sabato 3 marzo 2007

Relazione di Jon Sobrino al II Forum Mondiale di Teologia e Liberazione a Nairobi (da Adista n.18 del 3 Marzo 2007)

L'ETERNA TENTAZIONE DI NEGARE LA REALTÀ
di Jon Sobrino

Dure riflessioni previe 1. Il mio interesse principale è poter essere presente in Africa. Sono stato nello Zimbabwe nel 1991. Da allora mi ha colpito il peso della tragedia: il Rwanda del 1994, la sorte delle donne africane, Kibera in questi giorni... Casaldáliga ha appena finito di scrivere: "Africa, la shoa del nostro tempo". E l'economista Luis de Sebastián ha da poco pubblicato il libro: "Africa, peccato dell'Europa". Venendo da fuori, parlo con totale rispetto di quello che non conosco, e con venerazione di fronte alla sofferenza. Ma parlo anche affascinato da un mistero che mi sommerge e con gratitudine per quanto, da lontano, ho ricevuto dall'Africa. Una religiosa che ha passato molti anni nei campi di rifugiati di Bukavu mi ha scritto: "Non è difficile rendere lode e cantare quando si ha tutto assicurato. La meraviglia nasce quando i prigionieri di Kigali, che oggi riceveranno in visita i familiari che, con mille sudori, porteranno loro qualcosa da mangiare, benedicono e ringraziano Dio. Come potrebbero non essere dei prediletti dai quali apprendere la gratuità!? Oggi ho ricevuto le loro lettere: forse non si rendono conto di quanto riceviamo da loro e come ci salvano". Dall'Africa mi ha colpito anche il fatto che, nei campi di rifugiati di Bukavu, il vescovo Munzihirwa è vissuto ed è stato assassinato seguendo l'esempio di mons. Romero. Munzihirwa è stato un grande suo ammiratore e seguace (...). 2. Intendo per religione, in senso ampio, un modo in cui gli esseri umani, in quanto persone, ma anche in quanto gruppo, si relazionano con ciò che è ultimo, che possiamo chiamare Dio. Questa modalità di relazione ci configura in un determinato modo a partire dal quale possiamo configurare anche la realtà: cambiarla, liberarla, redimerla. La religione non offre ricette né modelli per il cambiamento della realtà. E non offre neppure un successo meccanicamente calcolato, ma spinge a lavorare con radicalità. Qui intendiamo per religione la tradizione biblico-gesuanica, aperta ad altre tradizioni affini, storicizzata da Martin Luther King, Romero, Munzihirwa e dai milioni di poveri dai quali sono sorti e ai quali hanno dato se stessi. In un senso ampio, la religione è in relazione con la Teologia della Liberazione. La religione così intesa ci introduce in un paradosso: ci muove invariabilmente a lottare per la liberazione, ma senza garantire il successo come lo intendiamo noi. Quello che si garantisce è la dedizione totale e la speranza che non muore: nelle parole di dom Calsaldáliga, "Siamo gli sconfitti di una causa invincibile". La religione non offre ricette, offre però una "riserva di umanità". Offre la radicalità non negoziabile della nostra dedizione alla liberazione. Più in concreto, offre la radicalità di un linguaggio oggi ignorato. Nel mondo non esistono solo limiti ed errori, ma peccato, quello che dà la morte, lentamente o violentemente, il peccato mortale, che significa fallimento totale di quelli che danno la morte. Nel mondo non esiste solo sforzo proprio, ma anche grazia, salvezza dall'arroganza (hybris). Nel mondo esistono aspettative, spesso ragionevoli, basate su calcoli, ma esiste anche la speranza che è frutto dell'amore. Contro ogni speranza, speriamo nel trionfo della giustizia perché abbiamo visto l'amore (...). 