sabato 3 marzo 2007

2/Antonietta Potente 7 novembre 2004



Angelicum, (Pontificia Università S. Tommaso dei domenicani in Roma) 7.11.04

Le domande etiche del nostro tempo

Antonietta Potente

Grazie a padre Mongillo. E’ stato il mio maestro di teologia morale. Vi dico sinceramente che ho delle difficoltà di linguaggio, però non mi riferisco alla lingua perché fino a ieri ho parlato in castigliano, perché penso queste cose in castigliano, ma difficoltà semiotiche, di simbologia, di linguaggio simbolico che si usano nei differenti contesti. Forse se avessi parlato prima di andare in Bolivia, avrei avuto meno difficoltà, perché sento che voi siete in sintonia con certi concetti e vi riferite a contesti, che io ho perso di vista oppure stanno in me, ma visti da un’altra prospettiva.
La prima difficoltà è il concetto di giovani. Perché io pensavo che avrei parlato ai giovani. Mi dispiace, ma io pensavo che in una assemblea di giovani ero la più vecchia. E invece mi consolo, perché qui ci siamo tutti. E’ un incontro pluralista, una pluralità di età. Però mi crea un po’ di difficoltà perché non so che cosa volete sapere. Poi se ci sono delle domande; vi dirò quello che ho pensato, e come l’ho pensato.
Anche il concetto di futuro, che si usa molto qui, come il concetto di tempo, di futuro, di passato; poi il concetto di futuro come paura io non riesco a capirlo più perché io so, tutti sappiamo (per la maggioranza della gente nel mondo) che il futuro è importante, perché le cose possono cambiare. Pensano o pensiamo che possiamo cambiare. E’ vero che è un concetto di futuro ambiguo, perché è un concetto che sempre parte da questa fedeltà tremenda in alcuni momenti del presente.
Anche il concetto di passato mi fa un po’ di difficoltà, perché io non credo che il passato fosse tanto comunitario come noi pensiamo. Era patriarcale, era molto gerarchico e noi lo chiamavamo comunitario. Ma il passato occidentale è dualista non è un passato comunitario. Ci sono altri passati, dal punto di vista di altre cosmovisioni , che sono, mi sembra, più comunitari, che forse assumono questo rischio e provano una reazione all’individualismo. Ma da noi qui il passato occidentale è un passato dualista, gerarchico, patriarcale, nel senso che c’è una figura che detta le leggi, i dinamismi di questa comunità.

