mercoledì 30 maggio 2007

Lettera di don Paolo Farinella a mons. Bagnasco

Lettera al presidente della Cei, Mons. Angelo Bagnasco arcivescovo di Genova

Genova, 14 maggio 2007
Sig. Presidente,

il 12 maggio in piazza S. Giovanni a Roma al raduno organizzato dalla Presidenza della Cei attraverso le aggregazioni laicali cattoliche, è accaduto un fatto grave che come presidente dei Vescovi italiani non può lasciare senza risposta. Silvio Berlusconi, notoriamente divorziato e felicemente convivente, ha dichiarato che i cattolici coerenti non possono stare a sinistra, asserendo con questo che devono stare a destra, cioè con lui e con il suo liberismo che coincide sempre con i suoi interessi e mai col «bene comune».

Non è questa la sede per stabilire i confini di «destra» e «sinistra». Una sola annotazione: da tutta la letteratura documentale del magistero, da Leone XIII al «Compendio» pubblicato nel 2004 da Giovanni Paolo II, risalta che i programmi della «sinistra», presi nella loro globalità e alla luce della categoria dirimente del «bene comune o generale» sono molto più vicini alla «dottrina sociale della Chiesa» di quelli della «destra», che, al di là delle parole ossequiose e strumentali, sono la negazione di quella dottrina nei suoi principi essenziali (bene comune, democrazia, legalità, stato sociale, ecc.). Alcide De Gasperi, già negli anni ’50, definiva la DC «un partito di centro che guarda a sinistra».
Benedetto XVI ad Aparecida in Brasile ha detto che la scelta preferenziale dei poveri è costitutiva della Chiesa e ha dichiarato la fine del marxismo (forse intendeva dire del marxismo ideologico e storico come realizzato nel sovietismo) e il fallimento del capitalismo. Silvio Berlusconi è il rappresentante più retrivo del capitalismo speculativo e senza regole, appena condannato dal papa, perché egli adora un solo dio e ha una sola religione: il mercato. A condizione però che il mercato faccia gli interessi dei ricchi, i quali, si sa, sono capaci di sprazzi di «compassione» ed elargiscono elemosine ai poveri, magari davanti alla tv, conquistandosi anche il paradiso e risolvendo il rebus del cammello e della cruna dell’ago. Con le sue tv commerciali, egli guida e gestisce il degrado morale del nostro popolo, imponendo modelli e stili di vita che sono la negazione esplicita e totale di tutti i «valori» cristiani che il raduno del Family Day voleva affermare.
E’ notizia di oggi (14 maggio 2007) che Berlusconi ha comprato la società Endemol, la fabbrica del vacuo, dei grandi fratelli e del voyeurismo amorale e anti-famiglia che fornisce anche la tv di Stato che così viene ad essere, a livello di contenuti, totalmente nelle sue mani. Il conflitto di interessi ora è totale. La sua presenza ad un raduno di cattolici manifestanti a favore della famiglia è strutturalmente incompatibile. Egli non può stare nemmeno nei paraggi del cattolicesimo che di solito ossequia subdolamente e di cui si serve con qualsiasi strumento economico o di potere. Mi fa ottima compagnia P. Bartolomeo Sorge S.J. che ha dimostrato con ampia facoltà di prova sulla scorta del magistero ordinario nei memorabili editoriali di Aggiornamenti Sociali, l’incompatibilità del berlusconismo con la dottrina sociale della Chiesa e ancora di più con i principi esigenti del cristianesimo.
Un altro campione di famiglia cattolica, pontificante al raduno, fu il deputato Pierferdinando Casini. O tempora! O mores! Il 19 ottobre 2005, all’inaugurazione dell’anno accademico nella Università del Papa, la Lateranense, il Gran Cancelliere, Mons. Rino Fisichella, ebbe l’ardire di presentarlo come esempio di persona che «forte della sua esperienza trentennale di vita politica e sostenuto da una forte coscienza cristiana, può offrire a noi tutti un chiaro esempio di come la fede possa ispirare comportamenti politici liberi e coerenti nella ricerca del bene comune». Parole di un vescovo, Gran Cancelliere nell’Università del Papa, ad un cattolico praticante, divorziato e felicemente convivente con prole.
Tutto ciò crea disorientamento, scandalo e sconcerto nei cristiani che faticano ogni giorno a fare conciliare l’esigenza della fede con il peso delle situazioni della vita, a volte insopportabili. Ad un uomo divorziato che, di fronte a queste dichiarazioni, affermava il suo diritto di «fare la comunione», non ho potuto dare torto, perché non potevo contestare l’autorevolezza di un vescovo e Gran Cancelliere del Papa: ho dovuto dirgli che aveva ragione e che sulla coscienza e responsabilità di Mons. Fisichella, del deputato Pierferdinando Casini e di Silvio Berlusconi, divorziati e conviventi, paladini difensori della «famiglia tradizionale», dell’indissolubilità del matrimonio, poteva andare tranquillo. Rilevo di passaggio che sia Casini che Berlusconi, in quanto parlamentari, usufruiscono «già» per i loro conviventi di tutti i benefici che contestano al progetto di legge sui «DICO».
O la Chiesa è coerente fino allo spasimo, fino al martirio, sapendo distinguere i falsi profeti per difendere le pecorelle dal sopruso e dalla sudditanza di avventurieri senza scrupoli, o la Chiesa si riduce ad una lobby che intrallazza interessi materiali con chiunque può garantirglieli. E’ una questione «di verità» per usare un’espressione a lei cara. Sulla stampa (la Repubblica 14-05-2007, p. 9) all’interno di una intervista, mons. Giuseppe Anfossi, responsabile Cei per la famiglia, ha dichiarato che Berlusconi si assume la responsabilità di ciò che ha detto. Non parlava però a nome della Cei che, credo, abbia l’obbligo di fare chiarezza e prendere le distanze da simili individui che non fanno onore né alla chiesa, né alla politica (nella concezione espressa da Paolo VI), né al popolo italiano. Se non vi sarà una chiarificazione ufficiale da parte della presidenza della Cei resterà un «vulnus» che ne appannerà la credibilità.Sulla stampa sono stati pubblicati i capitoli dell’8 per mille che hanno cofinanziato il raduno del Family Day, suscitando in larghi strati del popolo cattolico una reazione a devolvere altrove la quota della Chiesa, generando ancora una volta una scollatura più grande tra popolo di Dio e Gerarchia che ormai sembrano camminare su sentieri diversi. Mi auguro che lei abbia il coraggio necessario, adeguato alla situazione.
E’ mia intenzione nella giornata di lunedì 21 maggio 2007, rendere pubblica questa lettera di credente ferito che si dissocia dalle parole per nulla cristiane di Silvio Berlusconi e anche dal silenzio pesante della Presidenza della Cei. Nessuna pretesa, solo una testimonianza «nunc pro tunc».