1. Le vittime Il vangelo di Giovanni dice che "il maligno è assassino e bugiardo". La liberazione, "l'altro mondo possibile", avviene in presenza e contro il maligno. La morte rimane nascosta, e per questo prima di tutto bisogna smascherare la menzogna. E quando lo facciamo ci troviamo con un mondo di vittime. Mantenere questa onestà nei confronti della realtà è esigenza della religione ed è fondamentale perché le persone e i gruppi possano lavorare per la liberazione. Vediamo brevemente. a) Le vittime, e in definitiva solo le vittime, aprono i nostri occhi alla realtà. La religione insiste sul fatto che questo miracolo di aprire gli occhi è necessario e possibile. Quello che appare nelle vittime è povertà, crudeltà, morte. Cosa che esprime l'inumanità del mondo in cui viviamo. Questa realtà è nascosta e taciuta. Le vittime non hanno neanche un nome. L'11 settembre è noto, ma il 7 ottobre no. Il 7 ottobre, un mese dopo l'attentato contro le torri gemelle di New York, una estesa coalizione di Paesi democratici ha bombardato l'Afghanistan. Ma l'Afghanistan, povero, vittima, non ha calendario, non ha nome, non esiste. Le vittime possono farci risvegliare dal sonno dogmatico in cui si trova immerso il mondo dell'abbondanza, democratico o no. Ricordiamo le parole rivolte nel 1511 da Antonio Montesinos agli encomenderos di fronte alla loro crudeltà nei confronti degli indigeni di Ispaniola: "Questi non sono uomini? Non hanno anime razionali? Com'è che siete caduti in un sonno così letargico?". Per come stanno le cose, sembra più difficile destare da questo sonno di crudele inumanità che dal sonno dogmatico di cui parlava Kant. b) Le vittime possono essere oggi gli antichi "maestri del sospetto", che non solo denunciano ciò che è chiaramente male, ma suscitano anche il sospetto sul male che può nascondersi dietro al bene o a quello che è apparentemente bene. Alcuni esempi. Smascherano la globalizzazione come ideologia, perché essa vuole offrire un mondo a forma di "globo" (quello che per Platone simbolizzava la perfezione), un mondo omogeneo che, se ancora non è tale, presto lo diventerà. Le vittime mettono in luce che nella globalizzazione ci sono vincitori e vinti. Smascherano anche le democrazie, che si presentano come realtà buone, oltre le quali sembra che non si possa andare. Le vittime rivelano che in realtà le democrazie reali si alimentano di vittime reali. E anche nella teoria fanno sospettare che il demos della democrazia non include le maggioranze povere, e certamente non le pone al centro della società come è nella tradizione religiosa dei profeti e di Gesù. c) Le vittime dimostrano l'esistenza degli idoli e ne chiariscono la vera essenza. Il fatto che siano venerate espressioni di vita quali i fiumi, il sole, la luna non ha a che vedere con l'idolatria, ma con disposizioni antropologiche. È invece simbolo di idolatria il dio Molok, che esige vittime per sussistere. Idoli sono oggi quelle realtà storiche esistenti che esigono vittime per sussistere. Mons. Romero menzionava a suo tempo l'idolatria del capitale assolutizzato e della sicurezza nazionale. Il suo linguaggio non era metaforico ma preciso: sono idoli perché esigono vittime. E mentre difendeva e appoggiava le organizzazioni popolari, le metteva in guardia dal pericolo di trasformarsi in idoli, assolutizzando se stesse e rendendo altri vittime. Ironicamente, non sono i cosiddetti popoli primitivi quelli che rendono culto agli idoli, ma le società basate sul capitalismo, sia quello occidentale, ora globalizzato, che, in passato, quello socialista. d) Le vittime richiedono di tornare ad un concetto a lungo dimenticato: quello di impero. Con la caduta del muro di Berlino rimane una sola superpotenza, gli Stati Uniti, che si autocomprende ed agisce come impero, concepito come "destino manifesto". E ricordiamo cosa diceva Agostino: imperium est magnum latrocinium. e) Le vittime possono farci superare il docetismo (eresia che negava la carne reale di Gesù Cristo), che oggi significa vivere in quella irrealtà di isole, eccezioni o aneddoti, che è il mondo dell'abbondanza. E vivere nell'irrealtà è principio di disumanizzazione. Le vittime ci rivolgono un invito, indifeso, ad essere reali e a