Dopo questa premessa, cercherò, più che di dare nomi alle domande etiche della vita, di dare alcune idee, alcune luci sul contesto in cui noi alimentiamo la nostra etica. L’etica si vive in un contesto, perciò credo che dobbiamo cominciare a riconciliarci sempre di più con questo contesto. E voi poi continuerete a pensare, a disegnare i vostri contorni d’accordo con il contesto in cui vivete. Sono cosciente che queste riflessioni avranno un limite metodologico per la prospettiva che io ho nel pensare a queste domande etiche.
Vorrei riportare o mantenere tutta la nostra attenzione su un contesto di vita molto vasto. Per questo cercherò di utilizzare una metodologia che evochi quest’ampiezza, questo spazio grande che caratterizza la nostra storia più di altre storie, certamente. Oggi abbiamo l’idea che il mondo è piccolo. E’ finita questa idea centralista del mondo, già da tempo. Per cominciare scelgo alcuni stralci di un testo biblico che ci servirà come punto di riferimento, intorno al quale ci fermeremo per ripensare a questo contesto così grande che noi chiamiamo storia, mondo, cosmo e che appartiene a tutti e a tutte ed è formato da tante persone e anche da tante cose. Si tratta di alcuni suggerimenti che vengono dalla Lettera ai Romani, capitolo 8, soprattutto ai versetti 22-24 e poi salto al versetto 26, anche se dovremmo prendere tutto il testo. Evoco solo questi versetti. Il testo dice così: “sappiamo che tutta la creazione geme soffre fino ad oggi le doglie del parto. Non solo la creazione, anche noi che possediamo le primizie dello Spirito gemiamo interiormente, aspettando il riscatto del corpo. E allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili”.
Questo sarà un punto di riferimento che vorrei che tenessimo in conto in queste riflessioni. La Scrittura ci da questi frammenti di luce, ma precisamente perché il contesto di cui parliamo, di cui parleremo è così grande e i soggetti che lo vivono sono così tanti e diversi che non possiamo solo usare un testo biblico come punto di riferimento.
In effetti non c’è solo la Sapienza biblica che soggiace nei luoghi e nei tempi, ma ci sono anche altre Sapienze molto eloquenti, che evocano gli stessi aneliti etici della vita e del mistero, gli stessi gemiti: la creazione dell’umanità e dello spirito.
Così che vorrei fare riferimento a una tradizione orale e allo stesso tempo simbolica e molto viva che è molto cara ai popoli del Continente Latino Americano.
Mi riferisco alla Wypala, la bandiera dai molti colori dei popoli indigeni, che rappresenta l’arcobaleno (cuichi), alleanza di armonia e di pace ed è il simbolo del rispetto delle differenze culturali.
E’ anche il simbolo delle proprietà dei popoli originari del Continente, di tutte queste persone che - anche se la storia sembra contraria ai loro destini e ai loro desideri - continuano a vivere e a darci l’idea che è possibile un altro mondo. Si tratta, quindi, del simbolo degli sfruttati, dei maltrattati, ma anche di persone un poco inedite che non sono troppo maltrattate economicamente però che non hanno potuto ancora prendere il loro spazio in questa storia. Dico sempre che è il simbolo della diversità. Per queste categorie di persone la wypala è l’espressione del pensiero filosofico, precisamente perché la filosofia non è semplicemente un atto intellettuale, ma piuttosto un atto etico, un amore alla Sapienza, alla Sofia che soggiace nella vita. Questo simbolo si usa negli atti solenni, nelle cerimonie, nelle feste, nelle marce di protesta, negli incontri delle comunità e in tutti gli atti importanti religiosi o sociali.
Perché associare il testo biblico di Romani 8 con questa simbologia dei popoli e di tante categorie sociali e culturali? Questi due casi (testo e simbologia della bandiera con tanti colori) evocano questo spazio-mondo della vita dei popoli, della creazione e di Dio. Tutte le più sottili dinamiche che l’esistenza contiene: vita umana intessuta con la biodiversità della creazione, con la diversità di Dio e dei misteri. Vita storica intrecciata con i più capillari e più segreti avvenimenti del Mistero. Psicologia umana cosciente o incosciente, collettiva o individuale, fede o religiosità coltivata nel segreto e manifestata nei luoghi solenni o comunitari delle religioni. Nel testo biblico di Romani 8 il contesto storico è abitato da un anelito, un desiderio che si intercala come grido, gemito, ricerca e dolore del parto, speranza, attesa, infinito desiderio della creazione e di chi la abita: l’umanità, i popoli, lo Spirito. Noi potremmo dire che forse quello che non capiamo dei giovani (diciamo molte cose sui giovani), ma quello che non capiamo sono i gemiti, così come non capiamo molti gemiti storici, sociali, economici, ecologici della realtà. Anche se diciamo molte cose sull’ecologia, sulla società, sull’economia, ecc.ecc.