Paolo Farinella, prete

giovedì 24 maggio 2007

Antonietta Potente - Le donne latinoamericane


L' impatto della tradizione latinoamericana sulla visione cristiana della donna

di Antonietta Potente



Nessuno sarà padrone di questo corpo di laghi e vulcani
di questa mescolanza di razze,
di questa storia di lance;
di questo popolo amante del mais,
delle feste al chiaro di luna;
del popolo dei canti e dei tessuti di tutti i colori.
Né lei né io siamo morte senza un progetto, senza lasciare un’eredità.
Siamo tornate alla terra da dove ancora torneremo a vivere.
Popoleremo di frutti carnosi l’aria dei tempi nuovi.
Colibrì Yarince
Colibrì Felipe
Danzeranno sulle nostre corolle
Ci feconderanno eternamente.
Vivremo nel crepuscolo della gioia
Nell’alba di tutti i giardini.
Presto vedremo il giorno colmo di felicità
Le imbarcazioni dei conquistatori allontanarci per sempre.
Saranno nostro l’oro e le piume
Il cacao e il mango l’essenza dei sacuanjoches.
Ci ama non muore mai.
(Gioconda Belli, La Mujer habitada)


Le donne assomigliano alla storia dei popoli o la storia dei popoli è la storia delle donne. Storie ecologiche delle biodiversità universali, storie quotidiane delle cose; parti di lotte giornaliere per vivere, ma anche feste, audaci tentativi di cambio di vita, di destino. Mi costa molto entrare in questo terra; non trovo il nodo d'inizio per incominciare a dipanare, sbrogliare questo gomitolo di lana così aggrovigliato. Il tema è molto teorico; nessuna di noi ha coscienza di aver creato un impatto sulla visione cristiana della donna. Prima di tutto perché la visione cristiana della donna non è così originale come a volte pensiamo.Secondo, perché mi si chiede di riflettere a partire dalla tradizione latinoamericana, dove la stessa tradizione cristiana ha influenzato moltissimo la visione di donna. Bisogna ammettere che i coloni autoctoni della tradizione latinoamencana nella tradizione cristiana sono ancora abba­stanza pallidi, perché il cristianesimo, in questo continente come in altri, si è solo inserito, ma non è ancora rinato.
L'America Latina è un universo immenso di storia, di vita e di morte. Vulcani, laghi, montagne, pianure, mari, laghi, cieli ... come scrive la scrittrice nicaraguese Gioconda Belli. Sono tempi frammentati, diversi tra loro. Tradizioni più o meno inedite, la maggior parte delle volte interpretate ma non rivelate pienamente; tradizioni nelle quali resta come un gemito ciò che canta la scrittrice:

Né lei né io siamo morte senza un progetto, senza lasciare un’eredità.

Siamo tornate alla terra da dove ancora torneremo a vivere.
Popoleremo di frutti carnosi l’aria dei tempi nuovi.


Allora, mi domando che cosa posso dire ai lettori, alle lettrici; che cosa vorrebbero sapere? Perché associare tanti miti, tante storie: la tradizione, le donne, l'America Latina, il cristianesimo?Incomincerò ad addentrarmi nel tema parte per parte, anche se il gomitolo continua ad essere uno e a mantenere l'armonico e il complice laccio tra le varie dimensioni delle problematiche umane, personali, storiche, sociali o ecclesiali.
Tradizione: tra l’inedito e l’ufficilaità
Per iniziare questa breve memoria, mi piacerebbe fare alcune distinzioni. Il problema gira attorno alla domanda: a che tipo di tradizione ci riferia­mo? Per non cadere in facili interpretazioni, mi sembra importante dire che quando parliamo di tradizione dobbiamo per lo meno distinguere due tipi di significati. C'è la tradizione come insieme di valori, costumi, abitudini culturali assume da un popolo e da una società. Un concetto gene­rale, più vicino alla sensibilità di una classe borghese che all'universo culturale popolare o di base. Questa, potremmo definirla una tradizione ufficiale. Ma vi è anche un altro senso che possiamo dare aI termine. Tra­dizione come sensibilità, vita implicita nella esperienza quotidiana dei popoli, degli individui, uomini e donne. In questa, s'intrecciano aspetti del cosciente e dell'inconscio, individuale e collettivo. È qualcosa che si trasmette, si tramanda, si insegna, Iascia tracce, impronte o semplicemente orme. Questa la potremmo chiamare una tradizione inedita, soffiata all'orecchio o tramandata di bocca in bocca, di mano in mano, di sguardo in sguardo.
Certamente siamo tutti e tutte d'accordo nel dire che la tradizione delle donne ha toni più simili a quelli delle tradizioni inedite che a quelli della tradizione ufficiale. Non solo nei popoli del Nord del mondo, ma anche nei popoli dei Sud. Le donne, infatti, si muovono con complicità tra storia ufficiale e storia inedita; fanno parte di un mito e di una costruzione, sono lo specchio di sagome pensate da altri.
Dentro la tradizione ufficiale, si articolano quelli che potremmo chiamare i modelli, gli stereotipi. Modelli di donna: ogni cultura o società ha i suoi e li conserva coscientemente o inconsciamente. È dunque normale che il cristianesimo abbia i suoi che in alcuni momenti storici hanno giocato un ruolo importante nella vita delle donne. Da questi modelli più o meno sociologici o più o meno religiosi, nasce e si coltiva la storia di molte donne. Ruoli, immagini, comportamenti "etici", tutto si alimenta partendo da questi paradigmi che la storia ha definito secondo la propria semiotica.

