità del concilio, anche l'unicità della Chiesa».

Quello che il papa vede come un pericolo è da molti ormai considerato come l'unica possibilità di futuro per una fede cristiana liberata da dominio medioevale del sacro.

Gioacchino da Fiore, vissuto nella seconda metà del XII secolo, monaco del monastero cistercense di S.Giovanni in Fiore, nella Sila, si rese interprete delle attese delle classi umili del tempo. A cominciare dagli inizi del secondo millennio era avvenuta una grande trasformazione della società feudale: il declino del sistema di dipendenza della servitù della gleba e la nascita di comunità di villaggio dotate di autonomia e formate da contadini non più servi della gleba. Questo porta una nuova cultura, la cultura della cooperazione e della solidarietà. È in questo clima che il monaco cistercense Gioacchino da Fiore lancia l'annuncio della liberazione da tutti i poteri che in diversi modi dominano dall'alto e l'avvento di una società dello Spirito e dell'amore universale. Un annuncio che in diverso modo nutrirà tutte le rivoluzioni moderne, come ci dicono molti storici autorevoli. Tracce della profezia di Gioacchino da Fiore si ritrovano nel modernismo a cui guardava con simpatia papa Giovanni e nei movimenti della liberazione post-moderna come ad esempio nella riflessione di un Teillard De Chardin, nelle comunità di base e nella Teologia della liberazione.

Altro che utopismo anarchico. È il futuro che si delinea. Utopismo lontano dalla realtà appare piuttosto questa insistenza nel blindare la Chiesa nel bunker del sacro illudendosi che in tal modo essa possa sfuggire alle sfide della secolarizzazione. Gli orrori della pedofilia così come tutto il marcio che emerge dal buio degli spazi sacri non si può più affrontare con quell'assolutismo gerarchico che è la radice stessa dei mali della Chiesa. Occorre aprire porte e finestre allo Spirito che alimenta i «segni dei tempi».

giovedì 4 marzo 2010

Commento al vangelo di domenica 7 marzo

Certe verità dabbene. Giudizio di Dio o giudizio dell’uomo.

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». (Luca 13,1-9)

I muri scarabocchiati della casa di Alda Merini

Quei tali che si presentano da Gesù per «riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici» vogliono che egli si esprima su questi episodi violenti e che prenda posizione contro Pilato. Quegli uccisi erano presumibilmente membri del movimento zelota, il quale sosteneva la lotta armata contro l’occupazione romana. «Cosa pensi tu, Gesù, di questi zeloti? Sono buoni o sono cattivi?», domandano questi che gli si avvicinano. «Sono bianchi o sono neri, da che parte stanno?», sembrano chiedere «e, soprattutto, tu da che parte stai?». Gesù non risponde alle loro domande. Gesù non risponde mai alle domande con una affermazione netta, chiara. Verrebbe da dire: che uomo antipatico doveva essere! – uno che risponde ad una domanda con un’altra domanda: dà sui nervi. Probabilmente è l’atteggiamento del Sapiente che lo richiede, ma facilmente è anche la consapevolezza della complessità del mondo; l’esperire la difficoltà della strada che porta all’autenticità. Se volessimo fare una sintesi del messaggio di Gesù, forse, potremmo usare – semplicemente – questa parola: autenticità. Una parola che diventa la chiave di lettura di una vita, la vita di un poeta, di un artista.

Ecco allora che il Profeta mette in discussione quella domanda che mal posta si insinua nella mente della gente, frutto della mentalità farisaica che stabiliva una perfetta equazione tra peccato e castigo: se gli zeloti hanno fatto quella fine avranno senz’altro combinato qualcosa di male e Dio si è vendicato. E però, pensare che i farisei, o chi per loro ha posto la domanda sul delitto e sul castigo irrimediabilmente giusto, siano dei «cattivi» non è corretto, non è giusto. I farisei non sono né buoni né cattivi, anche se il testo del vangelo gioca sulle contrapposizioni. Ci saranno stati farisei buoni e farisei cattivi (quest’ultimi, viene da pesare, invero pochi). Genuinamente, Gesù risponde loro mettendoli di fronte alla contraddizione: «Pensate davvero che questi che Pilato ha fatto uccidere, o quegli altri sui quali è crollata addosso la Torre di Siloe e sono morti, siano colpevoli di qualcosa? Colpevoli più di voi? Colpevoli più di tutti?».

