domenica 16 dicembre 2007

Predicazione per l’eucaristia comunitaria – Pinerolo 16 dicembre 2007

«Voglio l’amore e non il sacrificio» (Os 6,4-6)

di g.g.


Os 6,4
Che dovrò fare per te, Efraim,
che dovrò fare per te, Giuda?
Il vostro amore è come una nube del mattino,
come la rugiada che all'alba svanisce.

5 Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti,
li ho uccisi con le parole della mia bocca
e il mio giudizio sorge come la luce:

6 poiché voglio l'amore e non il sacrificio,
la conoscenza di Dio più degli olocausti.


Il Dio deluso, il popolo infedele.

Dio è frustrato, è deluso (Cfr. I Sam 10, 22; Es 17,4). Le domande che rivolge al suo popolo sono i quesiti che un padre rivolge ai propri figli nell’ora della preoccupazione, della disperazione, dell’inquietudine di chi non sa più che cosa fare per risollevare la sorte della persona che ama.

Questo profondo sentimento è stato provocato dalla constatazione che l’amore che il popolo d’Israele nutre per Dio è fragile ed è caratterizzato da precarietà e infedeltà: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce» (6,4).

Amore di cui parla Osea, in ebraico hesed (che si traduce anche come «bontà»), è connotato da un forte sentimento di fedeltà che contraddistingue il rapporto tra due parti impegnatesi formalmente l’una verso l’altra tramite un’alleanza. L’hesed è dunque un «patto di amore» tra Dio e il suo popolo.[1]

Questo amore è venuto a mancare: viene a mancare spesso. E continuamente si viene a creare un dinamismo che attraversa tutta la storia della Bibbia, il continuo rinnovarsi della promessa di Abramo da parte di Dio nella storia. Una promessa ricordata ciclicamente agli uomini e alle donne che non riescono a mantenere questo patto di amore.


Non religione ma fedeltà e amore.

Gli israeliti pensano di poter adempiere ai doveri, all’impegno reciproco che questo amore richiede, attraverso la «religione», attraverso la pratica esteriore dei sacrifici e delle oblazioni. Questa concezione esteriore di una religione “poco religiosa” viene subito in contrasto con il sogno di Dio (Os 6,5). Osea mette subito in guardia dalla dicotomia tra religione e vita, tra sacrificio e amore: «Voglio l’amore e non il sacrificio». Questa denuncia, che si ritrova in tutti i profeti dell’VIII sec (cfr. Is 1,10-17; Mi 6,6-8), è la denuncia di chi tiene veramente alla vita. Esistono due tipi di religione, una ansiosa di portare qualche cosa a Dio, l’altra invece che richiede la dedizione totale di qualcuno.[2] Per Amos la distanza che si è venuta a creare tra culto esteriore e vita non è più sostenibile (Am 5,21-24), il Signore arriva a rifiutare tali pratiche esteriori e richiede l’instaurazione del diritto e della giustizia nella vita quotidiana.

Questa tentazione, di creare una spiritualità trionfalistica e distaccata dalla vita, è propria di tutte le istituzioni religiose. La spiritualità non può più sostenere questa dicotomia, deve riavvicinarsi alla vita. Bisogna riappropriarsi di questi concetti vitali, «bisogna uscire dai criteri puramente ideologici, dai pregiudizi. Questi temi sono terribilmente laici: appartengono ai popoli, a tutte le culture, a tutte le persone e i gruppi umani che ancora cercano e che devono affrontare la vita… Questi non sono solo i temi dei credenti, della fede, ma sono i temi storici dove dall’esperienza di fede, dall’appartenenza ad una comunità credente può nascere una certa interpretazione; però non sono temi di proprietà privata di nessuno in questa storia. Probabilmente proprio in questo consiste la difficoltà, perché quando noi li consideriamo di proprietà privata di alcune ideologie e di alcune esperienze religiose già chiudiamo il discorso. […]

Abbiamo paura: un certo tipo di morale, un certo tipo di dottrina ci hanno marcato e segnato con la paura dicendoci che il mistero non si può toccare. Questo si deve anche ad un’ermeneutica unilaterale, perché la teologia è sempre stata fatta da persone con un ruolo particolare nella comunità credente, la “sacerdotalità” della teologia, che ha bisogno di mediatori, non fa parte della spiritualità».[3] Non fa parte dell’hesed.