Il modello cristiano
Il modello cristiano, dunque, non fu tanto differente, né originale. La teologia e la spiritualità vi contribuirono con la loro ermeneutica maschile e patriarcale. L'immagine di Maria, rifletteva l’immagine che la storia voleva coltivare nella donna, ma anche nel popoli: madre, sposa silenziosa e obbediente che si muove solo intorno alla casa. Non approfondisco quest'aspetto che forse potrebbe suonare quasi retorico, visto che già da anni — per lo meno noi donne — abbiamo scoperto e criticato quest'immagine.In America Latina, Maria — e dunque la donna — a volte assumerà colori spagnoli regali: i vestiti delle statue non sono autoctoni, salvo che per alcuni esemplari di opere in cui si vede un'influenza indigena. Il modello di donna cristiana è un modello di come devono comportarsi le minoranze etniche, sociali, religiose. Non importa se sono maggioranze numeriche, perché per la cultura ufficiale sono minoranze. Maria serve per convincere non solo le donne, ma tutti coloro che sono semplici e devono rimanere semplici, cioè obbedienti, mansueti. In alcuni momenti, quasi per consolarci, si dirà che il silenzio di Maria è eloquente e che la sua fedeltà contribuì alla storia della salvezza, ma l'importante fu plasmare le persone secondo un modello che in realtà non ha una radice totalmente evangelica, ma piuttosto culturale, sociale.
In questo senso, la questione del genere si scoprirà sempre più come costruzione sociale, anche se in alcuni ambiti questo non si ammette. Chi scoprì questo furono proprio le donne, le donne di tutto il mondo.

America latina
Parlando di storia latinoamericana dovremmo metterci d'accordo a quale tradizione ci stiamo riferendo. La storia del continente è americana, caribica, autoctona, negra, meticcia. Ci sono culture preispaniche, c'è la donna dell'impero maya, incaico, c'è la tradizione della donna raccontata dai cronisti, c'è la donna libera delle isole e dei mari, la donna dei miti e della realtà, la donna negra. Ci sono, fino ad oggi, le donne dei conquistatori, ma anche la donna delle periferie, la donna intellettuale, la donna contadina, ecc.
Rileggendo la storia, è impossibile non ammettere il ruolo che hanno giocato le donne nel cambiamento dei paradigmi sociali. Impossibile negare un'azione constante per ritrovare il proprio spazio pubblico nelle coordinate di una storia sempre pensata dagli stessi e da pochi. Le donne a differenza d'altri gruppi esclusi dovettero vivere duri impedimenti prima che le loro azioni fossero considerate legittime, ma nessuno può dire che furono assenti. I limiti che le culture hanno tracciato tra pubblico e privato, poco a poco sono stati superati, così come la frattura dico­tomica tra il pensiero e l'azione, tra la teoria e la vita. Fu precisamente il femminismo, come alcune donne scrivono, il motore principale che dette la possibilità di dilatare questi spazi e questi limiti: ciò che sta "fuori" — la strada, la politica, l'economia, lo stato, la politica — e ciò che sta "dentro" — la casa, l'intimità, la soggettività, l'identità .... Non saprei dire se questo è latinoamericano o è del Nord del mondo e non m' interessa saperlo.
Certamente le donne del Nord del mondo hanno fatto storia e hanno avu­to la possibilità di fare eloquenti sintesi teoriche politiche e pratiche. Ma ciò che interessa è che tutte le donne sono in rete e dalla storia delle don­ne impariamo — anche se con difficoltà — una storia di solidarietà.Certamente, lo spazio latinoamericano è uno spazio di rilettura, come sempre una rilettura contestuale, storica, relazionata con le situazioni reali della vita della gente. L'impatto si verifica per la fedeltà a contesti e situazioni reali, e non solo per sistematizzazioni teoriche. L'impatto è la realtà delle donne, i loro successi, le loro conquiste dentro gli spazi quo­tidiani. Limpatto è la capacità ermeneutica delle donne intellettuali, ma anche la capacità di raccogliere la vita reale delle donne a farla diventare tradizione o criterio ermeneutico necessario. È la memoria viva di tante donne che in America Latina continua ad essere coscienza critica e de­nuncia. Ma sono anche sapienze ancestrali, mantenute occulte, segrete, che solo si lasciano intravedere nei propri spazi culturali. Sono le dimen­sioni vive della vita, la capacità di solidarizzare tra donne, soprattutto, per sentire che in fondo c' è una storia comune.
La storia non è molto benevola con le minoranze o con ciò che considera come minoranze. La cultura stimmatizza questa mancanza di benevolenza e qualcuno la assume e la propaga come una dottrina. L'impatto della tradizione latinoamericana è un impatto di reale liberazione, di possibilità di vita che sprizza dai suoi pori il sogno della dignità. Ma l'impatto teorico è ancora lontano, soprattutto negli ambiti ecclesiali o dottrinali. È la nostra capacità di osare che causa impatto, la nostra capacità di continuare il cammino. È la nostra capacità di gioire tra di noi che ci aiuta a leggerci in un altro modo, ma anche a leggere in un altro modo la storia passata e il presente. La storia latinoamericana è una storia di disobbedienza e anche quella delle donne.
È un impatto nella vita reale, nei fatti: piccoli racconti di donne educate per sposarsi e per servire mariti, figli, casa, cucina, Chiesa, Dio.... Donne soggette al marchio ristretto della logica formale. Ma sono, le stesse donne, depositarie di una sapienza anteriore a tutte le rivoluzioni emancipatrici. Nella logica di un contesto quasi monotono nascono, per secoli, personalità differenti e complici con la vita: ombre che continuamente eclissano gli uomini e le loro noiosissime istituzioni: ombre che si muovono in complicità con il sogno: trame sottili per recuperare dignità e farla recuperare. Ma non è così nella vigente visione "cristiana" della donna. ancora rivestita da tanti miti. Esiste una rilettura teologica delle donne latinoamericane, ma nella Chiesa non esiste alcuna voglia di cambiare la prospettiva sulla donna. Influire su un modello di donna cristiana significherebbe influire su un modello di Chiesa, di comunità: cioè uscire dal circolo esclusivo che il movimento gerarchico della vita genera ed entrare in una spirale, in una danza delle persone e delle strutture.

