di g.g.
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d'angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.
(Mt 21,33-43)
Questa parabola di Gesù si inserisce in un contesto e in una situazione sociale che doveva essere ben conosciuta dai suoi contemporanei. All’epoca, la zona collinosa della Galilea era proprietà di ricchi latifondisti stranieri che affittavano i loro poderi agli agricoltori del luogo. Il fatto, dunque, appare verosimile. Infatti, secondo le leggi del tempo sull’eredità, un podere, alla morte del proprietario senza eredi, passava nelle mani del primo occupante.
Al centro dell’episodio, ricco di suggestioni veterotestamentarie, c’è il regno di Dio e il rapporto del popolo infedele (i vignaioli) con gli annunciatori e i profeti del regno (i servi e il figlio). Non solo i vignaioli disobbediscono, ma bastonano, uccidono, lapidano gli inviati di Dio e – alla fine – fanno fuori addirittura il messia, avidi di impossessarsi di una vigna (di un regno) che non è loro.
Il castigo di Dio per il popolo infedele, che non è in grado di far fruttare la vigna da cui si aspettava giustizia («si aspettava giustizia ed ecco violenza, si aspettava rettitudine ed ecco oppressione», cfr. Is 5, 1-7), consiste nella caduta in rovina della vigna e nella morte stessa dei profeti e dell’inviato di Dio. Il castigo diventa la sconfitta stessa di Dio, l’invio di un messia che si rivelerà un messia di morte.
La giustizia, il rispetto per il diritto di tutti, soprattutto dei poveri, non trova spazio. Dio non riesce a stabilire la sua volontà a causa dell’infedeltà del suo popolo. L’oppressione dei poveri viene presentata come un omicidio. I vignaioli sono omicidi non solo perché uccidono i servi e il figlio ma perché calpestano il diritto, predano il povero. Sono omicidi perché non sono in grado di far fruttare la giustizia che Dio chiede. Pertanto «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare».
Ad un certo punto Dio stesso viene sconfitto, si trova nell’impotenza. Ma Dio non è in grado di badare alla vigna, di garantire un’amministrazione equa, di inviare servi in grado di essere rispettati e ascoltati dai vignaioli? Dio non può imporre la sua volontà? Davanti a questa parabola, non possono non sorgere queste domande. Esse sono le domande della salvezza, sono le domande che ammutoliscono e angosciano il cuore dell’uomo.
Gesù promette che Dio affiderà il regno ad un popolo che lo farà fruttificare. Probabilmente questo popolo viene identificato dalla comunità del vangelo di Matteo con la chiesa stessa. Un interpretazione che, forse, viene fatta propria anche oggi dalla chiesa e da tutte quelle comunità fatte da coloro che si credono perfetti.
Bisogna purtroppo constatare che resta terribilmente difficile, a tutt’oggi, identificare quel popolo in grado di far fruttificare il regno, di cogliere dalla vigna frutti di giustizia e di rettitudine. Si può forse dire che qualunque servo, profeta o messia inviato da Dio, non può che essere condannato, umiliato, bastonato, ucciso.
I fatti, tutti i giorni ci mostrano questo massacro. L’uccisione degli uomini e delle donne che spargono sulla terra il seme del regno di Dio, che si impegnano e lottano quotidianamente per vivere, per vivere e basta. Vivere è molto più difficile e molto meno banale di quanto si possa pensare. La vita è un parto che si compie ogni giorno nelle piccole cose. Un parto doloroso, come tutti i parti delle donne e della Terra. Vivere non è facile perché ogni giorno incontriamo almeno un vignaiolo omicida che intende rubarci la giustizia di Dio e che ci picchia, ci uccide fuori e dentro, nella mente e nel cuore.
Non è banale perché se sei donna devi conquistarti ogni giorno il rispetto dei “maschi” che pensano di essere il centro e il metro del mondo, della realtà e delle cose. Non è facile perché se sei gay, lesbica, trans, devi avere tutti i giorni il coraggio di essere quello che sei, e non quello che gli altri, i “normali”, pensano che tu debba essere perché la “natura è così e basta”. Non è banale perché se sei rom, immigrato, clandestino; se sei giallo, nero o rosso, tutti i giorni devi avere il coraggio di camminare sotto gli sguardi taglienti e giudicanti dei “bianchi”, della gente per bene. Non è facile perché se sei povero – sia che tu viva nel Nord o nel Sud di questo mondo – devi tutti i giorni combattete per dare da mangiare ai tuoi figli e alle tue figlie.
E allora «speriamo di riuscire ad essere almeno questo miserabile resto di vinti, di soli, di stanchi, di eunuchi, di pazzi, di moribondi», come diceva Sergio Quinzio, perché «se non è bastata la croce di Dio perché irrompesse la consolazione e la gloria, mi sgomenta pensare dove si dovrà scendere. Forse si dovrà arrivare al punto in cui non si potrà avere più neppure la forza di parlare, tanto si sentirà vano tutto, tutti i nostri arzigogoli per argomentare circa la salvezza mai ancora venuta, da millenni» (S. QUINZIO, Dalla gola del leone, Milano 1980, pp. 37, 46).
In tutto questo sta lo scandalo della pietra scartata dai costruttori che è divenuta testata d’angolo.
Io non morirò, anzi vivrò,
e racconterò le opere del Signore.
Certo, il Signore mi ha castigato,
ma non mi ha dato in balìa della morte.
Apritemi le porte della giustizia;
io vi entrerò, e celebrerò il Signore.
Questa è la porta del Signore;
i giusti entreranno per essa.
Ti celebrerò perché mi hai risposto
e sei stato la mia salvezza.
La pietra che i costruttori avevano disprezzata
è divenuta la pietra angolare.
Questa è opera del Signore,
è cosa meravigliosa agli occhi nostri.
Questo è il giorno che il Signore ci ha preparato;
festeggiamo e rallegriamoci in esso.
O Signore, dacci la salvezza!
O Signore, facci prosperare!
(Salmo 118, 17-25)