Occorre rivendicare spazi di libertà, riprendersi la parola che le gerarchie, i funzionari di Dio, i teologi e i sacerdoti di mestiere hanno reso loro patrimonio privato. Se non riusciremo a prenderci questa libertà, se non riusciamo giorno per giorno a ribadirla con forza, senza farci vincere dal sonno e dalla ripetitività, le cose non potranno mai cambiare.

«Essere capaci di credere che “non deve essere per forza così” è già una straordinaria e alquanto inquietante irruzione della fede nel Dio vivente in mezzo alla fissità e alle impossibilità della fede idolatra… “Non deve essere per forza così”, nonostante l’implacabilità di coloro che affermano di parlare in nome di un immutabile ordine divino, è già cominciare a scoprire un modo di essere umani molto al di là di quello che è possibile capire dall’interno del sistema».[4]

Uscire dal sistema significa rigettare la pratica religiosa esteriore, credere che si possa vivere una fede che sia «semplicemente appoggiarsi alla profondità della vita»[5] – come dice la teologa Antonietta Potente.

Gesù figlio di Abramo.

Questi temi vitali li ritroviamo molte volte nei vangeli, e in due episodi diversi Gesù cita Osea: «misericordia voglio e non sacrifici» (Mt 9,12-13; Mt 12,7). Per Gesù questa citazione profetica è sempre viva e verrà usata in polemica con i farisei, con i ben pensanti, con chi di mestiere fa l’uomo di Dio e tratta le cose di Dio come se non fossero cose del popolo, della gente comune, della vita nella sua quotidianità. Per il profeta Gesù di Nazaret queste parole significano concretamente «accogliere i peccatori, i malati, gli indigeni», oggi aggiungeremmo anche i gay, le donne, gli immigrati, i lavoratori precari, e tanti altri che vivono nei sotterranei della storia e che cercano libertà e vita. Il Nazareno «manifesta la reale universalità dell’offerta della salvezza di cui [egli] è portatore»[6].

Gesù sottolinea due atteggiamenti religiosi, due interpretazioni, che sono in contrasto con la vita. Il primo atteggiamento è legato al culto, e in esso si conclude e si ferma la religione, una funzione che non ha vita, che non porta vita, che riduce tutto all’apparenza di un’appartenenza religiosa puramente formale. Il secondo atteggiamento vede nell’adempimento delle norme morali il fine ultimo della religione, si tratta del legalismo che ingabbia nelle sue regole, nei suoi codici di diritto canonico, nei suoi moralismi, la creatività della fede e la libertà della vita. Quando la religione viene prima della fede, quando la si concepisce in termini di frequentazione della chiesa, di generico rispetto della buona creanza e della morale comune, quando si usa il nome di Dio per giustificare le proprie azioni e le leggi di uno Stato, quando diventa puro adempimento di norme; in tal caso, occorre far risuonare la parola di Gesù: «Andate e imparate cosa significhi: amore voglio e non sacrifici».



[1] J. Limburg, I dodici profeti, Claudiana, Torino 2005, pag. 51.

[2] J. Limburg, op. cit., pag. 52.

[3] A. Potente, Appunti per una spiritualità della liberazione, inedito. Testo della conferenza tenuta al Gruppo comunità “nascente” e al Gruppo biblico di Torino il 21/11/2007.

[4] J. Alison, Fede oltre il risentimento, Transeuropa, Ancona-Massa 2007, pag. 77.

[5] Cfr. A. Potente, La fede, Icone, Roma 2006.

[6] Cfr. G. Gutierrez, Condividere la parola, Queriniana, Brescia 1996, pag. 208.

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