sabato 3 marzo 2007

4/Antonietta Potente - 6 novembre 2005

6 novembre 2003

La religiosità della vita: una proposta alternativa per abitare la storia
Antonietta POTENTE


Gianni: ‘La religiosità della vita: una proposta alternativa per abitare la storia’: su questa provocazione la sera del 6 novembre 2003 Suor Antonietta Potente ha parlato a Roma, ad un incontro organizzato dal CIPAX, che con questo titolo aveva pubblicato un suo testo nel giugno del 2003. Antonietta Potente è una teologa domenicana che dal 1994 vive in Bolivia, dove insegna teologia, vive in una comunità indigena e partecipa attivamente ai movimenti popolari, all’interno dei quali intravede le nuove vie della vita consacrata.


Intervento di Antonietta Potente


Avere risposte sicure o aiutarci a non abbandonare la ricerca?
Il titolo del libro che si riferisce a una proposta alternativa per abitare la storia è forse un po’ arrogante, nel senso che io credo che non ci sia nessuno in questo momento che abbia una riposta chiara, o possa dire: “Questa è la risposta”. Credo che sia precisamente questo che dobbiamo imparare in questo momento storico: non tanto ad avere delle risposte sicure, ma a non abbandonare la scelta della ricerca.
La tentazione di avere delle risposte sicure è propria delle persone che credono di avere già scoperto tutto, o di tenere tra le mani o nella loro intelligenza la verità. E invece io credo che la proposta evangelica sia precisamente il contrario: non è tenere tra le mani la verità, ma è seguire delle piccole luci che la verità permette di vedere lungo questa camminata storica. Per cui credo che il desiderio di incontrarci per vedere se c’è una proposta di vita alternativa, non sia tanto per avere delle risposte – io oltretutto sono una persona sempre meno adatta per dare delle risposte – ma per aiutarci a non abbandonare la ricerca. Questo mi sembra un problema forte oggi, non solo nei popoli più stabili, con le tradizioni più antiche, come i popoli europei, ma in tutti i popoli, per differenti motivazioni.

Io credo che una delle proposte che non riusciamo a coltivare è precisamente questa del restare in piedi e svegli in questa ricerca. Le grandi ideologie non ricercano più, si sono fermate intorno a loro stesse. Anche le più belle, anche quelle che ci avevano dato grandi speranze. Lo stesso grande sogno evangelico resta per noi come una meta, però non riusciamo a risvegliarci intorno a questo sogno e a dire che ci mette in movimento. La Chiesa in questo momento storico non ci aiuta molto a restare svegli. Tutti cercano di darci più o meno delle sicurezze. L’ideologia che più ricerca queste risposte di false sicurezze è l’ideologia del mercato, ma sappiamo che non ci serve. Per cui quello che vorremmo fare non è tanto dire: “guardate che questa è un tipo di vita alternativa” o “bisogna scegliere tra differenti alternative”, ma piuttosto scambiarci la forza per continuare a cercare: a cercare anche quello che non conosciamo, quello che è sconosciuto. Forse questa è la parte mistica della vita delle persone.

Riscoprire l’unità di vita tra pubblico e privato
Credo che in questo momento storico le situazioni che viviamo abbiano bisogno di riscoprire una profonda unità. Il sogno che traccia questo testo o altre riflessioni che facciamo in altri contesti è precisamente quello di riscoprire una unità di vita tra quello che noi consideriamo pubblico e quello che consideriamo privato: l’idea di costruire la casa. La casa non può essere oggi solamente un luogo privato, la casa è un punto di partenza, di inizio. Il mondo quotidiano deve diventare un mondo di ispirazione per trattare con il mondo pubblico.
Io credo che la grande crisi delle ideologie, di questi grandi pensatori che hanno aperto dei cammini lungo la storia, sia stata determinata precisamente dal dimenticare che non si possono dividere la persona umana e i gruppi sociali in due pezzi, tra pubblico e privato. Le grandi sapienze storiche o religiose, mistiche, lungo la storia sempre ci hanno richiamato all’unità di vita, quella che poi nella vita quotidiana dei cristiani chiamiamo la ‘testimonianza’, cioè dire meno parole e vivere. Questa è la cosa più semplice che possiamo fare. Per cui quando accogliamo delle intuizioni sapienti, riceviamo questa chiamata a tornare a una vita più unitaria, meno dicotomica, meno dualista.
Stiamo soffrendo questo: abbiamo fatto dei grandi programmi sulla giustizia per i nostri popoli, in base alle nostre politiche sociali ed economiche, però il risultato è una giustizia tremendamente anonima. Non ci siamo resi conto che non ha volti concreti, è una giustizia che cerca falsi equilibri, anche se dettata da certe ideologie.
La vita unitaria è una vita profondamente sensibile, dove il corpo parla, l’intelligenza parla, ha il diritto di essere riconosciuta. Per questo dobbiamo pensare una giustizia attenta alla diversità, alla diversità di genere, di cultura, di religione.

Superare le paure
Questo è una ricerca forte, che deve anche superare le nostre paure: non conosciamo un altro tipo di storia. Per questo credo che ci possa aiutare la vita della gente semplice che non ha paura del futuro, anzi lo ricerca.
A me impressiona sempre di più questo nuovo nomadismo che si sta generando nelle nostre società. Noi lo leggiamo come fenomeno negativo, a livello economico, sociale: la gente si muove perché sta cercando la sua sopravvivenza, economicamente, intellettualmente ecc. Io credo che in questo ci sia una sapienza che dobbiamo raccogliere e che questo nuovo nomadismo sia un po’ la chiave di lettura per scoprire come non avere paura del futuro, come cercare questo futuro attraverso nuove situazioni che la lotta per la sopravvivenza, la ricerca di vita, provoca nelle persone.
Il problema è che a noi fanno paura i nomadi, cioè tutto quello che è ricerca, cammino. La precarietà di questa ricerca a noi fa paura, soprattutto fa paura alle grandi ideologie, alle grandi tradizioni che pensavano di sapere già dove incominciare e dove finire.
Riscoprire oggi un senso mistico della vita credo sia diritto di tutti i cittadini, donne e uomini, giovani, credenti e non credenti. Perché il diritto alla mistica non è il diritto ad avere delle visioni strane o ad essere dei privilegiati in questioni di mistero, ma è il diritto ad essere persone che fanno esperienza col proprio corpo del dono della vita. Il diritto alla mistica oggi è il diritto che hanno tutte le donne e tutti gli uomini a vivere in pienezza la vita.