Appunti in margine
Sto scrivendo con i miei occhi disse Frida Khalo, artista, pittrice messicana: e scrivere con gli occhi è scrivere in un altro modo. Certamente, lo spazio latinoamericano è ancora oggi uno spazio alternativo, ma soprattutto perché ha voglia di vivere in un altro modo, soprattutto perché i suoi occhi disegnano sogni differenti che non si sono perduti solo perché sono venuti meno le rivoluzioni o i cambiamenti sociopolitici sperati. Noi donne abbiamo un'altra strategia, ma certamente non è una strategia ufficiale, anche se, probabilmente, qualora riuscissimo a farla provare, innamorerebbe molti, donne, uomini e animali. È la strategia che ci aiutò a tessere le trame delle relazioni che non si dividono tra pubbliche e private, comunitarie e individuali. Sono relazioni che servono per vivere e le relazioni che servono per vivere certamente sono politiche, sociali economiche, ma anche affettive, intime, profondamente umane, ecologiche e ambientali.
Allora, una domanda: esiste spazio per tutte queste dimensioni e per il loro più intimo e armonico gioco nella tradizione cristiana? Ma anche: esiste spazio per tutte queste dimensioni con rispetto alla visione della Chiesa e di Dio?
Se c'è ancora spazio, o desiderio che questi spazi si intreccino e si estendano, allora ci sarà spazio anche per un possibile impatto — tracce, orme, segni — che le donne lasciano lungo la storia. Ma questo lo devono sapere soprattutto la teologia e la Chiesa, che sono le due realtà che più gestiscono la visione cristiana della donna.
Non si tratta solamente di sostituire modelli, ma di continuare a pensare alla possibilità di una stona che può esistere perché si trasforma, cambia.
Noi la storia la scriviamo con gli occhi, direbbe Clarissa Pinkola riferendosi alle donne dell'Africa, o con la risata, direbbe la Bibbia riferendosi a Sa­ra, la sposa di Abramo, e al suo ridere irriverente e ardito (Gen 18,12).
La storia la scriviamo in un altro modo e quest'altro modo lo s'inventa tutti i giorni, perché la situazione cambia e i modelli lasciano semplici contorni.
Noi la storia la scriviamo a partire dalla realtà, perché la realtà ci cambia mentre cambia con noi. Il cristianesimo ha troppi modelli fissi per potersi plasmare e plasmarsi insieme alla vita che è urgenza storica e soteriologia reale, di tutte e di tutti, in ogni continente.

mercoledì 23 maggio 2007

Risposta dei popoli indigeni dopo il discorso di Ratzinger ad Aparecida (13 maggio)

L'albero si conosce dai suoi frutti

della Confederazione dei popoli di nazionalità kichwa dell'Ecuador (da Adista doc n.83/2007)




I popoli e le nazionalità indigene di Abya Yala (America) respingiamo energicamente le dichiarazioni emesse dal Sommo Pontefice riguardo alla nostra spiritualità ancestrale e i commenti politici rilasciati in relazione ad alcuni presidenti dell’America Latina e dei Caraibi, tanto più in quanto realizzati in un continente in cui aumenta il divario tra poveri e ricchi e in cui si trova gran parte dei fedeli cattolici del mondo, frutto di un’“evangelizzazione” secolare che non è riuscita a produrre una vita giusta e degna per i suoi abitanti. Queste dichiarazioni arrivano proprio quando la Vita Planetaria è minacciata di morte, cosa di cui non sono responsabili i presidenti che il papa cita nelle sue allocuzioni, ma quelli che, come il presidente George W. Bush, sventolano la bandiera del vorace sistema capitalista di taglio neoliberista. È dunque inconcepibile che, per chi si considera il rappresentante di Cristo in questa terra, siano i presidenti latinoamericani di linea umanista a causare preoccupazione. È ora di capire che il nostro continente ha il diritto di esercitare la sua libera autodeterminazione. Non è l’ora di nuove e rinnovate conquiste in nome di nessuno.


Se analizziamo con una elementare sensibilità umana, senza fanatismo di alcun tipo, la storia dell’invasione di Abya Yala, realizzata dagli spagnoli con la complicità della Chiesa cattolica, non possiamo che indignarci. Sicuramente il papa disconosce che i rappresentanti della Chiesa cattolica di quel tempo, con onorevoli eccezioni, furono complici, insabbiatori e beneficiari di uno dei genocodi più orrendi a cui l’umanità abbia potuto assistere. Più di 70 milioni di indigeni sono morti in miniera e ai lavori forzati; nazioni e popoli interi sono stati spazzati via e, in sostituzione dei morti, sono stati portati qui i popoli neri, che hanno subìto un infelice destino; hanno usurpato le ricchezze dei nostri territori per salvare economicamente il loro sistema feudale; le donne sono state violentate e migliaia di bambini sono morti di denutrizione e di malattie sconosciute. Il tutto dietro il presupposto filosofico e teologico che i nostri antenati “non avevano l’anima”. Insieme agli assassini dei nostri eroici dirigenti c’era sempre un sacerdote e un vescovo ad indottrinare i condannati a morte, perché fossero battezzati prima di morire e naturalmente rinunciassero alle proprie concezioni filosofiche e teologiche. (...). Ricordiamo che molti dei nostri fratelli e sorelle preferirono morire sul rogo che rinunciare a propri principi, come nel caso del nostro fratello Hatuey nell’isola di Cuba, che, rispondendo al-l’indottrinamento del sacerdote che benediceva il suo assassinio, a proposito dell’importanza del battesimo per andare in “cielo” con i cristiani, disse che avrebbe preferito andare all’inferno piuttosto che trovarsi nell’altra vita con gli oppressori, i ladroni e gli assassini (...). In quello che oggi è l’Ecuador, il grande dirigente Calicuchima, di fronte al sacerdote che intendeva battezzarlo e benedire la sua morte, andò al rogo gridando tra le fiamme, con tutto il suo spirito, Pachakamak! (Grande Spirito che si prende cura dell’uni-verso). Bisognerebbe domandare al papa se Cristo, che dice di rappresentare, sarebbe d’accordo con questi crimini di lesa umanità, e ricordare al Sommo Pontefice e al governo spagnolo che questo tipo di crimini non cade in prescrizione, né per le leggi terrene né per quelle divine.

Le Chiese cristiane, e in particolare quella cattolica, hanno un immenso debito con Cristo, i poveri del mondo e i Popoli e le Nazionalità Indigene che hanno resistito a tanta barbarie. Se lo Stato spagnolo e il Vaticano non possono risarcirli per il mostruoso genocidio, il capo della Chiesa cattolica dovrebbe almeno riconoscere l’errore commesso (...).

