2 novembre 2003 - Camaldoli - Seminario sulla Pacem in Terris
Antonietta Potente
Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da coloro che si dicono circoncisi (perché tali sono nella carne per mano di uomo) eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece in Cristo Gesù voi che un tempo eravate i lontani siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, Colui che ha fatto una unità che nasce dai due, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando per mezzo della sua carne la legge fatta di prescrizioni e decreti, per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio.
Di questo testo vorrei solamente sottolineare tre punti, per aiutarci ad allargare lo sguardo e a sorpassare i dualismi che fanno parte della nostra vita, che fanno parte della vita dei popoli, delle culture e anche di queste pagine.
Io non faccio una lettura esegetica. Dietro questi versetti c’è un contesto pieno di desiderio perché la realtà è ancora profondamente dualista. Noi viviamo un’ansia, non solo spiritualmente, ma anche nelle nostre vite politiche, di impegno sociale, di relazione col mistero: abbiamo sempre la preoccupazione di sapere chi siamo, per metterci di fronte a qualcuno. Due popoli, due culture: sempre questo dualismo, questa dualità.
I tre punti che vorrei riscattare sono precisamente questi:
- La prima parte del testo, la lettura storica: voi eravate lontani da questa appartenenza, da questa cittadinanza.
- Poi la parte centrale: per Cristo, o attraverso di Lui, cambia la situazione.
- E infine il terzo aspetto, che mi sembra profondamente bello, ma che dovremo ampliare: aver fatto dei due un popolo solo. Credo che questo sia il desiderio che ci accompagna: superare i dualismi della nostra vita, spirituali e storici, che ci mettono di fronte a una storia che ormai non è formata da due popoli, ma da molti popoli. Il testo ci mette di fronte alla situazione della diversità, del pluralismo, delle molteplici ritraduzioni della vita, del pensiero, delle ricerche, dei desideri di tanti uomini e di tante donne: non siamo più solo due popoli, non sono più semplicemente due culture, siamo tanti in questa storia. Questa è oggi la sfida più grande per tutte noi, per tutti noi: riconoscere che siamo tanti.
Primo punto.
Eravate lontani, eravamo lontani da questa familiarità, da questa cittadinanza. E’ già un pensiero premeditato: noi pensiamo che ci siano delle persone che stanno ‘lontane da’. Dovremmo aiutarci a capire che c’è solo una lontananza: è la non pace, è la non familiarità tra noi, tra culture differenti, tra popoli differenti. Non è la lontananza nel senso che voi eravate cattivi, noi eravamo buoni, ma è la lontananza della non pace: fino a quando non c‘è la pace, fino a quando non ci sono situazioni di vita nuova, siamo sempre lontani, tutti siamo lontani..
Nel libro della Sapienza si dice che la sapienza grida nelle strade e nelle piazze per farci risvegliare. Ecco, credo che questi primi versetti dovremmo interpretarli come un grido della parola di Dio che ci fa risvegliare non al dualismo, ma a un sogno comune di una vita differente: vivere in pace. Non siamo cittadini: siamo oppressori o siamo oppressi, non siamo persone che costruiscono la città dove imparare ad abitare.
Quindi non è in questione decidere chi sono i più vicini e chi i più lontani; non c’è ancora la pace, siamo ancora lontani. Questa è una chiave di lettura, una luce, per illuminare il cammino verso la pace.
Secondo punto.
L’autore della lettera agli Efesini dice che questo cammino per la pace si intravede a partire da Cristo. La familiarità con la vita di Cristo ci dovrebbe portare alla pace. Dico: ci dovrebbe, perché non siamo così familiari col mistero come pensiamo. Siamo familiari con la religione, con le nostre ideologie religiose, con i nostri stili, con i nostri modi di vivere la religione, ma non con il mistero.
Qui il mistero è un corpo, è il sangue: siamo stati riscattati da questo corpo, da questo sangue. Non è la proposta dell’evangelizzatore che dice: dobbiamo credere in Cristo per essere tutti salvati, se non passiamo di lì non possiamo salvarci. Sembra una proposta molto più profonda e molto più bella. Cristo qui si presenta come una storia differente, un corpo differente, come chi ci aiuta a far memoria della possibilità di una storia differente. E’ quello che dice il salmo: “Guardate a lui e sarete raggianti, luminosi”. Non è il Cristo che viene a spiazzare i signori della storia per mettersi al loro posto, è la vita di Cristo, il corpo, il sangue: questa simbologia a me sembra profondamente bella, una simbologia sottile e umana: il corpo e il sangue sono i simboli della vita, della vita più quotidiana, più semplice, più reale, affettiva, psicologica, razionale, sociale. A partire da qui possiamo intraprendere il cammino della pace.