Una mistica per il nostro tempo
Per cui non si tratta di creare nuovi luoghi o nuovi stili di vita. Non credo che dobbiamo perdere tempo nell’inventare o fondare nel mondo della Chiesa nuove chiese - ne abbiamo già abbastanza - o nuove religioni o nuove congregazioni o nuovi gruppi. Si stanno moltiplicano molto i gruppi, non solo nel mondo religioso ma anche nel mondo laico. C’è un po’ questa tendenza perché pensiamo che rinnovare la storia è fondare, essere originali. Io non credo che in questo momento questi fatti storici ci chiedano di essere originali, per cui sempre andiamo in cerca dell’esoterico.
Questa è una malattia che sta prendendo l’Europa e i mondi ricchi: l’esoterico, sempre qualcosa di molto affascinante. Ma la cosa più affascinante è la vita, la vita con le cose reali: sapere quanto costa vivere è un’esperienza mistica delle più intense, delle più reali; è quella che ci permetterà di costruire davvero una casa differente con altre persone, dove non ci scopriamo dei privilegiati, della gente che può permettersi tutto, ma piuttosto - nella grande sapienza della tradizione cristiana - persone che hanno bisogno degli altri e quindi cercano questo contatto.
In questo senso a me sembra che i soggetti più eloquenti in questo momento storico siano le grandi masse di persone che si muovono per cercare la vita, nelle cose più essenziali. A noi fanno tanta paura, ci mettiamo d’accordo per inventare leggi sempre più pesanti nei loro confronti e invece io credo che la grande sfida per donne e uomini amanti della vita è avvicinarsi con questa passione storica a questo nuovo linguaggio di una vita che sì, ha tante contraddizioni, come già ha forti contraddizioni la post-modernità, però mi sembra un tempo profondamente bello per poter imparare a vivere.
Ricercare quindi uno stile politico, spirituale, più mistico, ricercare una mistica nella politica, ricercare una mistica nella vita di fede di una comunità cristiana o nella vita di qualsiasi persona, credente o non credente, io credo sia davvero aprirci al gusto di continuare a cercare e non stancarci in questa ricerca.

Imparare nuovi linguaggi
Dobbiamo imparare anche dei nuovi linguaggi. C’è sempre da imparare. A volte noi pensiamo che già sappiamo parlare, sappiamo scrivere, sappiamo interpretare e poi arrivano momenti nella vita che ci insegnano un’altra lingua. E non mi riferisco alle lingue grammaticali, mi riferisco a questi criteri di vita che ci portano a ripensare tutto, però a riscoprire delle cose che prima non sapevamo. Questa è l’esperienza più bella che dobbiamo accompagnarci a fare. C’è un’immagine molto bella delle beatitudini, dove la sintonia tra Gesù e la folla che stava lì per cercare qualcosa, aveva fame, sete, si dà precisamente perché hanno la stessa sete, cioè la stessa ricerca della giustizia.
Certo, se questo nomadismo storico per noi è solamente una minaccia o è un fenomeno che bisogna contenere e tollerare, questa non è la sapienza delle persone amanti della vita. Bisogna imparare un’altra volta a vivere, a vivere di nuovo in altri modi e non c’è nessuno che ha la ricetta. Nell’ambito ecclesiale purtroppo siamo troppo abituati ad avere delle ricette: tutti, quelli più chiusi, più tradizionalisti e anche quelli che pensano di essere più aperti, di aver scoperto grandi cammini. In questo momento siamo tutti apprendisti. Bisogna imparare un’altra volta a far politica, a ripensare la convivenza umana, a sognare con altra gente che ‘un altro mondo è possibile’, come si diceva a Porto Alegre, a pensare che ci sono altre forme di relazione con il mistero.
Queste cose le dobbiamo di nuovo imparare, non ce le dice nessuno, le possiamo solo imparare tra noi e con tutti.
Prima il parroco della Trasfigurazione, che ci ha accolto in questa sala, diceva che è normale che la vita religiosa sia una vita di profezia, in certi posti del mondo dove ci sono dei forti conflitti. Ma quindici giorni fa in Bolivia i protagonisti non erano i religiosi. Chi è riuscito a mandare via un presidente – dovrebbe insegnarlo a molti, visto che siete malmessi qui in Italia - è il popolo, la gente comune. Neanche i dirigenti politici dell’opposizione. Certamente è stato pagato un prezzo terribilmente alto: solo in un giorno (senza contare tutti i feriti dei giorni precedenti e seguenti) 78 persone hanno dato la vita per mandare via quattro persone.
Però io credo che oggi non possiamo leggere la storia per vedere chi sono i profeti, i protagonisti; la nostra preoccupazione è riconoscere, come la Chiesa diceva un po’ di anni fa (a volte ce ne dimentichiamo ed è bene ricordarlo), questi segni nuovi, dove i protagonisti sono sempre persone che hanno delle seti, dei desideri molto reali. Non sono teorie, sono dei bisogni concreti che ci aiutano a metterci in cammino.

