martedì 14 ottobre 2008

Lezione di congedo di Gianni Vattimo 14/10/2008

Gianni Vattimo, maestro del pensiero debole.

Cosa capita quando un filosofo ma soprattutto un professore come Gianni Vattimo - come egli stesso vuole essere ricordato – si congeda dall’Università di Torino?
Certamente rappresenta una grande perdita. Una perdita culturale, effettiva, didattica – soprattutto per gli studenti. Vattimo ha sempre dedicato tutto se stesso all’insegnamento, ai suoi studenti; è stato un animatore effervescente del clima universitario torinese. Ci mancheranno le sue lezioni, la sua chiarezza, la sua ironia.
Alla sua lezione di congedo, tenutasi nell’aula magna del Rettorato martedì 14 ottobre 2008, una folla di studenti, discepoli, docenti… ha voluto far sentire la sua vicinanza al padre del «pensiero debole» (una forte teoria dell'indebolimento come unica via dell'emancipazione). Ma Vattimo ha subito precisato: «congedo fino ad un certo punto» e ha aggiunto «spero comunque che sia l’ultimo».
Nella sua lezione, «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto», il professore ha ripercorso il lavoro compiuto negli ultimi mesi, analizzando, a partire da Heidegger, come si costruisce la verità.
«Oggi si parla tanto di dialogo - ha detto Vattimo - un concetto in bocca a tutti i potenti, in realtà nessuno fa niente davvero per cercare di dialogare con l'altro, con il nemico. Anche Bush ha detto di aver attaccato l'Iraq perché voleva il dialogo».
Per Vattimo «bisogna rilanciare il conflitto, in luogo di un dialogo-panacea che non serve a nessuno, bisogna avere il coraggio di stare da una parte, sperando che sia quella giusta. Ed io ora, so di stare dalla parte dei poveri e di chi non ha voce».
La riflessione di Vattimo è molto significativa come chiave di lettura della modernità. L’idea che «l’essere come tale abbia – fortunatamente – il destino di dissolversi» sta alla base del pensiero debole (la kenosis), che a detta di Vattimo - ma anche nostra - rappresenta «l’unica filosofia cristiana attualmente sul mercato». E ha aggiunto, non senza un tocco di narcisismo e di ironia: «solo per questo dovrebbero farmi papa».
L’incontro non è stato privo di commozione. Alla fine della lezione è scoppiato un lungo, forte e sentito applauso. (g.g.)



Di seguito pubblichiamo il testo della lezione «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto» (comparsa su La Stampa) e la lettera di saluto al mastro di Alessandro Baricco, dove lo scrittore descrive efficacemente cosa ha voluto dire per lui – mka così è stato per tutti i suoi allievi – avere Vattimo per maestro (da la Repubblica - Torino).


Finché c'è conflitto c'è speranza

L'ultima lezione all'Università di Torino

di Gianni Vattimo

Perché «dal dialogo al conflitto»? Non è forse l’ermeneutica - quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, Gadamer, e prima Heidegger e Nietzsche, ho sempre cercato di ispirarmi - per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa, anche in base all’esperienza di dibattiti americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia «continentale» (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di larga parte della filosofia contemporanea.


Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente «diluita»; io pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno - anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, «stiano» in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente qualificati, sono «eventi».

Alla nozione di evento di Heidegger io aggiungevo - credo sempre in fedeltà al suo insegnamento - una più esplicita filosofia della storia dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto) la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità immutabile di ogni vero ha invece il «destino» di camminare indefinitamente verso il non-esser-più l’essere come tale.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della «dimostrazione», ma piuttosto orientati alla persuasione - la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più.

Ma perché, ancora, dal dialogo al conflitto?

Posso confessare senza difficoltà che sono diventato sensibile a questo problema - che riassumo in questo titolo - per ragioni che non hanno anzitutto a che fare con questioni interne alla teoria, ma che sono invece fin troppo evidentemente legate a quella che con espressione dello Hegel dell’estetica chiamerei, alquanto pomposamente, la «condizione generale del mondo». Della quale prendiamo coscienza a partire dal senso di fastidio che ci suscita sempre più nettamente ogni richiamo al dialogo. Non solo nella recente politica italiana, dove i contendenti litigano rimproverandosi reciprocamente di non voler dialogare, con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese. In verità, se riflettiamo sulle ragioni dell’insofferenza per la retorica del dialogo ci rendiamo conto che stiamo solo esprimendo una rivolta ben più ampia e più filosoficamente rilevante, e cioè la rivolta contro la «neutralizzazione» ideologica che domina ormai ovunque la cultura del primo mondo, l’Occidente industrializzato. Si tratta di quello che spesso è stato chiamato il pensiero unico, il quale si identifica in ultima analisi con ciò che i politici chiamano - quando lo nominano - il Washington consensus, al di fuori del quale non c’è che il terrorismo con tutti i suoi derivati.