Ognuno, uomo o donna, vive nella sua vita una difficoltà: lo sforzo verso l’autenticità, nonostante la contraddizione, nonostante la tensione tra il detto e il non-detto, tra ciò che si è (o ciò che crediamo di essere) e ciò che gli altri percepiscono di noi. Gesù lo sa, conosce questa «rottura», questo «smarrimento». Certo, appare blasfemo parlare di uno smarrimento di Gesù, di una sua sconfitta, lui che doveva essere il Messia.

Pensate al popolo di Israele, che attende ancora il suo messia, che aspetta ancora qualcuno che venga a liberarlo dal giogo della dominazione straniera, e intanto fa la guerra in nome di un messia; pensate a quante manifestazioni del sacro la gente afferma di vedere e di conoscere, e intanto stenta ad amare; a quanti dicono di sapere come Dio agisce, chi è a lui gradito e chi no, chi sono i dannati e chi sono i salvati, e intanto non perdona. È questo l’atteggiamento dei farisei, di ieri e di oggi: «noi sappiamo chi si merita la punizione di Dio, noi siamo dalla parte del bene e del vero, noi abbiamo la verità». Ma non credete a chi vi dice di avere la verità! La verità non si scorge dietro una curva, non si riflette in uno specchio; bisogna masticare tanto per sentirne un po’ il sapore, tutti i giorni, con difficoltà.

Ladrone, part. da Antonello da Messina

Eppure i farisei, di oggi e di ieri, sono «buoni», sicché possono giudicare ed esercitare «il potere dei più buoni». Ma, per fortuna, autenticità non corrisponde a probità – non del tutto almeno – come invece sembra supporre uno dei teologi più alla moda del momento nel suo ultimo libro La vita autentica. Non basta essere «buoni», soprattutto quando questo «essere per il bene» è conseguenza di certa dabbenaggine borghese (uso questo aggettivo volutamente, nonostante molti ritengano questa parola sorpassata e inservibile) piuttosto che di una vita autentica ancorata alla difficoltà dell’esistenza. La difficoltà di chi quotidianamente si trova a dover fare i conti con la contraddizione che abita il proprio cuore, con i propri errori, le proprie debolezze.

Gesù fu messo a morte perché metteva a nudo le debolezze di ogni accusatore, di ogni inquisitore, di ogni giudice; di chi si aspetta risposte o tutte bianche o tutte nere: risposte facili. Non ci sono risposte facili, ci sono risposte autentiche. «Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai»: ci sono risposte che aprono possibilità, non sentenze definitive; ci sono atti di misericordia e di pietade (dire semplicemente pietà, ormai fa pietà), non giudizi insindacabili. Un fico sterile allora diverrà opportunità di riscatto, ché è più facile ammirare un albero in fiore che sentirsi muovere qualcosa nelle viscere per una pianta rinsecchita, incapace ormai di dare frutto.

venerdì 23 ottobre 2009

Dibattito su Ivan Illich/2

La pubblicazione su questo blog dell’articolo di risposta a Lucetta Scaraffia ha prodotto un dibattito a nostro avviso interessante (vedi qui), al quale ha partecipato la stessa Scaraffia. Ora, dopo la nostra recensione dell'ultimo libro di Illich, La perdita dei sensi, nuove voci si sono aggiunte al dibattito. Si tratta di Giannozzo Pucci, direttore editoriale della Libreria editrice fiorentina e curatore dell'ultimo libro di Illich.


Pucci ci ha scritto:
Grazie per la recensione approfondita e che offre importanti contributi al dibattito su Illich [...].