trovare in questo la salvezza. Diceva mons. Romero: "Mi rallegro, fratelli, della persecuzione della nostra Chiesa. Sarebbe triste se, in un Paese dove ci sono tanti assassinati, non ci fossero sacerdoti assassinati. È la prova che la nostra Chiesa è cristiana e salvadoregna". Sono parole estreme, ma se non trasformiamo in realtà qualcosa di ciò che esprimono continueremo a vivere docetistamente, in un mondo irreale, capitalista o socialista che sia, cristiano o musulmano... f) Le vittime ci mostrano qual è il contenuto minimo fondamentale dell'utopia: la vita degna e giusta in fraternità. Non si tratta dell'utopia di Platone ne La Repubblica o di quella di Tommaso Moro. Ed inoltre questa utopia dei poveri non bisogna comprenderla esistenzialmente come ou-topia, come quel perfetto per il quale non c'è posto (al quale mirerebbe il mondo dell'abbondanza), ma come eu-topia, come quel buono e necessario per il quale deve esserci posto. Si potrebbe dire che teoricamente tutto questo può essere svelato senza prendere in considerazione le vittime. In realtà non succede così. Per questo è un grande contributo alla verità, alla giustizia e alla liberazione una tradizione religiosa che faccia delle vittime la realtà centrale. 2. La mistica della compassione La religione offre anche una mistica, una spiritualità, una luce e una forza che guidano il nostro vedere, fare, sperare e celebrare. Qui ci concentriamo sulla compassione come punto centrale della mistica. Se il maligno è non solo bugiardo ma anche assassino, la verità che smaschera la menzogna va accompagnata con la compassione che genera vita. a) Intendiamo per compassione la reazione a liberare dalla sofferenza gli esseri umani, per il solo fatto che essa esiste. Compassione è allora elemento primo ed ultimo. Può essere accompagnata da sentimenti, ma è più che sentimento. E deve essere storicizzata. Così la compassione deve prendere forma d'aiuto, giustizia, liberazione, redenzione... Nella traduzione gesuanica la compassione è la reazione primaria e fondamentale di Gesù alla ripetuta richiesta sulla bocca dei poveri: "Signore, abbi compassione di me". b) La religione assicura una radicalità ed una definitività teologale alla compassione, secondo le parole di mons. Romero: "Gloria Dei, vivens pauper". Far sì che il povero viva (dandogli dignità, giustizia, vita...) è far sì, storicamente, che Dio sia glorificato. c) La compassione non ha limiti, come non ne ha l'amore. Per questo, la compassione può esigere che tutto gli sia dato, vita compresa. Oggi, in molti luoghi del Terzo Mondo, ci sono molti testimoni di questa compassione totale. E, oltre a dimostrare coerenza nella loro lotta per la liberazione, diventano motivo di speranza e di gratitudine. È ciò che mostra la celebrazione dei martiri. d) La religione ci ricorda che anche la compassione bisogna manifestarla senza arroganza. L'arroganza tende sempre a corrompere tutto, comprese le cose buone. Nella nostra storia succede, in maggiore e minore misura, che anche i movimenti di liberazione degenerano, e non dovrebbe stupire dal momento che sono umani. Però è importante non pensare che, per il fatto di operare per la liberazione, siamo immuni da egoismo e da ciò che ne consegue. La religione ci ricorda, nelle parole di José Ignacio González Faus, che "bisogna fare la rivoluzione come chi è stato perdonato". 