Non è concepibile che in pieno XXI secolo ancora si creda che possa essere concepito come Dio solo un essere definito come tale in Europa. Il papa deve sapere che prima che i sacerdoti cattolici giungessero nei nostri territori con la Bibbia, nei nostri popoli già esisteva Dio, e la sua Parola ha sempre sostenuto la loro Vita e quella della Madre Terra. La Parola di Dio non può essere contenuta solo in un libro e meno ancora si può credere che una religione possa privatizzare Dio. I Popoli Originari erano civiltà con governi e organizzazioni sociali strutturate secondo i loro principi e avevano naturalmente le loro religioni, con libri sacri, riti, sacerdoti e sacerdotesse, i primi ad essere assassinati da coloro che svolgevano il ruolo di servitori del “dio denaro” e non del Dio Amore di cui parla Gesù Cristo. (...). Come potevano quelli che erano pieni di avidità rappresentare colui che ha consacrato tutta la sua vita al servizio dell’uma-nità, fino alla morte cruenta, per rivelare la verità ai poveri di tutti i tempi? Non erano rappresentanti del Dio di Gesù: il loro “dio” era un divoratore di vite umane e di ricchezze usurpate con il sangue, crimini abominevoli che tutti i profeti della Bibbia aborriscono!

La Giustizia richiede di riscattare ed evidenziare le vite esemplari dei sacerdoti che di fronte a tanta barbarie si posero al fianco di quelli che chiamarono “indios”, come Bartolomé de las Casas e altri domenicani che esercitarono la difesa dei diritti dei nostri antenati vilmente oltraggiati. E occorre anche riconoscere ed esprimere il nostro più profondo rispetto per tutte le religioni, i sacerdoti, i vescovi e i pastori che hanno dato la vita per servire i più poveri nel nostro continente e in ogni parte del mondo: riconosciamo in maniera speciale l’ammirevole lavoro realizzato in Ecuador da mons. Leonidas Proaño che per più di 30 anni ha servito con onestà i poveri dell’Ecuador, consacrandosi particolarmente alla causa di liberazione dei Popoli e delle Nazionalità Indigene. (...)

Non si può predicare il messaggio di Gesù Cristo nell’opulenza, al fianco di coloro che profanano la Vita creata da Dio, dei massimi distruttori della Vita Planetaria. Rifiutiamo le coincidenze politiche e religiose che esistono tra Bush e il papa nella criminalizzazione delle lotte dei popoli oppressi. Esigiamo coerenza! È l’incoerenza di molti che dicono di essere rappresentanti di Cristo a provocare la diserzione nelle Chiese, in particolare quella cattolica, che tanto preoccupa il papa. (...).

Il Pontefice ha assicurato che “L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso ma un regresso” per i “popoli originari” che hanno realizzato “una sintesi tra le loro culture e la fede cristiana che i missionari offrivano loro”. Per noi la Vita di Gesù è una Grande Luce proveniente dall’Inti Yaya (Luce paterna e materna che sostiene tutto), giunta a scacciare tutto quello che non ci lascia vivere con giustizia e fraternità tra esseri umani e in armonia con la Madre natura. Noi rispettiamo i suoi autentici seguaci. La vita ci ha insegnato che “l’albero si conosce dai suoi frutti”, come ha detto Cristo, e sappiamo distinguere tra chi serve i poveri e chi si serve di loro. Occorre comunicare al Pontefice che le nostre religioni non sono mai morte, che imparammo a sincretizzare le nostre credenze e i nostri simboli con quelli degli invasori e degli oppressori. (...).

Esprimiamo la nostra totale solidarietà al presidente Evo Morales, nostro fratello, servitore dei poveri, che ha consacrato tutta la sua vita al servizio della verità, della giustizia, della libertà, della fraternità tra i popoli, sicuri che Gesù Cristo lo considera suo amico. E la nostra solidarietà va ai presidenti Hugo Chávez e Fidel Castro, umanisti consacrati a lottare per la vita degna dei popoli (...).

In nome dei nostri antenati oltraggiati e dei milioni di poveri che in Abya Yala hanno la speranza di una vita degna per tutte e tutti, rinnoviamo la nostra ferma determinazione a recuperare i nostri diritti e non permetteremo a nessuno di perpetuare il genocidio iniziato 514 anni fa.

venerdì 18 maggio 2007

da una riflessione che Ernesto Balducci (1922 - 1992) tenne nel 1974 alla Comunità dell'Isolotto di Firenze in occasione del referendum sul divorzio

E io vi dico: la famiglia cristiana non esiste

di padre Ernesto Balducci


Dalla Conferenza tenuta presso la Comunità dell’Isolotto nel 1974 in occasione del referendum sul divorzio.


A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire una manovra con obiettivi reazionari. (...) Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere quella che chiamerei ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese.
Il quale mondo borghese trova vantaggi nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze. (...) Così quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della famiglia e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della chiesa.
Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? E’ lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito NO. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico. (...)
Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall'ordinamento giuridico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.
Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l'ordinamento canonico (...) non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, di cui è responsabile la chiesa cattolica. I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia, (...) Non c'era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c'era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c'era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. (...) Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di «famiglia cristiana». Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. (...)
Solo quando la chiesa, dopo Costantino e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano (...).
Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana (...) è un prodotto storico e, come tale, relativo. Per cui io non riesco a capire che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale sia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano. La famiglia cristiana (...) nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.
È chiaro che l'unità della famiglia cristiana usufruiva di un dato economico, era l'unità patrimoniale. (...) E quindi l'unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell'indivisibile unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana, si fa per dire, di ceto povero, se avesse avuto mille motivi per lasciare il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. (...)
La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l'uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita. Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro. (...)
Ora, secondo me, il Vangelo, non ci da nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un'invenzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. (...)
Non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all'esperienza spirituale. (...) La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c'è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l'ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che sono invece relative anch'esse. Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura.

una riflessione di Antonietta Potente sulla fedeltà

Preferisco stare sulla porta

di Antonietta Potente



La fedeltà è attesa.
La fedeltà è ricerca, non immobilità. La fedeltà più bella è l’attesa, il continuare a cercare in che modo essere fedeli. Dobbiamo porci queste domande: “Come essere fedeli a un giustizia che non c’è?” “Come essere fedeli a un equilibrio ecologico che non conosciamo davvero?” “Come essere fedeli a una vita che per tante persone è troppo incerta e precaria?” Il nostro mondo ci fa credere di essere in ricerca e invece non è così: l’economia è chiusa, come sono chiuse le leggi economiche. Purtroppo noi siamo convinti della validità assoluta di queste leggi e non lasciamo spazio all’incertezza. La fedeltà è vivere sempre sulla porta, perché gli spazi verso i quali dobbiamo andare sono più vasti di quelli che percorriamo. Incontrare le persone è come stare sulla porta, come è scritto nel Salmo: “Preferisco stare sulla porta della tua casa che abitare nella casa degli arroganti, dei potenti, di quelli che hanno tutto…”. “Preferisco stare sulla porta”, cioè mi basta stare sulla porta, perché la fedeltà è la possibilità di credere all’invisibile, ma per credere all’invisibile si deve dare fiducia agli altri. Le nostre leggi servono solo per difenderci, non per dare fiducia: per questo siamo così lenti nell’attuare la giustizia anche a livello istituzionale e legislativo. Non stiamo sulla porta dell’altro perché ci sembra che dobbiamo subito entrare. Il Mistero è invece stare sulla porta. Sempre. Dobbiamo attuare una vera e propria conversione: dare fiducia a quello che l’altro ha nella sua casa e non entrare subito, ma attendere sulla porta. “Restare sulla porta” non è un atteggiamento passivo, ma un atteggiamento profetico, di persone che stanno sveglie, ma non vivono di possedimenti o eredità. Vivono della fiducia che danno alla vita, anche alla propria.