Cercare sempre
E penso che a quelli che credono non resti altro che dire quello che diceva Gesù nel vangelo e che credo dicano tutti i sapienti veri, i ricercatori veri della storia, credenti e non credenti: “Ti benedico perché ci sono altri che capiscono le cose”. Noi dobbiamo solamente unirci a queste ricerche, a queste ricerche concrete di vita, con tanti bisogni concreti di dignità, di poter continuare a vivere, di uscire da situazioni di precarietà; di unirci anche con i desideri molto umili di tutti coloro che sempre nella loro vita cercano.
Io credo che anche il dialogo interreligioso e interculturale, oggi si possa vivere solo intorno alla ricerca e continuare a cercare. Là dove le persone sono troppo sicure di quello che hanno scoperto, credo che ci siano grandi difficoltà. E anche là dove si pensa che la soluzione sia per esempio il mercato, avere o non avere determinate cose, credo che ci siano difficoltà e quindi che dobbiamo incontrarci, ritrovarci per poter pensare bene cosa facciamo con le nostre cose, con quello che già abbiamo, per capire come lo possiamo condividere.
Ci sono tanti segni positivi, tanti segni di vita nella storia. Io credo che questo movimento di ricerca che si sta generando in tutti i paesi del mondo, questo movimento che supera divisioni sociali, divisioni religiose, questo sogno di un altro mondo possibile sia qualcosa di bello che noi dobbiamo coltivare. Se non lo facciamo direttamente, perlomeno alimentare questa sete dentro le persone più giovani che cercano l’iniziativa.
I partiti certamente si sentono un po’ spiazzati, le grandi ideologie si sentono spiazzate da questa irruzione, da questo entrare così forte di un desiderio di incontro che supera la religione, le utopie classiche; di conseguenza incominciamo a dire che le persone sì, si incontrano, ma molto superficialmente, non sanno perché si incontrano. Io credo che la gente abbia voglia di incontrarsi in un altro modo: ha voglia di un’altra politica, ha voglia di un’altra economia, anche se concretamente poi bisogna passare per questa politica, per questa economia - possiamo dire anche per questa Chiesa - per arrivare a un’altra cosa che nessuno conosce ma che stiamo cercando e che, proprio perché nessuno la conosce, la dobbiamo costruire insieme.

Fare casa nella storia
Quindi il discorso della casa sul quale si conclude il libretto sulla religiosità della vita non è tanto che qualcuno ha già la sua casa e ci invita, ma che la casa bisogna costruirla: bisogna rifarla tutta dalle fondamenta. Credo che questa sia la vita delle comunità politiche, sociali, umane. Ma la casa si fa con un altro materiale. Non è più il materiale delle grandi culture, così dicotomiche.
L’altro giorno a Camaldoli mi facevano commentare il capitolo 2 della lettera agli Efesini, dove Paolo dice che “di due popoli ne ha fatto uno, facendo la pace”. A me faceva molta difficoltà commentare questo testo, perché non credo che esistano solo due popoli. E’ ancora una mentalità profondamente riduttiva, quella di pensare che qui stiamo ancora discutendo tra cristiani e non cristiani, tra mussulmani e cristiani ecc. Ci sono molte più energie di vita e molti più sogni in giro in questa storia, per poter ricostruire la casa. C’è un altro materiale: non sono più queste vere e belle tradizioni, questi grandi materiali che sono importanti, che saranno forse una parte di questa costruzione, perché ce ne sono altri e dobbiamo riscoprirli.


DISCUSSIONE

Le prime due domande vertono sul nomadismo, sulla presenza-accoglienza degli immigrati, sulle regole e sul concetto di mistica.

Sr. Antonietta: Io credo che tutti i mondi abbiano bisogno di regole, il problema è vedere quali regole ci diamo. Non so cosa sostenga il cardinal Biffi, perché non ero qui quando ha parlato, ma non credo che possa essere una regola decidere se una cultura è pericolosa o no. La questione della cultura oltretutto è molto complessa, le persone che vengono nel nostro paese non sono rappresentanti culturali, ma persone che vivono situazioni molto concrete. Certamente bisognerà trovare delle regole, capire anche chi le detta, cioè qual è il criterio che ci aiuta a scegliere le regole. E’ una nuova situazione e per questo io non credo - può darsi che mi sbagli, perché non vivendo questa realtà io posso non capirla bene, mentre voi la vivete molto da vicino – che la si possa affrontare con dei preconcetti. E mi sembra di capire che politicamente, e anche a livello ecclesiale, ci sono molti preconcetti. Tutto quello che è straniero ci fa paura.
Io credo che se parliamo del pensiero di un membro della Chiesa, come può essere il cardinal Biffi o altri che si esprimono su queste cose, il criterio non possa essere che quello evangelico e il criterio evangelico non ci permette di fare delle distinzioni tanto sicure sulle culture, ci chiede di ricreare una situazione. Forse questo è un miracolo. Impareremo a far dei miracoli in questa situazione nuova. Quello che io sento è che queste persone che arrivano ci disturbano, anche i più sensibili e impegnati di noi: ci disturbano, perlomeno perché non sappiamo cosa fare, non sappiamo come trattare questa nuova problematica. Quindi, ripeto, non ci sono soluzioni, c’è una metodologia: la metodologia di cercare insieme la ricostruzione di una convivenza in questa nuova situazione.