Terzo punto.
Ha fatto dei due un popolo solo. Leggendo questi versetti a partire dai nostri contesti storici, comprendiamo che essi ci chiedono di ampliare l’orizzonte, di uscire dai ghetti dei nostri popoli, della nostra mentalità, delle nostre piccole o grandi appartenenze.
Io credo che sia importante, appartenere. Venendo a Camaldoli per questa bella strada tra gli alberi, pensavo che per meditare questi versetti dovremmo uscir fuori e guardare gli alberi e sentire che è lì che c’è un desiderio di pace. La pace non c’è, ma c’è un forte desiderio. Tutta la natura, le persone, la nostra vita, le nostre cellule cercano sempre di vivere. Adesso ci sono le foglie gialle con i colori autunnali e poi di nuovo verrà la forza, la voglia di vivere di nuovo. Tutti i tempi della natura e della nostra vita sono importanti e belli. Entrare nella dimensione di appartenere alla vita è la cosa più importante.
Poi ci sono le piccole appartenenze - o grandi, se per noi sono grandi – come l’appartenenza alle nostre tradizioni, come la tradizione camaldolese di questo luogo molto bello e molto importante per tante persone, non solo per quelle che ci vivono, ma per quelle che lo prendono come punto di riferimento.
Però le appartenenze sono importanti se sono dei punti di inizio. Perché altrimenti Paolo o i primi cristiani, i giudei convertiti, si sarebbero fermati lì. Tanta gente si ferma, anche se appartiene a belle tradizioni: pensate ai carismi di molti grandi ordini religiosi, carismi universali, che poi si fissano, se si fa dell’appartenenza un punto di arrivo.
A nessun popolo e a nessuna persona si richiede di rinnegare le sue radici, di non riconoscere da dove viene o chi l’ha fatta crescere, però sì, a tutti noi, per alimentare il sogno della pace viene chiesto di fare delle nostre appartenenze dei punti di inizio, non dei punti di arrivo. Altrimenti continueremo a parlare di due popoli, di due culture, nel dualismo che ha segnato il cristianesimo e la filosofia, facendo tanti danni.
Questi versetti sono molto aperti, perché si dice che Cristo è venuto a fare dei lontani vicini. Si riferiscono a un mondo ampio, non solo alle culture di altri popoli, ma anche alla cultura postmoderna, nella quale, piaccia o meno, gli spazi si sono allargati. La Chiesa ha paura della cultura postmoderna, e preferisce ad esempio parlare dell’inculturazione. Noi pensiamo di star facendo un cammino molto avanzato, anche nella teologia, ma non è così per la postmodernità.
Questi versetti sono un aiuto per continuare a sognare con gli occhi aperti, sapendo che è per questo cammino che dobbiamo continuare.
Dobbiamo anche aiutarci a vedere che fare un popolo solo non significa volere l’uniformità; fare un popolo solo significa creare l’ambiente della pace, con una lenta ricostruzione, mantenendo sempre le dimensioni profondamente umane, che si riferiscono a Cristo, al sangue di Cristo, al suo corpo. Queste sono anche le dimensioni della vita dei cristi, non solo di Cristo, per usare una terminologia cateriniana. I cristi sono le persone che danno il loro sangue. Noi sappiamo però che il sangue è un prezzo troppo alto. Basta!
Quindici giorni fa, per mandare via dalla Bolivia un governo falso, l’ex-presidente, quattro ministri, la moglie del presidente e i nipotini, sono morte cento persone e ci sono stati feriti, mutilati, gente che per sempre sarà segnata. Quasi tutti gli anni in Bolivia, ma anche in altri paesi latinoamericani e in altri continenti per cambiare situazioni bisogna versare del sangue. Nessuno oggi vuol essere martire. Come possiamo continuare a pensare la storia sacrificando gente? Oggi dobbiamo cambiare la teologia del sacrificio, è una teologia troppo sacerdotale nel senso negativo del termine, che fa riferimento al bisogno di offrire sempre qualcosa, altrimenti si perdono persone.
Come aiutarci a vedere che questo sangue, questo corpo, si possono dare in un altro modo? Queste sono le sfide del mondo occidentale, dei movimenti pacifisti o dei gruppi di base: come il nostro corpo può difendere il sogno della pace senza dare il sangue.
Qui si propone Cristo e il mistero, ma Cristo è oggi l’annuncio della vita, della vita umana. Credo che uno dei punti più belli della Pacem in Terris fosse quando Giovanni XXIII ci indicava i segni dei tempi. Sono categorie che ancora adesso ci fanno discutere, che ancora adesso provocano una forte riflessione per cambiare la vita: i popoli, le donne, quello che era il movimento operaio. Tutta la storia quotidiana di gente che deve lavorare per vivere, che non ha tempo da perdere, che deve lavorare anche tanto per poter appena vivere.