La fedeltà è presenza.
Un altro aspetto della fedeltà è il tempo. Nel nostro incontro precedente vi invitavo a non abbandonare le situazioni con le quali non siete in armonia, perché le scelte sono vere se allargano gli spazi, non se sono dettate dal desiderio di fuggire. Questo è legato alla familiarità che abbiamo con il tempo: ci riteniamo i suoi veri padroni, lo consideriamo come suddito anche se diciamo che siamo “schiavi” del tempo; in realtà siamo schiavi del tempo perché lo vorremmo gestire. La fedeltà è una riconciliazione con il tempo; il tempo è sempre lento, siamo noi che lo contaminiamo. Non seguiamo umilmente la vita (come dice il profeta Michea), ma siamo convinti di esserne i padroni: padroni del tempo, degli spazi, delle cose. Il tempo ci sembra veloce, probabilmente siamo frustrati e le nostre inquietudini ci spingono a dire “Non ce la facciamo”. Dobbiamo riconciliarci e chiedere perdono al tempo, alle cose, alle persone perché non sappiamo stare presenti. Spesso chiediamo perdono per quello che non abbiamo fatto, ponendo la domanda moralista del giovane ricco: “Che cosa devo fare?”. La prima cosa che dobbiamo fare è essere fedeli, stare presenti. Se pensiamo alle persone che sono state “fedeli” nella nostra vita, pensiamo a coloro che sono presenti o sono stati presenti.

La fedeltà è silenzio.
Dobbiamo essere fedeli e presenti anche nelle situazioni di conflitto, e aggiungo un ingrediente in più: silenziosi e soli. La fedeltà nelle situazioni di conflitto ci permette di fare questa strana esperienza del silenzio e della solitudine, che è bella soprattutto dopo tanto tempo, quando la ripensiamo. I conflitti non si risolvono parlando; sarà perché vengo da un mondo indigeno dove si parla poco, ma ho sperimentato che, se c’è un conflitto, la fedeltà è molto silenziosa. Non si tratta di un silenzio di paura, di intimidazione, ma di attesa; è un silenzio che coincide con lo scorrere lento del tempo, che è sentito come breve, perché è intenso.

giovedì 10 maggio 2007

"Family Day" - editoriale di Enzo Mazi della CdB dell'Isolotto da "il manifesto" di mercoledì 9 maggio 2007

Cercate i Dico nel Vangelo
di Enzo Mazzi

Il Vangelo non marcia nel Family day. I fautori, laici, preti, suore, monsignori, teologi, sono animati da sacro fervore per la famiglia e da sacro furore contro i Dico; ma, per quanto mi risulta da una lunga quotidiana consuetudine col Vangelo, sono lontani dallo spirito e della lettera di quella che dai cristiani viene venerata come Parola di Dio.Il movimento popolare da cui sono nati i Vangeli è di un «radicalismo etico» che oltrepassa e in parte ribalta la cultura e la teologia tradizionali del tempo. «Si trattò all'inizio di un movimento di contestazione culturale e di abbandono delle strutture della società», compresa la struttura familiare (G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, 2004).«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Luca 14,16). Parole forti, da contestualizzare. Ma proprio questo è l'etos di fondo del Vangelo che viene riproposto in molti altri momenti della vicenda di Gesù. «Ecco là fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: E chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Matteo 12,46). Oppure: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione... padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».Lo so che non c'è solo questo. C'è anche la trasformazione dell'acqua in ottimo vino a un banchetto nuziale. Ma la presa di distanza di Gesù dalle strutture della società ebraica del tempo, dal Tempio, dal Sabato e dai legami familiari, resta, vistosa, predominante, talvolta positivamente provocatoria. Anzi è proprio a causa di un tale atteggiamento che fu messo a morte dai difensori delle strutture tradizionali del tempo: vuol distruggere il Tempio, la Legge, e quindi la famiglia, questa l'accusa. Non era vero, voleva purificare, guarire le strutture tradizionali, andare oltre. Come non è vero oggi che nuove forme di convivenza distruggono il matrimonio.Un orizzonte nuovo di valori universali si apre in realtà nel Vangelo col superamento del concetto patriarcale di famiglia: da tale oltrepassamento nasce la comunità cristiana, la nuova famiglia, «senza padre» o meglio con un solo padre «quello che è nei cieli». È questa una intrigante contraddizione per il Family-day. Non voglio dire che per difendere la famiglia tradizionale, «naturale» essi dicono, sarebbero disposti a rifiutare Gesù se tornasse oggi. Ma certo è lontano dallo spirito e dalla stessa lettera del Vangelo questo loro mettere il «sabato», la tradizione, le norme, al di sopra dell'uomo e della donna. È in contrasto col messaggio di Gesù la loro opposizione al riconoscimento pubblico di qualsiasi forma di unione, come quelle previste dai Dico, che non sono affatto contro il matrimonio ma sono basate su valori universali più ampi: la solidarietà, l'amore responsabile, il rispetto dell'altro e dell'altra qualunque sia il loro orientamento sessuale.«Uno dei discepoli gli disse: Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre. Ma Gesù gli rispose: Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti» (Matteo, 8,22). Non viene forse voglia di dire la stessa cosa nei confronti dei fautori del Family day? Morti che seppelliscono morti, da lasciare alla loro intransigenza funeraria.

domenica 6 maggio 2007

Riflessione di dom Demetrio Valentini su Aparecida


Si avvicina la tanto attesa Conferenza generale dell'episopato latinamericano di Aparecida (Brasile). In questo periodo cercheremo di seguirne gli sviluppi.