Nel secondo caso del simbolo della bandiera di differenti colori, i quali non sono solo gioco festoso di un sogno, ma sono l’espressione della vita, visto che ogni colore significa un aspetto di questa stessa vita e vorrei solo indicare il significato dei colori. Prendendo i colori come il simbolo di uno spazio, uno spazio-mondo. Il simbolo delle energie dei segreti che viviamo come esseri umani (donne, uomini, bambini, anziani, giovani).
- Il rosso rappresenta il pianeta terra e l’espressione della conoscenza, dello sviluppo intellettuale, è la filosofia cosmica.
- L’arancione rappresenta la società e la cultura. E’ la loro espressione di società e di cultura. Ma rappresenta anche la conservazione e la procreazione della specie, considerata come la più grande ricchezza di un popolo. L’arancione è la salute, la medicina, la formazione e l’educazione, la pratica culturale della gioventù dinamica.
- Il giallo rappresenta l’energia e la forza; espressione di principi etici, di leggi collettive e della differenza di genere (donne e uomini): una solidarietà umana.
Il verde rappresenta l’economia e la produzione. E’ il simbolo delle ricchezze naturali: le risorse della superficie e del sottosuolo. Rappresenta il territorio, la produzione agricola, la flora e la fauna. I giacimenti idrici e minerari.
- Il bianco rappresenta il tempo, espressione dello sviluppo e della trasformazione permanente. Scienza e tecnologia; arte; lavoro intellettuale e manuale che genera reciprocità e armonia dentro le strutture della comunità.
- Il blu rappresenta lo spazio cosmico, l’infinito, espressione del sistema stellare dell’Universo e degli effetti naturali che si sentono sulla terra. E l’astronomia e la fisica. L’organizzazione socio-economica, politica e culturale.
- Il violetto, infine, rappresenta la politica e l’ideologia. E’ l’espressione del potere comunitario e armonico, strumento dello Stato. E’la richiesta di una struttura sociale, economica e culturale di un popolo.
Tutti questi colori hanno origine nel raggio solare. Sono una luce.
Forse qui c’è la difficoltà. Io avevo pensato ai colori perché i giovani di tutto il mondo hanno un’attrazione per i colori. Non bisogna andare in Latino-America o in Africa per usare molti colori nel modo di vestire. Ma anche qui c’è un ritorno all’identificarsi con i colori: i colori come simbolo della vita, indicano tutti le nostre più sottili energie di vita, quelle che abbiamo dentro e che cerchiamo di far uscire nonostante l’educazione e la storia.
Vorrei sottolineare come parte importante di questo contesto biblico e culturale (la wypala e Romani 8) questa espressione della vita che emerge come ricerca. Sono tutti i fili più sottili della vita, della storia comunitaria e individuale. Sapienza, sensibilità, politica, economia, salute, ecologia, il mondo umano e cosmico, le risorse naturali, le risorse dei popoli, delle piante e degli animali. In mezzo a questa moltitudine di colori risuona ancora più chiaro il grido biblico della Lettera ai Romani: la creazione geme e soffre sino a oggi nei dolori del parto. Ma i dolori sono dolori del parto. Non stiamo soffrendo inutilmente. Non restiamo inquieti. Inquieti perché non sappiamo cosa fare. Stiamo generando qualcosa di differente, dentro. Il futuro ci fa un po’ paura, perché non sappiamo che cosa stiamo generando. Se stessimo generando sempre le stesse cose, certamente non avremmo paura, però partoriremmo un mostro. Sentiremmo dolore nel generare sempre le stesse cose… Dice il testo biblico del libro del profeta Isaia: sono dolori come quando uno da alla luce vento. Non ha niente a che vedere con un parto di vita.
Noi soffriamo, le nostre generazioni soffrono perché stiamo dando alla luce qualcosa di nuovo. E che facciamo in mezzo a questi dolori del parto, in mezzo a questi colori che toccano tutta la speranza della vita?