E’ qui forse che entra il discorso della mistica. Io non entro nello specifico di questo termine, che certamente indica tutta la ricchezza del mistero: qualcosa che io percepisco come presente, però non lo posso intendere tutto. Però questa sera stiamo usando questo termine per ridare significato vero alla ricostruzione di cui parlavo. Io credo che siamo in un momento di rifondazione di relazioni, di nuove strutture che sentiamo che devono essere più di base.
La mistica non è parlare dell’occulto: è parlare del corpo, dei corpi di uomini e donne concreti, e parlare della loro vita, della nostra vita. La vita è un mistero, perché non la possiamo contenere tutta nelle nostre ideologie, nei nostri ragionamenti. Aiutarci o risvegliarci per ritrovare il senso mistico della vita è, a mio avviso, ritrovare la vita quotidiana, le necessità, i bisogni più veri della persona umana, i suoi bisogni affettivi, i suoi bisogni reali di essere una persona che costruisce la sua vita. Questo fa parte del mistero per credenti e non credenti.
Oggi la problematica mistica non è privilegio di pochi illuminati, oggi la problematica mistica è davvero il desiderio di arrivare al fondo delle cose. Non servono più tante parole, tante grandi ideologie che, come dicevo, ci hanno uniformato, ci hanno tolto i nostri volti. Dobbiamo riconoscerci. E questo è un diritto che abbiamo dentro la nostra storia. Tutti vogliamo toccare davvero il punto fondamentale della vita, non perdere più tempo in cose che fanno vivere solo poche persone o addirittura non fanno vivere nessuno.
Certamente dietro il termine ‘mistica’ c’è tutta una tradizione; ma io credo che basterebbe trovare una chiave di lettura, per capire meglio anche la tradizione dei grandi mistici, delle grandi mistiche, che non è la tradizione dell’esoterico, bon è dire: “mi avvicino a queste persone perché mi diranno qualcosa sull’occulto, faranno alcune magie su di me e sulla storia”.
No, abbiamo bisogno, in questo momento, nella politica, nella Chiesa, nelle nostre vite domestiche, di donne e uomini profondamente reali e quotidiani, cioè di persone che hanno familiarità con il corpo, con la problematica del corpo, con le esigenze della persona umana, della sua affettività, superando le dicotomie tra il grande ideale politico e la vita quotidiana. C’è solo una vita, che è mistica ed è anche politica.

Domanda: I segni dei nostri tempi, così come vengono fuori dal discorso di Antonietta, sono segni pesanti da portare: la paura della diversità, del futuro, la fine delle ideologie… sono tutte cose delle quali ci siamo liberati, ma al posto delle quali i segni positivi sembrano pochi. Forse devi tornare tu dalla Bolivia per farci fino in fondo questo discorso sulla nostra povertà. Invece come segno positivo tu portavi il riferimento al bisogno, alla ricerca della vita che tu chiami ‘mistica’. E l’attenzione, l’accoglienza ai migranti al nomadismo. Forse questo dover andare è più interno a noi di quanto pensiamo.
Questa è una situazione che secondo me ci spiazza completamente e che in parte io non riesco nemmeno a vedere come positiva perché è spaesante perché apre su altre situazioni. Non posso fare a meno di pensare che uno straccio di ideologia o un ideale che, come è stato nel passato, trascini tante forze nella storia, oggi non c’è. Terracini diceva: “Noi abbiamo fatto rimettere la coppola in testa ai contadini”, nel senso che prima stavano sempre con la coppola in mano davanti al padrone. Ecco, qualcosa che ci trascini oggi non c’è; dobbiamo prenderne atto, non è che rimpiangiamo le ideologie del passato.
Quello che volevo chiedere ad Antonietta, di fronte a questa situazione che a me sembra abbastanza pesante, era un’ulteriore riflessione su quello che lei chiama ‘amare con tenerezza’. Perché in questa situazione qui in Occidente, che poi si traduce in competitività sul posto di lavoro o in tante altre difficoltà che minano le basi di una convivenza civile, mi sembra che questo ‘amare con tenerezza’ sia una risposta positiva che scalda il cuore, di fronte a questo senso di disastro che viviamo. E mi sembra anche una risposta minima.

Domanda: Hai detto che non è necessario essere protagonisti di qualche cosa, ma che questo è un tempo di costruire relazioni, piuttosto che di creare delle cose nuove. Per me è una cosa importante su cui riflettere e credo che ci passerò del tempo.
Invece una cosa su cui non mi sono sentito completamente in sintonia è il tuo discorso della mistica, perché io personalmente non riesco ad accontentarmi di amare Dio solo nel prossimo, io credo che sia necessario anche amare Dio a tu per tu. Mi pare una cosa molto bella. Se qualche momento della nostra vita sperimentiamo questo ‘lasciarci infiammare’ da un rapporto bilaterale, a tu per tu, tra l’uomo e Dio, penso che sia una cosa che arricchisce molto e che magari poi dà anche la forza, se uno è chiamato a farlo, a lavorare in mezzo agli altri. Ma in teoria è una grande vita anche quella dell’eremita che sta solo in questo fuoco tra Dio e l’immagine di Dio che porta dentro di sé e da cui si sente continuamente provocato e lacerato.

Domanda: Aggiungo a quest’ultima un’altra piccola questione: come riuscire ad amare Dio nella sua assenza, come mettere assieme la presenza di Dio e la sperimentazione quotidiana della sua assenza, per esempio, in una sofferenza senza senso?