Riportiamo l'intervento di uno dei 22 delegati della chiesa brasiliana alla V Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano. Mons. Demetrio Valentini, vescovo di Jales, individua le principali sfide della V Conferenza nella ripresa delle grandi intuizioni del Concilio, nel ritorno alla pratica della Chiesa primitiva e nel recupero della forza e dell’originalità del Vangelo di Gesù. (da Adista documenti n. 30 del 21 aprile 2007).






Sulle tracce del Gesù storico


di dom Demétrio Valentini



Introduzione: una Conferenza Generale ad Aparecida

Quando a Santo Domingo, nel suo discorso di apertura, Giovanni Paolo II annunciò l’intenzione di convocare un "Sinodo continentale" per la Chiesa dell’intera America, sembrava che fosse definitivamente terminata la storia delle "Conferenze Generali dell’Episcopato latinoamericano e caraibico". L’impressione era che mai più ci sarebbero state "Conferenze generali", solo "Sinodi continentali". La Chiesa dell’America Latina non sarebbe stata più un soggetto ecclesiale, con iniziative proprie e identità differenziata. (...).
Questa apprensione prese corpo con il Sinodo per l’America realizzato nel 1997, suggerita da uno slogan ripetuto con insistenza: "Una sola America, una sola Chiesa".
A partire dal Sinodo per l’America sembravano svuotate di significato le "Conferenze generali" della Chiesa latinoamericana, tanto che, all’annuncio di questa, alcuni manifestarono sorpresa, perfino contrarietà. In una delle riunioni del "Consiglio post-sinodale" - tuttora operante - del Sinodo per l’America, il cardinale canadese Turcotte espresse la sua opposizione alla proposta di una "Conferenza" di ambito solo latinoamericano, che sembrava contraddire l’accento posto sul Sinodo per l’America.
L’occasione per superare quella che sembrava quasi una fatalità e resuscitare le aspettative venne dall’Assemblea del Celam a Caracas, nel 2001, quando il cardinale Maradiaga propose una nuova Conferenza allo scopo di celebrare il giubileo del Celam. L’ampia adesione di quasi tutti i partecipanti dette consistenza alla proposta che perciò fu portata avanti con la volontà e la speranza di concretizzarla.
La lunghezza della fase di realizzazione denota le difficoltà che il suo cammino ha incontrato. Era necessario uscire dall’improbabile, attraversare il possibile, giungere al raccomandabile e ottenere il parere di Giovanni Paolo II che sembrava aver messo fuori causa la continuità delle "Conferenze" (...).
Tutto il merito va riconosciuto all’attuale presidente del Celam, il card. Errázuriz, che prese l’iniziativa di consultare ufficialmente la Chiesa dell’America Latina e dei Caraibi per sollecitare opinioni e presentarle al papa. 20 Conferenze episcopali su 22 e 18 cardinali su 30 si dichiararono favorevoli alla realizzazione della "Conferenza generale". Appresi questi risultati, il papa, in un pranzo con la Presidenza del Celam, sentenziò: "Voglio quello che la Chiesa latinoamericana vuole". Era il segnale verde (...).
All’inizio si concordò di realizzare la Conferenza a Roma, perché il papa, malato, potesse seguirla da vicino. Ma si aveva come la sensazione che questa disposizione non fosse definitiva. Tanto che, sotto sotto, circolava insistentemente la voce che, se non fosse stata a Roma, la sede della Conferenza sarebbe stata in Ecuador, ma senza che nessuno avesse il coraggio di dire la causa che avrebbe motivato il cambiamento del luogo.
Morto il papa, ovvero realizzatasi la ‘causa’, l’Ecuador perse forza a vantaggio di due altri candidati: il Cile, Paese d’origine del presidente del Celam, e l’Argentina, patria del Segretario del Celam (...).
E poi la sorpresa. Benedetto XVI, ancora in un pranzo con i cardinali rappresentanti dell’America Latina, comunicava la sua decisione: né in Cile, né in Argentina. E andrebbe quasi detto: neppure in Brasile, ma ad Aparecida! (...).
Il papa non motivò la sua scelta. Le ragioni devono essere dedotte. La più evidente è legata, mi sembra, al simbolismo di Aparecida, con tutto il complesso di circostanze che compongono oggi il panorama ecclesiale del santuario di Aparecida (...).
Ma è legittimo chiedersi se Benedetto XVI non avesse anche altre ragioni per scegliere Aparecida, dato che essa è in Brasile. Non è eccessivo immaginare che Benedetto XVI abbia pensato alla Chiesa del Brasile e al suo peso nel contesto attuale dell’America Latina. E anche al valore della sua ricca esperienza ecclesiale, con il suo dinamismo, incentivato dall’intensa opera della Cnbb ma soprattutto assunto, nella base, dal "popolo di Dio", che ha accolto con entusiasmo e creatività gli orientamenti pastorali del Vaticano II e li ha concretizzati nelle innumerevoli "comunità ecclesiali di base", sostenute dalla Parola di Dio e illuminate da una riflessione teologica che ha dato loro consistenza e fondamento.
La decisione di Benedetto XVI è legata pertanto alla Chiesa del Brasile. Anche perché la fondazione del Celam, occasione di questa Conferenza, è avvenuta in Brasile, nella Prima Conferenza Generale nel 1955 (a Rio de Janeiro, ndt). (...).
Sarebbe bene che i vescovi brasiliani si imbevessero della missione di preservare in questa Conferenza i carismi che lo Spirito ha suscitato nel cammino della Chiesa in questi 50 anni di Celam che si intende celebrare.



1. Aspettative di Aparecida


Quello che contraddistingue questa Conferenza rispetto alle altre già realizzate è la forte aspettativa che ha suscitato (...).
Conviene individuare bene da dove nascono queste aspettative.
Forse il primo motivo è nella sorpresa per la realizzazione di questa Conferenza. (...). Un altro, nel suo carattere di giubileo (...). C’è poi un altro versante di aspettative, quello dato dalla percezione che è giunta l’ora per la Chiesa dell’America Latina e dei Caraibi di affrontare una nuova realtà, risultante dalle profonde trasformazioni verificatesi negli ultimi decenni e che hanno avuto grandi ripercussioni, soprattutto ecclesiali. Così, la Conferenza di Aparecida diventa il momento opportuno, per la Chiesa, di riposizionarsi di fronte alla realtà di un continente in profonda trasformazione, la cui identità va rapidamente prescindendo dal suo legame con la Chiesa cattolica, che perciò si mette in discussione e si domanda come fare per continuare ad avere rilevanza storica per un popolo che non si sente più obbligato ad identificarsi con essa (...).
Aparecida risponderà a tante aspettative? Certamente i giorni della Conferenza saranno troppo pochi per tutto questo, e il documento atteso sarà incapace di rispondere a tutte queste aspirazioni. Tanto più importante è allora intendere Aparecida non come un avvenimento isolato, ma come un processo che è già iniziato e che il documento finale dovrà lasciare sicuramente aperto perché sia continuato e approfondito (...).