Credo che a questo punto dobbiamo contestualizzare meglio il nostro tema delle domande etiche, dell’arcobaleno delle domande etiche che emergono dalla storia, o forse potremmo dire delle nostre inquietudini etiche che si alimentano nella storia. Le nostre, le mie, quelle di ciascuno di noi, si inseriscono in quest’ambito tanto vasto della vita. Questo è il parto, che nel simbolo della bandiera della wypala, rappresentiamo con i più diversi colori. La domanda etica di ciascuno, di ciascuna non può essere l’espressione egocentrica, di chi ricerca la sua perfezione e la sua santità come se fosse un’isola.
La problematica etica in questo momento è aprirci, non è pensare alla nostra perfezione. La sfida etica di tutti i mondi e soprattutto dei nostri mondi più stabili (come può essere il nostro continente europeo) non è solo sapere che cosa devo fare, è se mi posso aprire o no. Se posso spalancare le porte, perché non può essere una ricerca etica in un’isola. Il primo passo di questa danza etica della vita è il risveglio dell’appartenenza comunitaria tra sensibilità umana, ecologica, diversità di genere, culturale, religiosa. Sensibilità politica per la città. Sensibilità ed esigenza degli spiriti umani e degli aneliti ambientali; segreti di armonie quotidiane. Eloquenti gridi profetici della giustizia e della pace. La proposta che io vi faccio e che mi faccio è spostare l’attenzione. Al centro della nostra preoccupazione sta la nostra problematica esistenziale, come donne e uomini storici, ma non come donne e uomini che si pensano figli unici, cioè soggetti egocentrici con rispetto al proprio genere, con rispetto alla propria cultura, alla propria religione e alla propria situazione umana.
L’etica come ricostruzione, come parto degli individui e dei popoli non può mai essere egocentrica. L’etica è una inquietudine comunitaria. Per questo a partire da una prospettiva di fede, la mettiamo sempre in relazione con il Mistero, con Dio.
Quando parliamo di etica, abbiamo un gusto del Mistero, anche quando non nominiamo Dio, o Gesù. Però c’è il Mistero. Sono epifanie di vita, manifestazioni di vita, sono gesti, sono ambienti che possiamo formare.
Mentre questa mattina entravo qui, dove ho studiato tanti anni, e dove alcuni anni ho insegnato, mi tornava alla mente che io sempre ho sognato che l’università tornasse ad essere quello che erano all’inizio, almeno nella nostra tradizione domenicana, cioè luoghi universali dove si scambiano idee differenti, non dove si insegnano solo delle idee perché altri le imparino a memoria. Dove si cambiano le idee differenti e tutti abbiamo delle idee differenti. Abbiamo delle capacità di poter fare una università.
Credo che questa sia la problematica etica di tutte le istituzioni, di noi, giovani e vecchi, come persone: aprirsi.
E’ la problematica etica istituzionale della comunità credente. E’ la problematica etica istituzionale dei centri di studio. Io continuo a insegnare in una università cattolica. Ma questa è la problematica etica. Come possiamo aiutarci uomini, donne, di differenti generazioni, e di differenti culture a aprirci, a restare aperti. La problematica che indicava padre Mongillo è una problematica molto vera. La problematica di Dio. Dio è aperto, tanto aperto che quando non riusciamo a definirlo ci spaventiamo o diciamo che siamo eretici, perché siamo abituati a muoverci dentro una bolla di vetro, sicura, qui capiamo il futuro. L’inquietudine etica è molto più ampia; è come questi gemiti. E’ molto interessante. So che c’è il mio docente di Nuovo Testamento che mi aveva insegnato le Lettere di Paolo. Io non so se interpreto bene, però mi sembra molto interessante questo dei gemiti. Lui usa questo temine per metterci davanti a questo mistero che non è così facile da capire. Io ammiro molto quando incontro delle persone che hanno le soluzioni. Davvero le ammiro perché io non le ho. E non mi scandalizzo di non averle, però mi stupisce. Mi piace sentire che altri hanno delle soluzioni. Ma c’è posto per i gemiti? La vita etica è un gemito molto grande nella storia. La vita etica non è un manuale dove si risponde a delle questioni. Sono gemiti anche quando cerchiamo di sintetizzarli, quando scriviamo, facciamo sintesi, sistematizziamo concetti. E’ come tartagliare qualcosa, perché la profondità è molto grande. Per questo io credo che il problema sia che non si tratta soltanto delle mie domande etiche, ma delle domande etiche di tutti e di tutte, della creazione, delle risorse naturali che chiedono di essere usate in un altro modo, dell’aria, delle cose cadute in questi stretti vicoli dell’economia neoliberista.