3. Il mistero delle vittime e il mistero di Dio A partire dalle vittime possiamo mettere in parole, balbettando, quel che c'è di mistero ultimo nella realtà. a) Il mistero esiste come enigma spaventoso sotto forma di mysterium iniquitatis. Appare terrificante come abbiamo visto al primo punto: esseri umani che danno la morte, ingiustamente e crudelmente, e disumanizzandosi essi stessi. Ma anche nel mondo delle vittime si manifesta il mistero dell'iniquità. È la tragedia del Rwanda e dei Grandi Laghi, con la responsabilità secolare del Nord e la sua insensibilità attuale, ma anche con la responsabilità di questi popoli. Melquisedek Sikuli, vescovo congolese, lo riconosce, dopo aver enumerato gli immensi problemi che devastano il suo Paese: miseria, ingiustizia, esuli, donne violentate e villaggi saccheggiati, sullo sfondo del peccato del colonialismo. Ma non dissimula i mali del Paese, come il dramma dei bambini-soldato, sebbene la compassione di fronte a tanta sofferenza lo spinga a cercare qualche spiegazione. Cita alcune parole di Kouroma, nel suo libro "Allah non è contento": "Quando non si ha nessuno al mondo, né padre, né madre, né sorella, e si è ancora un bambino, in un Paese devastato e barbaro, dove tutti si uccidono, cosa si può fare? Si comincia ad essere bambino-soldato per mangiare ed uccidere: è tutto quello che ci rimane". b) Il mysterium salutis si fa reale nei successi, piccoli o grandi, dei poveri, nella solidarietà che generano in molti, e nella fraternità che va nascendo tra persone, gruppi e popoli. E anche negli studi e nelle analisi teoriche finalizzati a proporre modelli di salvezza e nelle strategie pratiche per attuarli. Si esprime nell'identità, nelle culture, nelle religioni soprattutto dei popoli ancestrali, molti dei quali impoveriti, che hanno resistito attraverso i secoli anche fra molte difficoltà. È sempre più evidente che ci arricchiscono tutti. Ma, anche nei momenti di sofferenza, nelle vittime e nei poveri può sorgere e sorge un anelito a sopravvivere e a convivere gli con gli altri, lavorando con creatività, dignità, resistenza e forza senza limiti, sfidando immani ostacoli. Non ho parole per descriverlo. L'ho chiamato santità primordiale. Non si può dire cosa ci sia in essa di libertà o di necessità, di virtù o di obbligo, di grazia o di merito: non deve essere necessariamente accompagnata da virtù eroiche, ma si esprime in una vita tutta eroica. Questa santità primordiale invita gli uni a dare agli altri, gli uni a ricevere dagli altri, a celebrare gli uni con gli altri la gioia di essere umani. In questo senso possiamo dire che da questi poveri proviene salvezza. c) E nei poveri si intravede Dio. Diciamolo per concludere, con parole molto care a Gustavo Gutiérrez. In mezzo alla sofferenza dell'innocente, egli si domanda "come parlare di Dio a partire da Ayacucho", città peruviana che in quechua vuol dire "angolo dei morti". Qui stanno chiedendo di Dio Giobbe, Ivan Karamazov, Gesù sulla croce (...). I poveri rimandano a Dio perché Dio è in essi, al tempo stesso nascosto e manifesto. E sono "i vicari di Cristo". 4. Conclusione Tutto quello che abbiamo detto può essere detto in molti contesti. Nel contesto di questo Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, alla vigilia del Forum Mondiale Sociale, il suo significato specifico può essere il seguente: La tradizione religiosa che abbiamo analizzato afferma l'imperiosa necessità della giustizia e la necessità di ogni sforzo economico, sociale, politico, culturale per un mondo diverso. Condivide la speranza che questo nuovo mondo è possibile. E spinge tutti a lavorare per esso. Forse quello che abbiamo detto può aiutare ad offrire un modo di procedere che, secondo noi, ci avvia ad una liberazione più globale e profonda. Si tratta di porre al centro le vittime e la compassione per esse, di camminare nella prassi e con speranza verso un mistero ultimo che la religione chiama Dio. Di camminare in compagnia di molti fratelli e sorelle, testimoni e martiri di tutto il mondo. E, nella tradizione cristiana, di camminare seguendo Gesù, nostro fratello maggiore. Niente di questo toglie importanza e necessità alle analisi che devono esser fatte nel forum sociale, ma forse può aiutare a metterle in pratica nel modo più umano possibile.

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