Sr. Antonietta: Incomincio col rispondere alla prima riflessione. Io sono consapevole che ci sono vari mondi, per cui ci sono varie prospettive di lettura. In questo momento c’è gente profondamente pessimista e ci sono alcuni invece che hanno ancora un briciolo di speranza. Credo che la speranza però abbia ragion d’essere precisamente perché è molto vicina alle cose reali. Io credo che il pessimismo si dà soprattutto quando non abbiamo cose reali da pensare.
La questione del nomadismo non me la sono inventata io. Ho letto la traduzione di un libro di Toni Negri e di un altro autore inglese il cui titolo è ‘Impero’. Mi è sembrato profondamente lucido nella lettura che fa di questo grande movimento che si crea per colpa dell’Impero, per certe leggi, per certe logiche. Mi sembra un aspetto che dovremmo riprendere e ripensare, perché gli autori parlano anche di una certa possibilità di disobbedienza a questo tipo di sistema. Loro pensano che certo, sarebbe un tipo di movimento da gestire, da organizzare, che deve prendere coscienza di quello che sta vivendo; però a me ha aiutato a ripensare tante cose e a trovare anche qualcosa di positivo - anche se vivere in certi paesi, dove si vede un esodo di massa tutti i giorni, certo dà rabbia, dà sconforto. Però a me sembra anche che dobbiamo aiutarci a rileggere in positivo il fatto che la storia la faranno altre persone.
Io non credo poi che siano cadute le utopie. Sono caduti quelli che pensavano di tenere in piedi le utopie e questa è un’altra faccenda, L’utopia è un po’ la mistica dei popoli.
A proposito dell’amore con tenerezza, della mistica. Non penso neanch’io (forse mi sono spiegata male) che Dio si ama solo attraverso determinate regole o stili di vita. Io credo che la mistica può anche non parlare di Dio. A me sembra bella perché parla della esperienza delle persone. Noi abbiamo fatto della mistica una questione su Dio, invece è un desiderio umano: la mistica è il gusto dell’incontro con qualcuno, con qualcosa, sentire che tocchi il centro di una esperienza. In questo senso è un diritto di tutti e di tutte perché non è solo una questione religiosa. La storia, tutti i fenomeni storici, la creazione, tutta questa problematica ecologica di risorse naturali, ha un diritto al riconoscimento, a essere incontrata, a essere ritrovata nella sua verità. Io come ‘mistica’ percepisco questo.

La domanda su come ritrovare Dio nella sua assenza. Io credo che Dio sia sempre assente, non solo quando soffriamo, sempre. Io non l’ho mai visto e credo che questo faccia nascere di nuovo la voglia di continuare a cercare. Dio è sempre assente, anche quando siamo contenti, perché sono solo gli altri, è la storia, sono le situazioni storiche, quelle che ci portano a incontrare la vita. Per qualcuno poi questo incontro con la vita ha un nome specifico: come credenti lo riconosciamo come il Dio della vita con tutta la teologia dell’incarnazione; per altri ha solo il nome della vita. Però io non credo che la questione mistica sia solo una questione di presenza/assenza, perché - io credo che gli ebrei avevano intuito delle cose belle in questo senso - Dio è Dio, noi siamo noi. E per fortuna che è così, perché credo che l’amore non è che si coltiva solo perché vediamo delle cose, ma anche perché queste cose le inventiamo, le torniamo a ricreare in questa profonda libertà, in questo profondo sogno. Gli unici contatti che abbiamo con Dio sono i contatti con la vita.