Nella logica evangelica, che è la nostra tradizione, questo è molto chiaro. La sintonia tra Gesù e quelle persone, uomini e donne, che esprimono un desiderio etico è molto forte. Queste donne e uomini, contemporanei di Gesù che si mettevano in sintonia con lui, esprimevano un desiderio di vita. Il bisogno di un bicchiere d’acqua, il bisogno di casa, di accoglienza, di vestito, di compagnia, di perdono. Mi riferisco al testo di Matteo 25, 31-46. La relazione tra lui e loro è profondamente intensa è una vera identificazione, sono la stessa cosa. Leggo che lui stesso ripete: se lo avete fatto a loro, lo avete fatto a me. E’ la cosa più bella e anche la cosa che ci rivela questa identificazione storica, non spirituale. Loro rimangono ciò che sono, sono sempre loro; lui non gli toglie nulla o non li sostituisce. Lui semplicemente dice ce si identifica con le loro domande etiche e le loro domande etiche sono profondamente essenziali, non girano intorno a desideri borghesi di sterili abbondanze, di sovrappiù economici e cosmici.
Le loro domande etiche sono essenziali perché se non esiste la vita, questa vita fatta di casa, famiglia, terra, iniziativa, non esiste la possibilità di vivere. Per sempre. Era molto chiara la liturgia di oggi, una liturgia che ci rimanda all’escatologia, alla soteriologia che è la liberazione storica da questo parto storico molto lento, però bello, perché è nostro, di tutti quelli che cercano il bicchier d’acqua, di tutti quelli che cercano di dare il bicchier d’acqua. Se a qualcuno questa prospettiva sembra troppo sociale o troppo umana pensi bene a quello che le prime comunità ci hanno narrato. L’esigenza evangelica non gira attorno alla perfezione di un essere umano isolato, l’esigenza evangelica irrompe come alternativa di vita con altri e altre dentro questa realtà storica.
In altre parole la domanda etica del Vangelo non è la domanda moralista: che cosa devo fare? soprattutto quando è in relazione con l’attesa del premio o la paura del castigo. La domanda etica più bella che attraversa i sentieri della narrazione biblica è molto più profonda e si svolge attorno ad una sete di incontro e di comunione, di casa e famigliarità: Maestro dove vivi? Domandano i primi discepoli e discepole di Gesù. Sei tu o dobbiamo aspettare un altro? Geme Giovanni dalla prigione: Quando ti abbiamo visto e dove ti abbiamo visto. E’ l’inquietudine di chi è circondato da tanta gente. Saranno queste domande: quando? Dove sei tu? Domande condivise con quelle degli altri. Saranno queste domande che ci permetteranno di costruirci e costruire lentamente nelle nostre personalità e ricostruire spazi umani e cosmici più etici e più autentici. L’etica come la grazia è soprattutto condivisione, scambio, scambio di colori, scambio di energie differenti, di impegni, compromessi differenti. Se no, io credo, saremo dei perfetti musei. Il problema, mi sembra, è aprirci. Il problema in negativo è la chiusura; i fondamentalismi nascono da queste chiusure. Io credo che l’Occidente –e mentre parliamo siamo qui in Occidente o in quello che consideriamo l’occidente del mondo- non può più esportare modelli perché continuerebbe a esportare modelli sterili. Quello che deve fare l’Occidente, l’Oriente, il Sud, il Nord è aprirsi e intercambiare. Qui non si tratta di trovare il mago che ha le domande pronte per i giovani, per i vecchi, per le donne, per i bambini, per gli operai, per la creazione.
Qui si tratta di aprirci, di fare università. Cioè di stare insieme per poter capire le differenze. Non stiamo insieme per diventare tutti uguali. Questo sarebbe noioso. Ma stiamo insieme per scambiare le differenze. Io credo che qui c’è molta gente che non è italiana e sarebbe bello se potesse dire quali sono le sue differenze e non che cosa è venuta ad imparare qui. Ma quali sono le sue differenze, i suoi colori etici dentro questa realtà. Questa è una sfida. Io credo molto forte per ciascuno di noi, donne e uomini, come individui (non siamo più figli unici), per le religioni e anche per la nostra religione, per il cristianesimo, per le istituzioni che abitiamo a partire da questa religione cristiana. Aprirci. Restare aperti. Il Mistero è aperto, per cui dobbiamo entrare in questa prospettiva.