L’invito di questi versetti e di tutta la meditazione che state portando avanti in questi giorni è precisamente quello di ritornare a guardare la nostra storia per riscoprirci in molti: non siamo due, siamo tanti e dobbiamo imparare a vivere, perché siamo tanti.
Risposta alle domande
Io credo che la questione del centro, della piramide, della gerarchia sia rappresentato dai nostri monologhi. Io sento che portiamo avanti dei monologhi: li portano avanti la Chiesa, gli uomini. Dove stanno le donne? Nella Pacem in Terris uno dei segni dei tempi erano i movimenti: erano uno scandalo in quel momento quei movimenti femministi. Erano le donne. Adesso io rivendico questo spazio non come donna, ma come segno della necessità di riscoprire sempre delle alternative: le donne sono alternative. E invece abbiamo una politica profondamente maschile, per non dire maschilista. Abbiamo una Chiesa profondamente maschile, per non dire maschilista, formiamo la società sempre con questi parametri unidirezionali di quello che già conosciamo.
Chi ha paura? Ce l’abbiamo noi: ce l’ha la Chiesa, ce l’ha la democrazia, un certo tipo di democrazia. Ma i poveri, questi nuovi nomadi, tutta questa gente che si sposta da un paese all’altro non ha paura; se avessero paura non si sposterebbero, non rischierebbero quello che stanno rischiando.
Io so che dovrebbero rimanere nei loro paesi, nelle loro culture, ma questi sono gli ideali delle persone che leggono i libri: se voi foste in quei paesi, vi spostereste anche voi, dopo 5 minuti.
Salvare le culture, salvare la nostra, i nostri grandi ideali democratici: ma quale democrazia? Voi vivete in democrazia per quel che riguarda la salute e gli ospedali? E’ stato citato il sistema dell’informazione, dei mezzi di comunicazione, ma anche questi sistemi così necessari, di cui abbiamo bisogno quotidianamente, non mi sembrano tanto democratici.
La gente che si sposta, questi infiniti nomadi postmoderni, sono persone che solo vogliono vivere, cercano solo il diritto minimo che hanno tutti le persone del mondo. Per cui io credo che davvero dobbiamo non fidarci tanto di quello che già sappiamo. Ci sono delle alternative, però certo, le alternative mentre ci attraggono ci fanno paura, perché sono troppo alternative.
Questo è già successo. Se si studia la storia della Chiesa o la storia in generale, si vede che certi gruppi hanno sempre avuto paura. La logica a rovescio che indica Paolo nella lettera ai Corinti è la sapienza della Croce. La sapienza della Croce non è un crocifisso, la sapienza della Croce sono le logiche di speranza che solo cercano la vita e la cercano davvero.
Noi abbiamo bisogno di riscoprire dei soggetti, quelli che Giovanni XXIII già metteva in luce e che non sono solo i soggetti del ‘63 o del ‘65 o del ‘68, sono soggetti che oggi possiamo definire meglio. Dobbiamo uscire dai nostri monologhi perché noi abbiamo degli strumenti in più per giudicare la realtà, per giudicare i fenomeni. E’ una cultura della pace, ci sono dei parti molto difficili dentro questa realtà, parti non per le guerre, non per armarsi o per versare nuovo sangue, ma dei parti nel senso che ci sforziamo di pensare in un altro modo, ascoltando altre persone.
La fantasia non è finita. Io credo che la teologalità cristiana sia precisamente questa: la possibilità di continuare ad ascoltare l’impossibile, o la possibilità che tu non vedi e l’altro vede. Io credo che davvero tutta questa gente che si muove non è solo una minaccia per l’economia, è un altro mondo, è la possibilità di creare un altro mondo.
Noi ci vantiamo tanto della democrazia, ma quante lotte anche dentro la democrazia. La democrazia non è un modello assoluto. Forse oggi è il tempo di trovare degli altri modelli, ci sono altre soluzioni. Però le soluzioni partono dal basso, non partono dai nostri monologhi o da affermazioni come: “Sempre abbiamo fatto così” o “Questa è la nostra tradizione”. In questo momento io credo che anche la Chiesa e il cristianesimo dovrebbero essere un’alternativa, ma di fatto non lo sono. La Chiesa è l’istituzione che ha più paura: delle donne, dei poveri. I poveri nella Chiesa hanno spazio solo se possono essere assistiti, quando sono intelligenti e fanno i loro cammini, i poveri non ci piacciono tanto, perché non servono più.
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