Il pensiero unico nel quale siamo immersi ha il merito di averci fatto capire - in molti sensi sulla nostra pelle - che l’oggettivismo metafisico, oggi declinato soprattutto come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata - e più sfuggente - del dominio di classi, gruppi, individui. Neutralizzazione e potere degli esperti di ogni tipo sono la stessa cosa. È l’esperienza che, anche nel piccolo orizzonte della società italiana, facciamo quando vediamo la scomparsa delle differenze tra destra e sinistra. Una scomparsa che del resto è generale, almeno nel mondo occidentale della razionalità capitalistica, per quanto quest’ultima sia sempre più visibilmente irrazionale e manifesti senza alcun pudore la sua essenza puramente predatoria.

Ripeto in breve i passi impliciti in quanto detto fin qui. La verità, se non è rispecchiamento di un ordine eternamente dato di essenze e strutture, è accadimento, e accadimento dialogico. Verità si dà quando ci mettiamo d’accordo. Ma il dialogo sarà davvero sempre così pacifico?

La retorica odierna del dialogo ha molti caratteri per essere sentita come una maschera del dominio - ed è così che la viviamo di fatto nella nostra insofferenza crescente verso di essa.

Heidegger ci ha insegnato che la verità di una proposizione qualunque si prova solo all’interno di un paradigma storico, il quale non è semplicemente l’articolarsi di una struttura eterna (natura dell’uomo, primi principi ecc.) ma accade, nasce, ha un’origine, il cui modello egli vede nella nascita dell’opera d’arte. La quale è un luogo di accadere della verità in quanto (pensiamo a Dante, alla Bibbia, a Shakespeare) è l’apertura di un orizzonte storico, la nascita di un linguaggio e di una nuova visione del mondo. E quel che costituisce la base della forza inaugurale dell’opera d’arte, dice Heidegger, è il fatto che essa mantiene aperto il conflitto tra «mondo» e «terra». Due termini che vanno intesi l’uno, il mondo, come l’orizzonte articolato, il paradigma, che l’opera inaugura e dentro cui ci fa «abitare»; l’altro, la terra, come quella riserva di sempre ulteriori significati che, come dice il termine stesso, sono legati alla vita - della natura e della persona - e che costituiscono sempre un alone oscuro da cui proviene la spinta a progettare, a cambiare, a divenire altro.

Ma la «terrestrità» non si lascia chiudere dentro la stabilità di un dialogo felice, che istituirebbe la verità come nascita armoniosa di un nuovo paradigma.

Non si può cercare di uscire dall’oggettivismo metafisico - apologetico, «realistico» - senza venir coinvolti in un conflitto da cui soltanto può scaturire la verità-evento. La libertà - la progettualità umana in cui soltanto si annuncia l’essere come tale - è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio).

Per questo, cercare di pensare l’essere non vuol dire altro, oggi per noi, che opporsi alla neutralizzazione, prendere partito. Con chi e per cosa non è poi una scelta tanto difficile.

Se l’essere è pensato come progettualità e libertà, si dovrà ovviamente scegliere di stare con quelli che più progettano perché meno hanno: il vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico della verità perché libero di vedere il mondo fuori delle ideologie; ma portatore dell’essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo,classe, è definito dal progetto, cioè autenticamente ex-sistente.

Come si vede, questo discorso è tutt’altro che un congedo - anche se forse qualcuno, viste le conclusioni poco «innocenti», potrebbe essere tentato di salutarlo, finalmente, come tale. C’è ancora un sacco di lavoro, non solo teorico, da fare. Dunque, piuttosto un arrivederci, forse in altre sedi, ma speriamo con la stessa importuna passione progettuale.



Grazie, caro Vattimo sei stato un maestro
di Alessandro Baricco

Caro Vattimo, troppo tardi ho scoperto che oggi salirai in cattedra per l´ultima lezione all´Università. Troppo tardi per smontare tutto e riuscire a venire lì, come mi sarebbe piaciuto fare. Peccato. A conti fatti, non se ne incrociano poi molti, di veri maestri, in una vita, e tu per me lo sei stato, un vero maestro, e in un modo che non ho mai dimenticato.


