lunedì 19 marzo 2007

Frei Betto commenta le accuse fatte a Sobrino

Ombre dell’inquisizione
di Frei Betto


Oggi è un giorno triste per me. Mi duole nel profondo del cuore, nel midollo
della mia fede cristiana. Il Papa Benedetto XVI , alla vigilia del suo primo
viaggio in America Latina, ha fatto un gesto che dà un gusto amaro ai saluti
di benvenuto: ha condannato il teologo gesuita Jon Sobrino, di El Salvador.

Conosco Sobrino da molto tempo. Insieme siamo stati consulenti dei vescovi
latinoamericani a Puebla, nel 1979, in occasione della prima visita di Papa
Giovanni Paolo II nel nostro continente. Abbiamo partecipato insieme a molti
incontri, preoccupati di alimentare la fede delle comunità ecclesiali di
base che, oggi, fanno dell’America Latina la regione con un maggior numero
di cattolici del mondo.

Sobrino è accusato del fatto che nelle sue opere teologiche non dà un’enfasi
sufficiente alla coscienza divina del Gesù storico. Per questo gli è stato
proibito di far lezione di teologia e tutti i suoi scritti futuri dovranno
essere sottoposti ad una previa censura vaticana. Il parere di condanna
della commissione della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Santo
Uffizio) parte, evidentemente , da pregiudizi. La lettura attenta delle
opere di Sobrino rivela che egli non nega mai la divinità di Gesù. La nega
il docetismo, un’eresia già condannata dalla chiesa nei primi secoli
dell’era cristiana, basata sull’idea che Gesù di umano avesse solo
l’apparenza, infatti in tutto il resto era divino. La qual cosa farebbe
dell’incarnazione un inganno e darebbe ali alla fantasia per cui nella
Palestina del I secolo l’uomo Gesù, dotato di onniscienza , potrebbe avere
facilmente previsto l’attuale conflitto fra palestinesi ed ebrei.

I vangeli mostrano chiaramente che Gesù aveva coscienza della sua natura
divina. Al contrario del suoi contemporanei, trattava Javè in maniera molto
intima, affettuosa: Abba, “mio caro papà”, una rara espressione aramea- la
lingua parlata da Gesù - , secondo quello che consta nel testo biblico.
Tuttavia, quegli stessi vangeli dimostrano che Gesù, come tutti noi, ha
sofferto di tentazioni ha avuto paura della morte, ha pianto, ha sentito la
solitudine, ha chiesto al padre se fosse possibile allontanare da lui il
calice di sangue, è stato uguale a noi in tutto, come afferma Paolo nella
lettera ai Filippensi, tranne che nel peccato, infatti amava come solo Dio
ama.

Invece, Roma soffre ancora di un platonismo impregnato di teologia liberale
a partire da Sant’Agostino. Parla della divinità come se essa fosse
contraria all’umanità. Ma la Creazione divina è indicibile. Come dice Paolo:
“in lui (Dio) viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti degli apostoli
17,28).

Dice bene Leonardo Boff riferendosi a Gesù: “Per quanto egli era umano,
poteva solamente essere anche Dio”. La nostra umanità non è la negazione
della divinità, così come non lo era quella di Gesù. La divinità è la
pienezza dell’umanità e questa è l’annuncio di quella. “Siamo della razza
divina”, afferma Paolo agli ateniesi (Atti 17,28).

Roma, che gioca tanto con i simboli, sembra disprezzare l’America Latina
ignorando che Jon Sobrino vive in Salvador, il cui arcivescovo, Oscar A.
Romero, è stato assassinato dalle forze della destra mentre diceva messa
nella cappella di un ospedale nel 1980. Il prossimo 24 marzo si commemorano
i 27 anni del suo martirio. Sobrino vive a San Salvador, nella stessa casa
in cui, nel 1989, quattro sacerdoti gesuiti, oltre alla cuoca e a sua figlia
di 15 anni, sono stati assassinati da uno squadrone della morte.

Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la
ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo?

Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino è la visiona latinoamericana di
un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno,
negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto
nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato,
pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a
tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon
samaritano: “ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a
me” (Matteo 25,40).

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