Nel merito c'è solo un punto del saggio su Leopold Khor da cui, usando l'argomento di Ivan della visione faccia a faccia , traggo una conclusione diversa.

Nella tradizione cristiana fin dalle origini (Luca 1:26-45: «quando Elisabetta sentì il saluto di Maria, il bambino sobbalzò nel suo grembo») confermata dai padri della Chiesa san Basilio, san Gregorio di Nissa e Tertulliano col principio dell’animazione immediata, la visione faccia a faccia della donna in attesa comprendeva in lei anche l’umanità di un bambino.

C’è una lunga storia europea di esposizione di bambini dalle membra mal fatte che, a partire dai popoli guerrieri spartani e romani, ha continuato nei secoli, ma i cristiani, come testimoniato dalla Lettera a Diogneto del secondo secolo, «non espongono i loro nati»: infatti se al cristiano è chiesto di amare il nemico, tanto più accoglierà con amore il cammino di un bambino/mostro che gli viene a complicare la vita.
Giannozzo Pucci

La nostra risposta:
Gentilissimo Pucci,
la ringrazio per l'attenzione e i risconti critici che ha voluto farmi [...] Devo davvero ringraziarla per il prezioso lavoro di cui la LEF si è fatta carico pubblicando La perdita dei sensi. Ogni sforzo editoriale che cerca di guardare al di là delle ragioni puramente economiche e che si impegna in una 'missione' culturale e civile è da apprezzare e appoggiare sempre.

Riguardo le sue critiche nel merito, che se ho ben inteso si riferiscono alla questione dell'inizio vita, mi sono limitato nella mia recensione a riportare le parole di Illich, inserendole in un contesto specifico e cercando di restituire complessità al pensiero di Illich, che a volte viene tirato per la giacchetta a destra o a manca (si veda l'articolo della Scaraffia). Non mi sembra con questo di aver proposto un Illich abortista - lungi da me - ma piuttosto, forse, un Illich che sull'aborto è vicino a posizioni pasoliniane e che fa riferimento - come ricorda spesso - al tomismo, che certo non pensava che l'embrione fosse 'una vita'. Ora, probabilmente nel mio articolo questo non risulta del tutto chiaro, se è così me ne scuso, ma del resto non pensavo di essere esaustivo sull'argomento.

In questi anni, durante i quali mi sono avvicinato a Illich, grazie anche a iniziative editoriali come la sua, sono sempre rimasto colpito dalla capacità di Ivan di 'sviare' e di sovvertire la ragionevolezza apparente di alcuni discorsi. Mi pare che la mia analisi, nel porre Illich fuori e al di là del discorso 'bioeticista', sia e resti valida, per le ragioni di cui ho scritto, tenendo anche conto di una concezione del faccia a faccia e di un ethos strettamente legato all'ethnos.

La ringrazio ancora per la sua attenzione e gentilezza
Saluti cordiali
G.G.


Risposta di Pucci:
Gent.mo Gendusa,
la sua analisi nel porre Illich fuori dal discorso bioeticista è indiscutibile, lo stesso Giuseppe Sermonti (principale critico italiano di Darwin) ha avuto parole di fuoco contro la bioetica come sottoprodotto dell'etica, e come tale impotente davanti al trono della religione scientifica e del principio di efficienza. Teddy Goldsmith, che non era cattolico e aveva un supremo rispetto e ammirazione per le religioni naturali, ha scritto un saggio strepitoso che non cita nemmeno una volta la tradizione ebraico cristiana ma solo la religiosità indigena che, come San Tommaso, vede nella natura un'autorità etica a cui l'uomo deve inchinarsi, mentre i neodarwiniani la considerano un'invenzione, cioè un frutto dell'onnipotenza umana.