Mi viene chiesto di parlare della Bolivia
Io credo che questo sia stato un momento importante. Purtroppo ci sono dei popoli che a questi momenti importanti ci sono abituati, perché tutti gli anni c’è qualcosa di importante.
Le notizie si sanno solo quando ci sono grandi quantità di morti, però ce n’erano state anche prima. Questo signore, Sanchez de Rosada, che se n’è andato a Miami con altri quattro ministri, sua moglie e i nipotini (perché i figli già stavano là), aveva incominciato il suo nuovo governo (perché era già stato presidente) il 6 agosto dell’anno scorso e in questi pochi mesi, cioè dal 6 agosto dell’anno scorso a ottobre quando se n’è andato, il suo governo ha avuto più di cento morti per conflitti sociali. Questa volta non ha messo lo stato di assedio, come aveva fatto nel governo precedente, forse perché pensava di salvare la situazione, però c’è stata una reazione profondamente violenta.
Quando si parla di reazione violenta bisogna pensare come sono questi scontri. Da una parte c’è tutto un sistema di forze armate, di polizia che ha in dotazione strumenti per reprimere i movimenti sociali, dall’altra parte ci sono forze sociali molto quotidiane: non sono nemmeno solo i dirigenti, che in questo momento stavano all’opposizione del governo, ma donne e uomini di quartiere, persone giovani, che hanno cominciato a dire ‘basta’ prima su alcuni punti concreti, sulla questione del lavoro, poi sulla questione del gas, questa risorsa naturale di cui la Bolivia è ricca.
Dato che la Bolivia non ha sbocco sul mare, il governo stava discutendo se il gas doveva uscire dal paese, per essere venduto, passando per il Cile o per il Perù. Però la questione non era solo decidere da che parte doveva uscire - anche se forse era la più conosciuta, perché si cerca di sottolineare questo per far vedere che la gente non capisce niente, che sono così rudi da non capire che l’importante è che si venda il gas. No, il problema è precisamente: perché dobbiamo vendere il gas? Perché dobbiamo vendere tutto? Infatti da un po’ di anni si sta vendendo tutto.
Quindi il problema non è legato solo ad odi politici storici, cioè non far passare il gas per il Cile perché sono nostri nemici, ci hanno rubato il mare ecc., il problema è la questione della vendita. Quello che si sta chiedendo è che questa decisione non sia una decisione solo del governo, ma che si arrivi a un referendum, cosa che in Bolivia non si usa.
Questo si chiede per il gas e si chiede per il famoso accordo di libero commercio, l’ALCA, che è un altro inganno che ci sta piovendo sopra, così come già è piovuto in altre occasioni su altri popoli dell’America Latina. Per cui c’è un’inquietudine di protagonismo reale a livello sociale. Certamente il fatto che il governo aveva una forte opposizione, rappresentata da dirigenti politici che appartengono a differenti zone, da differenti movimenti sociali di base o indigeni, ha reso più facile che il popolo dalla base abbia potuto organizzarsi e resistere. Però non è la prima volta, avevamo già avuto la guerra per l’acqua nella zona di Cochabamba. Questa volta questa lotta è partita da La Paz, che è una città più grande, che ha suoi particolari problemi.
Quello che è importante in questo momento non riguarda solo la Bolivia, ma è quello che sta succedendo in America Latina. La Bolivia è un punto. C’è l’Argentina che in questo momento sta cercando di ricostruirsi, anche se ancora con lo stile dei partiti politici, però con nuovi protagonisti. Non so se avete ascoltato il discorso del presidente argentino all’ONU, assai critico, che ha cercato di provocare il riconoscimento della responsabilità del Fondo Monetario, della Banca Mondiale ecc. Poi c’è questa grande utopia del Brasile con Lula, che è importantissima.
Io credo che, a parte la tristezza di vedere che sempre per mandare via delle persone bisogna versare tanto sangue, c’è questa speranza non tanto di soluzioni (perché credo che nessuno abbia soluzioni), quanto di vedere che ci sono dei protagonisti sempre alternativi, dentro questa storia, a livello latinoamericano o a livello mondiale. Io credo che noi dovremmo cogliere anche questo come segno dei tempi. Anche se tutto è profondamente precario.
Adesso la situazione è che, mentre l’ex presidente scappava con i suoi ministri, contemporaneamente il vice presidente assumeva la presidenza. Questo a livello costituzionale, per cui non abbiamo avuto bisogno di colpi di stato, cose molto frequenti in queste politiche internazionali. Il vicepresidente ha formato rapidamente, in un giorno e mezzo, un nuovo gabinetto presidenziale, formato da gente che non appartiene a partiti politici, così che questa grande partitocrazia corrotta in questo momento è spiazzata, vedevi le facce tristi di questi signori che continuano a mangiare, ma che vedono un po’ il pericolo.
Di questi nuovi ministri due sono indigeni e gli altri sono intellettuali, economisti, sociologi, gente che ha una certa autorità intellettuale e morale, almeno fino ad ora, persone che non sono state coinvolte in fatti di corruzione, che è uno degli aspetti più forti nella politica e nell’economia boliviana e di altri paesi (e anche da voi). Per cui mentre l’ex-presidente scappava si faceva festa.
I movimenti di base e soprattutto il movimento dei minatori e dei contadini, che rappresenta varie fasce indigene, sono molti esigenti in questo momento, per cui danno anche dei tempi stretti: se in poco tempo queste persone non riescono a mostrare che si possono fare dei passi avanti, hanno promesso che ricominceranno a usare la stessa tattica, quella di isolare completamente tutte le province. Credo che avrete saputo di più degli ultimi dieci giorni, però erano già quindici giorni che si viveva in isolamento in alcune province, con la chiusura di alcuni aeroporti. Era interessante perché l’ex presidente non aveva neanche un aereo privato per scappare (non siamo come Fujimori del Perù), per cui è uscito dal paese con l’aereo di linea che alle dieci di sera parte sempre da Santa Cruz de la Sierra per Miami. Lo hanno coperto, nascosto. Prima il Perù alle 4 del pomeriggio ha mandato un elicottero abbastanza grande (noi non abbiamo elicotteri), forse era uno degli elicotteri che ci avevano mandato per il riscatto di alcuni turisti americani dopo una slavina. E lì s’è capito che stava succedendo qualcosa, perché il vicepresidente non s’è più presentato, non ha fatto nessun discorso alla nazione e con lui è scappato anche il ministro degli interni, una figura molto ambigua e profondamente violenta.
Una delle cose che si chiede a questo nuovo governo è che faccia rientrare queste persone per iniziare un processo, perché l’ex-presidente non ha solo 68 morti sulla coscienza, ne ha molti di più. E poi oltretutto la menzogna. Nel suo governo precedente aveva già venduto gran parte del paese, soprattutto delle miniere di cui lui è uno dei grandi azionisti, e adesso cercava di vendere anche questa nuova ricchezza che è il gas. Bisogna anche essere realisti: l’economia è quella che è, non c’è nessun popolo che possa gestirsi da solo - anche quando sono molto ricchi, come per esempio il Brasile - per cui dobbiamo essere realisti nell’aspettare che tipo di reazioni internazionali si possono avere intorno a questa nuova situazione.

Domanda: Alcuni temi che Antonietta ha affrontato credo che siano molto difficili da recepire da parte della cultura dell’Occidente e quindi vorrei che ci dicesse come possono diventare attività di ricerca.
Primo. Antonietta ha detto una cosa forte, ma che è una realtà: non saremo noi fare la storia, saranno altri popoli, altre realtà, altre culture. Questo è un dato di fatto, basta renderci conto di quanti sono gli abitanti del mondo, di come è fatto il mondo e basta rendersi conto del ruolo sempre minimo che l’Occidente ha avuto, pur avendo la totalità del dominio. E su questo tema, che è molto forte non riusciamo a togliere quelli che Antonietta giustamente ha chiamato ‘pregiudizi’, perché i nostri manuali di scuola, i nostri manuali di università, le nostre mostre, i nostri musei ecc. sono fatti in un certo modo, sono fatti per portare avanti l’idea che al di fuori dell’Occidente non esiste niente altro. E quindi siamo pronti ad accettare gli altri, anche tutti questi popoli nomadi, soltanto se accettano la nostra cultura.
Il secondo tema, che è stato molte volte toccato, riguarda il presente. Ha detto Antonietta che la nostra cultura d’Occidente guarda al passato, guarda al futuro, ma non ha presente… Anche in San Paolo c’è il kairòs, il ‘tempo opportuno’, ma il presente non c‘è. Questo è un altro tema forte, determinante, perché la nostra cultura possa in qualche modo affrontare la tematica del confronto con le diversità.