Finisco leggendovi un canto: Già arrivano i giorni da amare. Un canto nicaraguense.

La casa che abiti.
Giorni da amare. La terra vegetale flora e animale. Già
arrivano fiumi con acqua senza contaminare
Acqua che bevono coloro che hanno sete come voi.
Già arrivano i boschi, polmoni della grande città.
Selve che profumano nell’oscurità.
Notti di pace che mancavano all’umanità.
Non è naturale che il Pianeta vada tanto male.
Che l’uomo aggredisca l’uomo.
Che l’uomo aggredisca l’animale, il vegetale.
Si ascoltano pappagalli gridando a gran velocità,
bambini giocando con felicità intorno alla loro età.
Già si pensano cose che rallegrano l’umanità.
Aria che ha il profumo di Natale in uguaglianza.
Si aggiungono giorni per amare il mondo che abiti.
Giorni per amare la Terra vegetale, flora e animali.

Domande di: ANNAMARIA, GIORGIO, DONNA CONGOLESE, FRANCESCA, DONNA NAPOLETANA, PADRE MARCO dalla Sicilia, PADRE MONGILLO (non registrate)

ANTONIETTA POTENTE.

L’intervento di Annamaria è una riflessione che ci fa pensare che sempre gli scambi devono essere molteplici e che sempre abbiamo bisogno dei protagonisti (giovani, vecchi, bambini), quando ci incontriamo, questa pluralità, questo pluralismo deve aiutarci a essere presenti e a far essere presenti i soggetti che ci interessano.

La questione di Giorgio. Io credo che le Scritture non sono un modello. Cioè mi spiego: pregare con le Scritture non è un modello; è una tradizione. La tradizione è sempre del cuore per essere vera. Perché altrimenti è una tradizione sterile, sarà solo una normativa per cui io, formata in questa tradizione, certamente vengo provocata dalle Scritture. Non posso fare teologia anche se la faccio in altro contesto, con altri paradigmi culturali, però sempre è il mio cruore, la tradizione.
Il problema qui non è il modello, la metodologia.
Altri pregano senza le scritture. Però il problema è scoprire qual è il cuore delle culture. Non abbiamo tutti lo stesso cuore. Tutti non devono assumere lo stesso cuore. Per cui mi sembra molto importante la questione dell’autenticità.
Qui non si tratta di trovare dei modelli comuni, ma si tratta di essere autentici, per parlare da cuore a cuore.
Per qualcuno saranno le Scritture (Antico e Nuovo Testamento), per altri solo l’Antico Testamento o solo il Nuovo. Altri usano il Corano. Altri useranno altre cose. Altri hanno solo l’ambiente, la vita. Il loro cuore è questa sintonia con la vita.
A me quello che sembra importante è non tradire il cuore, perché la tradizione è il cuore. Quando i grandi maestri della preghiera ci insegnano la preghiera del cuore, ci insegnano a stare dentro, non a strare di fronte a Dio, perché potrebbe diventare un idolo. Non a stare solo di fronte agli altri, ma, dicevo in questi giorni ad un gruppo, ma a stare con la sapienza.
Non solo la sapienza secondo le immagini della Bibbia. Con la sapienza non solo si discute e si dialoga. Noi parliamo molto nel mondo occidentale del dialogo con le culture, il dialogo con le sapienze.
Qui la problematica sapienziale sta nel Libro della Sapienza, nel capitolo otto. La sapienza diventa la tua compagna. Il testo dice: quando tornerò a casa mi metterò a letto con lei, mi appoggerò a lei. La sapienza è una questione di comunicazione dal di dentro e questo atteggiamento sapienziale, io credo che sia l’atteggiamento etico dentro al Mistero e non davanti, dentro alla comunione con le persone. La memoria è la tradizione, le tradizioni sono diverse, i cuori per fortuna sono diversi.
Il problema che condivideva Giannette. Non dobbiamo chiederci, come facciamo a salvare questi poveri giovani?
Come facciamo a salvarci tutti! Questo mi sembra il problema. Io credo davvero che ci sia da spostare l’attenzione. Non c’è qualcuno che sa delle cose in più. C’è qualcuno che sa delle cose diverse. Cominciate a pensare meno alla categoria logica, gerarchica, nel senso piramidale che poi è competitiva.
Incominciamo a pensare dalla categoria della diversità. Non c’è qualcuno qui tra di noi che sa delle cose di più di quelle che so io, di quelle che sapete voi.
C’è qualcuno (lo siamo tutti) che sa delle cose diverse. Come possiamo mettere insieme queste cose diverse?
Mi sembra che ci sia una grande paura, una grande diffidenza, reciproca certamente, degli adulti nei confronti dei giovani, nei confronti dei bambini anche e dei giovani e dei bambini nei confronti degli adulti.
Cresciamo in questi stereotipi. Quasi tutti abbiamo bisogno di una sicurezza. Quindi, io sono sicura di questo modello…e quindi questo modello mi fa da criterio di giudizio di fronte all’altro che può essere giovane o vecchio o bambino.
Io credo che sia necessario spostare questa visione e aiutarci a considerare la diversità; il paradigma oggi molto eloquente, molto vivo è quello della diversità, nel senso come possiamo ascoltarci e non come possiamo salvare questi, gli altri o chi so io.
Perché questo errore (non lo dico perché è una nuova moda. E’ una sapienza molto antica), abbiamo fatto molti errori in questo senso.. Per quanti secoli abbiamo pensato che dovevamo salvare delle persone!
Abbiamo fatto delle stragi, oppure non abbiamo fatto niente, quando non abbiamo fatto delle stragi. Per cui abbiamo perso il gusto di ascoltare e di entrare in questo scambio con la diversità, che, mi sembra, era il gusto più bello che aveva Gesù con i suoi discepoli e le sue discepole.