Forse si potrebbe essere più dialettici con la Scaraffia e porle il problema come l'ha posto Ivan alle monache benedettine di Regina Laudis. Il caso Englaro ci ha dimostrato che quando accettiamo di metterci in guerra con ogni arma contro la morte cominciamo un percorso diabolico e poi nel caso specifico staccare il sondino sulla base di un giudizio su se la longevità postuma di tizio o di caia valga la pena di essere vissuta si avvicina pericolosamente ai ragionamenti nazionalsocialisti coi quali i matti venivano mandati alle camere a gas. Di fronte a tutto questo, nasce giustificatamente il dubbio che sdraiarsi nella neve come facevano i vecchi esquimesi, possa essere moralmente meno grave. In fondo anche la polmonite di Tolstoi presa sul treno della sua fuga, per non essersi coperto abbastanza e aver voluto sfidare il vento, ha un senso vicino al dubbio che avanza il libro che mi sembra rappresenti qualcosa di molto importante nell'opera di Illich. Mi manca ancora di pubblicare l'ultimo seminario che Ivan ha tenuto a Camaldoli nel maggio 2002 (prima di entrare in ospedale a Firenze per una tremenda pancreatite che lo portò vicino alla morte già nel giugno) e che cominciava così: "Una delle ragioni che mi rendono difficile l’insegnamento oggi è che quella frase di Darwin che tu mi hai letto, che non conoscevo, in un certo senso la sottoscriverei. Fatemela leggere ancora una volta. 'Fra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato in secoli (già c’è il senso moderno del probabilismo) è quasi certo che le razze umane più civili (oggi si direbbe più nordatlantiche, più anglofone) stermineranno e sostituiranno in tutto il mondo le altre'. Con la dichiarazione di guerra al signore terrorista (immaginarsi che onore per un terrorista avere una dichiarazione di guerra dalla maggiore potenza del mondo). Che cos’è la guerra, dove siamo? siamo su quella strada dello sterminio delle altre colture".

Ho in preparazione la traduzione del libro di Carl Amery Hitler come precursore che forse intitolerò Hitler come profeta della modernità nel quale si tira fuori dall'armadio il vero cadavere della nostra civiltà, le sue ispirazioni filosofiche fondamentali che si sono travestite di democrazia, di comprensione e anche di sinistra per trasferirsi dai vinti della seconda guerra mondiale ai vincitori diventando mentalità comune anche fra molti bravi cattolici.

Con amicizia e auguri di buon lavoro anche a lei.
Giannozzo Pucci

mercoledì 21 ottobre 2009

L'ultimo libro di Illich. Una recensione

Ivan Illich e la perdita dei sensi

La perdita dei sensi di Ivan Illich, uscito per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina lo scorso settembre, completa il corpus delle opere illichiane, proponendo in italiano i saggi, i discorsi e i testi di conferenze che coprono l’ultima fase della vita di Illich, dal 1987 al 2002.


Il volume, uscito postumo in Francia nel 2004 col titolo La Perte des sens, è un’opera fondamentale per comprendere le ultime fasi del pensiero del grande storico e filosofo, che ha sempre testimoniato con la vita la sua critica dello sviluppo, delle istituzioni e della società dei servizi. La raccolta, eterogenea sia per generi sia per argomenti trattati, permette di approfondire i temi dell’ultimo Illich, già proposti al lettore italiano dai due preziosi volumi di conversazioni curati da David Cayley e pubblicati dalla casa editrice Quodlibet di Macerata (Pervertimento del Cristianesimo, 2008 e I fiumi a nord del futuro, 2009). La perdita dei sensi consente ora di avvicinarsi al pensiero dello studioso con più precisione e rigore, ampliando e specificando meglio quanto già apparso negli ultimi anni in Italia, specialmente in I fiumi a nord del futuro, anche se l’apparato critico del volume lascia un po’ a desiderare: volutamente si è preferito non riportare in nota le edizioni italiane dei testi citati, e l'indice analitico non è pienamente esaustivo.