Sr. Antonietta: E’ un’affermazione, quella che ci viene proposta, soprattutto questa attenzione al presente. L’attenzione al presente credo sia una questione etica della responsabilità, dell’autenticità. Solo il presente ci può rendere autentici e solo il presente ha la capacità di legare. Questa è una sapienza di molte culture, anche un po’ di quella biblica con la quale siamo più familiarizzati. Solo il presente ha la possibilità di legare la vera tradizione, cioè quello che ci ha accompagnato fino ad oggi e che serve per vivere, con quello che sarà la ricostruzione del futuro.
Si ritorna a quello che dicevamo della mistica. Io credo che precisamente il presente ci permette di dare dei nomi concreti alle persone, alle situazioni, che per i credenti sono i veri nomi di Dio. Una politica mistica è una politica che tiene in conto questa esperienza presente, dove io non incontro delle masse che hanno bisogno di assistenza - la tentazione della Chiesa - incontro delle donne, degli uomini, con una loro cultura, le loro rabbie, le loro scoperte, i loro sogni. Sogni forse troppo piccoli, perché hanno il sogno di poter mangiare e poter lavorare per vivere un po’ di più o per mandare un po’ di soldi alle loro famiglie, però sono sogni reali. Questi sono i nomi di Dio oggi. Non c’è neanche da cercare il dialogo interreligioso, interculturale, intorno a dei libri, c’è da dialogare con delle persone concrete. Questo farà vivere i valori veri delle culture e le sapienze delle religioni, cioè le persone concrete con i loro nomi, con le loro ricerche, con le loro semplici interpretazioni. Più che incontrarci intorno a questi grandi testi che cercano di uniformare delle culture, bisogna recuperare questa vicinanza, questa familiarità con il presente, questa realtà concreta che ha dei nomi, ha un linguaggio e che è l’unica manifestazione che abbiamo di un possibile futuro. Quindi credo che sia importantissimo incontrarci ancora una volta intorno a queste cose.

Una questione che forse non abbiamo trattato. Io credo che i credenti in questo momento devono guardare un po’ la loro Chiesa. Invece di predicare tanto e fare i profeti nei cortili degli altri, facciamolo nella nostra Chiesa, che ne ha un bisogno immenso. E essere profeti oggi non è denunciare Berlusconi, perché è facile: quello che dobbiamo denunciare è che ci stiamo abituando ad una Chiesa inautentica, profondamente attaccata a delle strutture, con una facciata molto importante, forte, però inautentica. Per cui credo che per i credenti oggi è un momento importante di dire le cose come stanno e di cercare nel presente questa autenticità. Il Concilio Vaticano II ha chiuso e ha aperto un’epoca, però sono passati più di 40 anni, per cui dobbiamo rivedere il senso della nostra fede oggi in queste comunità che si stanno nascondendo dietro cose che non servono e che poi finiranno per parlare da sole.

Antonietta risponde poi ad una domanda relativa alle modalità di accoglienza di questi nomadismi in mezzo a noi.

Sr. Antonietta: E’ un fenomeno che non nasce oggi, ce lo dovevamo aspettare. Noi arriviamo sempre in ritardo, anche se abbiamo dei criteri scientifici di calcolo.
Io credo comunque che ci sia anche qualcosa di più. Anch’io prima pensavo che l’Occidente dovesse chiedersi con urgenza di pensare come frenare, come fare che questa gente non abbandoni le sue culture, la sua terra. Ma il fenomeno si sta manifestando sempre di più, anche popoli che non conoscevano molti esodi adesso li conoscono. Allora adesso mi domando se forse non solo dobbiamo pensare come non fare uscire queste persone, ma come davvero trovare in questo fenomeno il punto di rinascita. Questo fenomeno accade e credo che continuerà ad accadere con sempre più urgenza e forza, non solo in America. Nessuno giustamente sa quanti e come, però c’è un dato di fatto. Questo dato di fatto è che dobbiamo incominciare a pensare insieme. Perché sempre, anche quando abbiamo pensato di creare delle soluzioni alternative per non far uscire i popoli dalle loro terre, le abbiamo pensate noi. Invece adesso qui siamo obbligati a pensarle insieme, non solo quelli che stanno da altre parti del mondo, ma qui.
Io credo che questa è la novità e questo è anche quello che ci costa di più. Perché stavolta noi non siamo davvero più i protagonisti, non solo numericamente – voi pensate a livello di religione: prima pensavamo di essere figli unici, adesso non lo siamo più. Però oggi c’è questa nuova urgenza, che non è solo pensare dei modelli di sviluppo per fermare questo esodo, ma pensare con questo esodo in atto nuovi modelli di vita, non solo di sviluppo. Perché bisognerà poi chiederci se questo sviluppo è tanto sviluppante o no.
Io credo che questa sia la sfida più grande. Non abbiamo ancora delle risposte, solo possiamo intravedere la possibilità di incominciare a parlare un’altra lingua, di avere un’altra logica nelle relazioni con la diversità, che non ci chiede solo assistenza.

Cesare Frassineti, in un appassionato intervento che riassumiamo per brevità, fa presente che ci non è vero che non ci siano soluzioni, perché ci sono già persone e movimenti che cercano di dimostrare che un mondo diverso è possibile.