In merito a quello che diceva Francesca, aprirsi. Io credo che l’istituzione non è un’altra cosa. Credo che l’istituzione siamo noi. Il problema, sono convinta, anche se ci costa molto, che se noi ci apriamo si aprono le istituzioni. Se non si vogliono aprire, io non lo so …, moriranno. Che cosa ci posso fare. Io non posso neanche ammazzare la gente perché non si vuole aprire. Perché farei lo stesso danno. E’ un po’ come il Vangelo di oggi.
Sembra che per qualcuno la mentalità funziona per eliminazioni. Questi mi danno fastidio, allora ammazziamoli: la prima lettura di oggi. L’altro lo stesso: quante donne, quante mogli, chi sarà mia moglie. Anche lì lo volevano eliminare. Per fortuna non si saranno più donne, uomini, mogli, mariti. Mettiamo tutti bene.
Io non credo che il problema sia l’eliminazione. Il problema è l’inclusione. Includere. Come formarci (…oggi non si può dire), come educarci ad includerci dentro questa storia.
L’istituzione non è un mostro, sono persone, per cui dobbiamo aiutarci ad aprirci, aprirci. A trovare il gusto dell’apertura, perché aprirci non è una ricetta, non è un modello. Aprirci è una progressiva espansione della vita. Ci apriamo perché altri entrino. Ci sono le istituzioni, c’è la nostra istituzione ecclesiale che ha dei momenti con grandi nostalgie di chiusura, ma credo che sia paura, è un’altra cosa. Forse nel mondo indigeno lo porteremo dal curandero che gli toglie la paura. C’è un rituale per togliere lo spavento. Per cui se l’istituzione ecclesiale è spaventata la porteremo da un curandero che gli toglierà lo spavento. Forse noi dovremmo curarla tanto dal di dentro con questa grande passione. Io credo che non bisogna discutere sulle paure degli altri. Discutiamo sulle nostre che sono già abbastanza.