I temi raccolti da Illich in questa sua ultima pubblicazione, cui lavorò insieme a Valentina Borremans prima della morte, avvenuta nel 2002, vanno dalla ricerca sull’origine e la critica dei servizi (in primis scuola e salute, questioni da sempre care all’autore) sino alla storia dei bisogni e agli argomenti «economici» tesi a «risvegliare dal sonno economico» e a far «perdere la fede nell’Homo oeconomicus», illuminante a proposito è la conferenza su Leopold Kohr del 1994. Grande spazio occupano poi i temi della mutazione delle percezioni: della visione (storia dell’ottica), del leggere (lectio divina e mutazione del testo), del sentire (amplificazione…). Commoventi poi, per la loro preveggenza e la loro incidenza sull’esistenza delle persone, le riflessioni sul morire: particolarmente toccanti e significative la lettera sulla «Longevità postuma», scritta a delle monache di clausura, e quella su «La perdita del mondo della carne», indirizzata all’amico Hellmut Becker.

Illich, in questo libro, si trova più volte a rileggere le sue opere precedenti, specialmente Medical Nemesis, alla luce dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi trent’anni, confrontandosi con la «società dei sistemi» che ha inciso inaspettatamente sulla percezione del sé in relazione all’‘altro’, al di là di ogni critica dello sviluppo e che – secondo l’autore – esige analisi sempre più complesse.

L’obbiettivo di Illich, per cui si batte in tutti questi interventi, è «la rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ‘show’, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro». Pratiche ascetiche che devono necessariamente basarsi sull’amicizia. «Ho scritto questi saggi – ricorda Illich – durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis».


La perdita della morte (e della vita)

Tra i molti argomenti trattati da Illich ne La perdita dei sensi, la critica alla «a-mortalità» proposta in queste pagine risulta particolarmente preziosa: precisa, infatti, il pensiero dell’autore su quelli che noi siamo oggi abituati a chiamare i «temi della bioetica». Su questo punto spesso Illich viene frainteso da chi fa dei suoi testi una lettura superficiale (vedi qui e qui), non comprendendo che egli si colloca al di là della cosiddetta bioetica. Compiendo una critica radicale delle categorie mediche imposte dall’ideologia dello sviluppo, Illich si schiera contro ogni rappresentazione degli esseri viventi come «sistemi immunitari», concezione che legittima la riduzione dell’essere umano a «una vita». «‘Zigote’ – afferma – è il nome dato all’uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell’utero. Questo ‘fatto scientifico’ sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano». Ma come si è arrivati a questo? «Almeno in parte perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io’ per il riconoscimento dell’‘altro’ – all’occorrenza, la madre» (p. 252).

Illich rivendica il «contatto con la carne» e, in questo senso, si colloca al di là (o al di qua) della bioetica, in quanto considera la morte e la sofferenza due territori che devono restare estranei alla medicina. I medici antichi «imparavano a riconoscere la facies ippocratica, l’espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nell’atrio della morte. In questa soglia la ritirata era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente». Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla «crescita esponenziale dei costi delle ‘cure’ terminali, al miserabile prolungamento di ‘pazienti’ tuffati in un coma irreversibile e che hanno l’esigenza che una ‘buona morte’ – letteralmente eu-thanasia – sia riconosciuta come una parte della missione assegnata al ‘corpo curante’» (pagg. 254 – 255).

È facile comprendere come questa critica radicale del «sistema medico», che viene prima di ogni bioetica, con tutta la sua libertà e il suo coraggio, difficilmente può essere accettata dalle fazioni che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della «vita» ad ogni costo – grazie alle preziose tecniche della medicina – sia i difensori della «libertà» e della «buona morte» si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva illichiana. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l’accettazione a-critica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o «pro» o «contro» – e viceversa) restano schiavi della medicalizzazione della vita – e della morte. Due facce della stessa medaglia, insomma. Illich scompagina questa dicotomia con la sua libertà, che si coniuga nell’amicizia e nella prassi ascetica e conviviale (che è «destinata all’uomo austeramente anarchico», scriveva ne La convivialità). In questo senso Ivan Illich è fuori da ogni bioetica, proprio perché è conseguenza della medicalizzazione. «Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno … Nell’era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d’ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine» (p. 260).
G.G.

• Ivan Illich, La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pagg. 352, euro 18.

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