Sr. Antonietta: Però, Cesare, queste non sono le nostre soluzioni. Cioè quando io dico che non ci sono soluzioni non penso al movimento di Porto Alegre o ad altri movimenti, penso alle nostre soluzioni classiche, quelle che sono state le nostre bandiere per tanti anni, sia politiche che religiose. E non sono tanto passate, altrimenti non saremmo tutti depressi. Voglio dire precisamente questo: non sono sempre le stesse soluzioni, hanno un nuovo linguaggio. I nuovi movimenti hanno un altro linguaggio che ci dà un po’ fastidio, lo dobbiamo imparare. Tu sei uno che da tanti anni cerca di imparare questo linguaggio, però non credere che tutti quelli della tua età l’abbiano imparato e così quelli della mia età o altre persone più giovani. La Chiesa ha delle grandi difficoltà. Sempre le ha avute e in tutte le epoche storiche per imparare dei linguaggi nuovi. Per fortuna sempre ci sono stati dei figli e delle figlie della Chiesa che hanno cominciato a mettersi lì a imparare questi nuovi linguaggi, però non mi dire che le istituzioni sono così aperte. Anzi, precisamente qui in Italia c’è una grande diffidenza davanti a questi nuovi linguaggi dei movimenti che sfuggono alle comprensioni politiche utopiche dei vecchi partiti.

Una suora comboniana interviene per far presente come questa ricerca porti spesso a scontri con l’autorità e pone il problema del rapporto tra la profezia e la comunione.

Sr. Antonietta: Se uno non vuole rompere la comunione non la rompe. Se la rompono gli altri, fatti loro. Io credo che ci siano delle ricerche, dei disordini nonviolenti, per cui dobbiamo educarci a vivere senza violenza. Nelle istituzioni religiose, nelle istituzioni politiche. Io credo che noi che sogniamo un mondo differente non sogniamo un mondo rotto o dei piccoli mondi. A volte purtroppo nella storia sono successi questi fatti, che per riformare il mondo grande si devono creare dei piccoli satelliti. Io credo che in questo momento - per questo dicevo che qui non si tratta di fare i fondatori, le fondatrici, non c‘è bisogno di questo - c’è bisogno di gente che non molta pazienza continua a costruire delle relazioni nuove e nonviolente in questo ambito.
Può darsi che l’altra parte ti dica che non hanno bisogno di te. Però il punto di partenza per noi dentro la Chiesa - qui ci sono molte persone religiose che dentro la Chiesa rappresentano anche un certo tipo di storia, di istituzione – è che non dobbiamo muoverci preoccupandoci di cosa avverrà dopo, se si rompe qualcosa. Noi non vogliamo rompere niente, dobbiamo educarci a non rompere niente, ad essere persone profondamente pazienti.
E’ una crescita importante, altrimenti ricadiamo sempre nella stessa schizofrenia, nello stesso dualismo: quello che consideriamo personale e quello che consideriamo istituzionale. Se io cresco con l’idea che il bene comune non è contrario al bene dell’individuo, vedrete che io non vado ad ammazzare nessuno e nemmeno mi metto a fare polemica. Poi se gli altri ti provocano alla polemica o alla divisione, dobbiamo imparare una metodologia: noi non dobbiamo accettare nessun tipo di divisione, perché sennò sarebbe vano continuare a parlare dei poveri e degli stranieri.
Quello che dobbiamo fare è essere persone profondamente autentiche. Per essere autentici c’è bisogno di poche cose. Questo era un po’ l’esempio della prima parte del libretto su queste grandi tradizioni, che non erano perfette, però ci hanno insegnato, ci hanno messo dentro la nostalgia di essere persone che per vivere hanno bisogno di poche cose. E invece ci risvegliamo oggi con tanti bisogni, per essere istituzione, per essere in un certo modo, perché ci riconoscano, per mantenere le nostre appartenenze… tutte cose molto belle, che sono semplicemente dei punti di inizio. Anche le grandi tradizioni della nostre famiglie religiose sono dei punti di inizio per allargare lo sguardo, la capacità. Però sì, dobbiamo educarci ad essere delle persone profondamente nonviolente.
Il problema poi non è la comunione con l’autorità, il problema è la comunione con tutti. Perché oltretutto noi abbiamo la nostalgia di una comunione dell’ecclesìa, come si diceva nelle prime comunità cristiane, dove il problema non è solo che esistono delle autorità, esiste la comunità. Per cui il problema è come ci aiutiamo a coltivare questi desideri di comunità. Non solo devo stare attenta a non offendere quello che rappresenta la comunità, io devo stare attenta a non offendere nessuno, nel senso più bello, più caldo del termine, cioè a tenere in conto che stiamo ricostruendo qualcosa di nuovo.
Per cui per me in questo momento storico non è un problema restare uniti. E’ necessario restare uniti e devo tenere in conto che ci sono varie presenze e che tutte hanno bisogno dello stesso rispetto, hanno la stessa autorità. La parola non ce l’ha solo l’autorità, questo è anti-evangelico: la parola ce l’ha la comunità. Per cui noi dobbiamo aiutarci ad essere delle persone nonviolente.
E le persone nonviolente sono persone comunitarie. A volte ci dimentichiamo, diventiamo un po’ violenti, ci sono a volte delle questioni che ci fanno indignare profondamente, ma poi recuperiamo. Anche queste sono invenzioni di stile nuovo. Noi sempre ci muoviamo con questa grande paura dei modelli precedenti, perché abbiamo degli esempi storici: sì, questa persona era molto profetica, però poi cos’è successo? Le divisioni, queste riforme laceranti, ecc. Anche su questo punto, come dicevamo per la politica, per il rapporto con gli immigrati, perché non cerchiamo di partire da zero e inventare un nuovo modo di essere profetici? Credo che le donne in questo ci possano insegnare. Noi abbiamo dei modelli profetici tremendamente maschili, per non dire maschilisti. Bisogna dare fiducia a delle alternative, come diceva Cesare, a questa positività, riconoscendo che c’è qualcosa che si sta creando. Io credo che la vita religiosa questo lo deve imparare, deve lasciare tutte le sue paure ed essere profondamente autentica. E lì scopriamo che in questa autenticità si può vivere con poche cose, anche ideologicamente.

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