L’altro problema. L’autenticità della Chiesa in America latina. Lì c’è di tutto. Perché la Chiesa è universale e, come dirti, gli spiriti universali arrivano dappertutto. Io credo, però, che ci sia qualcosa che ci salva ed è l’autenticità. Non sono tanto le istituzioni e in questo momento nemmeno la teologia. Sono le persone autentiche, soprattutto quelli che qui chiamate i testimoni. C’è una massa di persone tanto grande (sono popoli che stanno crescendo in Africa, in Asia): numericamente ci sono più testimoni, io non mi riferisco ai testimoni come Oscar Romero e altri, mi riferisco a comunità concrete. Mi riferisco a queste moltitudini, come dice l’Apocalisse, che non si possono contare, che vi sfuggono, che continuano a nascere. Questi sono testimoni autentici. Forse una grazia. Io credo che l’apertura, lo scambio (noi qui, voi là) sia uno scambio di grazia, gratuito, di idee più che di modelli.
Io non credo che si debba andare in America Latina per salvarsi, o che ci sia là una Chiesa migliore. No, no. Abbiamo grandi difficoltà e grandi blocchi anche teologicamente. Quello che mi sembra bello è questo sapore dalla grazia e questo sapore viene dalle persone. Penso a questi infiniti testimoni che resistono, io non so come mai, e quindi resistono con il loro calore umano. Le celebrazioni là sono certamente più calde, non perché in quei Paesi fa caldo. Sono più calde perché questi testimoni hanno solo da pensare alla loro vita e quindi l’eucaristia per loro è davvero mangiare. Non è andare lì a fare un rituale o solamente a fare memoria dentro a una grande tradizione. Io credo che l’esempio sia la vita, ritornare a questo contatto con la vita.

L’ultimo aspetto riguarda il passato. Il passato ha tutti colori patriarcali e matriarcali. Dove esiste il patriarcato, esiste anche tutta una tradizione matriarcale. Io insisto sul parto nuovo. Qui non si tratta di imboccare il passato, perché era migliore o peggiore. Si tratta di metterci in questa disposizione. Dobbiamo ricreare delle relazioni di genere. Non so come dite qui, perché è un termine inglese, che abbiamo ritradotto. Però dobbiamo reinventare tutte le relazioni. A me sembra che anche qui il problema non siano l’uomo, la donna, i bambini, gli animali. Il problema sono le nostre relazioni e certamente nella storia ha preso piede, ha occupato spazio, la relazione culturalmente più forte, così come nelle relazioni tra le culture. Ha preso spazio più un cristianesimo occidentale che orientale. Però io credo che sia necessario cercare relazioni nuove. Certamente è un problema urgente. E’ un problema etico e ci chiede di relazionarci in altri modi. E’ un po’ fare università. Io credo che fare università significhi trovare stili di vita nuovi, perché università non è solo un luogo per il dibattito intellettuale. Ci dobbiamo mettere insieme e incominciare a vivere in un altro modo, perché siamo differenti. Mentre ascoltavo questo intervento dalla prospettiva del sud d’Italia, mi veniva in mente il testo di Isaia 11. Il testo della pace messianica, dell’agnello con il lupo, del bambino vicino alla vipere, ecc. ecc. Il testo comincia dicendo: verrà il tempo in cui saranno vicini.
Le relazioni di genere, le relazioni interculturali, interreligiose non cambiano se non siamo vicini, cioè se non incominciamo a vivere nello stesso spazio. Saranno molto difficili, perché rischiano di essere solo dialoghi (dialoghi teorici) interreligiosi, interculturali. Se non cominciamo a vivere nello stesso spazio sarà molto difficile. Sarà solo: questo signore ci parla della sua religione, l’altro della sua e tutto continuerà nello stesso modo. La bellezza di questa post-modernità, che è anche un dramma, è proprio in quello che chiamano nomadismo. Gente che va e che viene (non per turismo, ma per vivere. E qui lo vivete in maniera molto forte, noi lo viviamo a rovescio perché se ne stanno venendo tutti qua). Questo nomadismo ha qualcosa di positivo: ci costringe a stare vicini. Vedrete che ci stuferemo di essere razzisti, di essere fondamentalisti. Altrimenti ci ammazzeremo anche noi. Questo nomadismo ci costringe a stare vicini, come dice il testo d’Isaia: verrà il tempo in cui saranno vicini. Essere vicini significa non solo fare una teologia differente, una teoria differente, ma una università differente. Cioè un nuovo universale differente.

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