Secondo me, se hai vent´anni e ti piace lo spettacolo dell´intelligenza, finire in un´aula a sentire un vero filosofo, è il massimo. A me è successo per quattro anni, alle tue lezioni, e da lì ho contratto la convinzione che la filosofia resta l´esercizio più alto, se solo quello che cerchi è l´ordine delle idee, il rigore delle visioni, il virtuosismo dell´intelligenza: è uno sport estremo, da vette ultime, e chi c´è passato sa che non c´è nulla di paragonabile alla vista che c´è da lassù. Tutto il resto è pianura. Colline, ogni tanto.

Mi hai insegnato molte cose, ma adesso mi viene in mente la chiarezza. Tu spiegavi, e noi capivamo, non c´era santo. Io penso di aver capito anche Schelling, spiegato da te (non vorrei esagerare, ma qualcosetta riuscivi a farla capire perfino di Fichte). Eri elegante nella linea delle argomentazioni, e limpido nel nominare le cose. Quando il gioco si faceva duro, non avevi paura di usare degli exempla, e non ti faceva schifo andarli a scovare dovunque.

Credo di aver capito l´etica kantiana quando molto seriamente ci hai fatto presente che alle tre di notte, in una città deserta, davanti a un semaforo rosso, ti fermi solo se sei un fesso: o se sei Kant. Noi ascoltavamo, e intanto, senza accorgercene, capivamo che la chiarezza, nella filosofia, non era lo scopo, ma il punto di partenza, la precondizione senza cui il pensiero non si metteva in moto. Era come mettere i pezzi sulla scacchiera. La partita vera, era il casino che c´era dopo. Si rideva molto, alle tue lezioni, e anche questo era un insegnamento. Beh, molto forse no, ma considerato che il tema era il vivere per la morte di Heidegger o quell´allegrone di Adorno, tu ci infilavi un umorismo che non eravamo sicuri fosse previsto.


Sembravi credere che ogni impennata dell´intelligenza andasse accompagnata dall´antidoto dell´ironia: è una cosa che non mi sono più tolto di dosso. Ancora adesso non riesco a fare lezione senza infilarci qualche battuta e non mi riesce di scrivere un libro che non faccia, anche, ridere. Se era solo un vezzo, un lascito della tua vanità di showman, me ne frego: a me sembrava un modo di stare al mondo, o quanto meno nel mondo del pensiero: aveva l´aria di essere un modo giusto.

In quegli anni lavoravi a fondare il pensiero debole (ossimoro, lo so, lo so). Tu ci credevi, quindi noi ci credevamo. Poi, in tutto il tempo che è passato dopo, mi è successo un sacco di volte di ascoltare o leggere gente che ricordava quell´impresa teorica con sufficienza, o ironia, e perfino con immotivabile rancore. Avevano il tono di quelli che qualcuno gli aveva versato lo champagne sul tappeto. Io non so, non ho più gli strumenti per giudicare: ma vorrei dirti che per molti di noi il pensiero debole, e la pratica dell´ermenutica, sono stati una scuola a cui abbiamo imparato a pensare con violenza flessibile, e ci siamo abituati all´idea che leggere il mondo fosse un modo, forse l´unico, di scriverlo. Questo ci ha resi differenti, in qualche modo, e, credo, immensamente più adatti a ricevere le mutazioni che il pianeta aveva in serbo per noi.

Mi sa che adesso te ne andrai in giro a far lezione ai quattro angoli del mondo, a spiegare Schelling a sudamericani o giapponesi che, come noi, di Schelling non hanno mai capito un tubo. Beati loro, beato te. Mi ricordo che avevi un gesto tutto tuo, quando iniziavi la lezione: parlando, mettevi una mano nella tasca della giacca, e rimestavi un po´ lì dentro, intanto che la spiegazione decollava. Poi c´era un momento in cui tiravi fuori la mano della tasca, e c´era sempre un gettone telefonico, delle monete, cose così: le posavi sulla cattedra, ordinate. Forse era il tuo modo di spiegare anche al più deficiente di noi quello che veramente stavi facendo in quel momento. Stavi mettendo in ordine per noi la paghetta intellettuale che poi ci saremmo spesi nel corso di una vita. Oggi è il giorno giusto per dirti che con quelle monete mi son comprato un sacco di cose, e che erano preziose, e leggere. Perfino il gettone telefonico lo era: prezioso, leggero. E allora stay hard, stay hungry, stay alive, come dice il boss (sarebbe Springsteen: non è mai stato chiaro fin dove arriva la tua cultura musicale.) E ogni fortuna, per te, maestro.


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