2. Dall’ottimismo alla crisi: traiettoria degli ultimi 50 anni


Non si può prescindere dalla storia se vogliamo capire adeguatamente gli avvenimenti. Gli ultimi 50 anni, che la Conferenza di Aparecida, per il suo carattere giubilare, deve tener presenti, sono carichi di profonde trasformazioni. È interessante osservare la sequenza degli eventi, che potremmo sintetizzare attraverso i decenni.
Un dato emerge con evidenza e ci aiuta a capire perché la Chiesa si trovi ora in difficoltà: è difficile mettere in pratica le grandi speranze del Concilio. La sua applicazione è in crisi. E perché? Perché il Concilio è stato fatto in un’epoca di grande ottimismo, mentre ha cominciato ad essere applicato in un periodo caratterizzato da un susseguirsi di crisi. (...). Gli anni ’50 e ’60, quando è nato il Celam e si è realizzato il Vaticano II, sono stati i più ottimisti degli ultimi secoli.
La Conferenza di Aparecida è chiamata a riprendere le speranze del Concilio in maniera più realista, più cosciente delle difficoltà, che vanno affrontate con determinazione.
Gli anni ’50 sono stati prodighi di iniziative che seminavano speranze: nel 1952 la nascita in Brasile della Conferenza episcopale; nel 1955 la fondazione del Celam, come frutto della prima Conferenza generale di Rio de Janeiro; nel 1956 la fondazione della Caritas brasiliana; nel gennaio del 1959, l’annuncio da parte di Giovanni XXIII del Concilio, la cui idea fu da tutti subito accettata con entusiasmo. A partire da lì, l’ottimismo e le speranze si sono concentrate nel grande evento del Vaticano II, realizzato negli anni ’60.
Ma non faceva a tempo a terminare il "decennio dell’ot-timismo" che già si presentavano i sintomi delle successive crisi che avrebbero angustiato soprattutto l’Europa e compromesso l’applicazione del Concilio.
Il primo sintomo fu la "rivolta degli studenti" nel 1968 (…). Nello stesso anno in cui la Chiesa dell’America Latina si riuniva a Medellín per accogliere generosamente il Concilio, l’Europa affrontava la crisi della modernità e cominciava a cercare sicurezza nel ritorno a rifugi istituzionali, in un movimento contrario al Concilio, che aveva proposto la riconciliazione della Chiesa con il "mondo moderno".
È importante tenere presenti questi fatti per comprendere le difficoltà di applicazione del Concilio e anche la lontananza del cammino della Chiesa latinoamericana dalle preoccupazioni di Roma, che viveva da vicino la tensione della crisi culturale dell’Europa (...).
Gli anni ’70 hanno conosciuto la "crisi del petrolio", con l’impennata del prezzo del greggio e la nascita dei "petrodollari", che le banche occidentali hanno trasformato in fonte di prestiti facili e abbondanti ai Paesi in via di sviluppo. Questo ha avuto come conseguenza, negli anni ’80, la crisi del debito che ha segnato profondamente i nostri Paesi e che dura ancora oggi. Questo spiega il passaggio dal "capitalismo produttivo" al "capitalismo finanziario", speculativo.
La fine degli anni ’80 ha visto la crisi del socialismo (...). Gli anni ’90 hanno visto giungere la globalizzazione, sotto il comando del neoliberismo, con le privatizzazioni, la fine dello Stato sociale, l’abbandono delle utopie collettive, la deregulation, l’esasperazione del successo individuale e del potere finanziario, l’apertura indiscriminata dei mercati. Veniva con la pretesa di costituire la soluzione definitiva ai problemi dello sviluppo, l’"unica verità" che avrebbe da allora guidato la storia, senza contestazioni.



4. Superamento delle impasse: enorme compito di oggi


Non hanno tardato a manifestarsi le impasse provocate da una globalizzazione escludente e concentratrice: crisi della sostenibilità ecologica; aumento dell’esclusione e della violenza; crisi dei valori etici; perdita di identità culturale e soggettiva; crisi della solidarietà.
(...) Questo il contesto storico nel quale si realizza la quinta Conferenza di Aparecida. Non sono semplici i problemi da affrontare! (...). Il superamento dell’impasse attuale, prodotta nei sotterranei della crisi di civiltà che ora viviamo, non avverrà tanto per modifiche della struttura ecclesiale quanto per il recupero in profondità del Vangelo. Sarà la pratica del Vangelo, aperta a tutti, che avrà la forza di suscitare i cambiamenti adeguati nella vita della Chiesa.
5. Riprendere le grandi intuizioni del Concilio
(...) Il Vaticano II ha avuto una peculiarità che lo distingue da tutti gli altri concili: non è stato convocato per risolvere un problema specifico, ma per iniziativa profetica di un papa in un momento in cui la Chiesa, istituzionalmente, viveva un momento di sicurezza e di tranquillità. Non era necessario un concilio. Forse non era neanche conveniente, come pensavano quelli che volevano mantenere le cose come stavano.
I problemi sono cominciati dopo il Vaticano II, mettendone seriamente a rischio l’applicazione. Così, un concilio che, nelle parole del card. Lercaro, doveva lasciare "le porte aperte" alla novità, ha visto invece chiudere le porte ai cambiamenti più significativi avvenuti nella Chiesa, con il rafforzamento del riflusso conservatore, con l’aumento del timoroso controllo centrale.
Oggi il Vaticano II corre il rischio della sterilizzazione delle sue grandi intuizioni.
Per questo, è compito della Quinta Conferenza riprendere le grandi intuizioni del Concilio come spinta al proseguimento del rinnovamento ecclesiale in America Latina, alla ricerca di un nuovo incontro con le realtà storiche del continente.
Sottolineo in breve alcune di queste intuizioni:


- l’ecclesiologia del Vaticano II, basata sulla visione della Chiesa come popolo di Dio. Questa ecclesiologia implica la valorizzazione dei laici e pone con forza la questione ministeriale, nel suo ampio spettro, dal "ministero petrino" al ministero ordinato, ai ministeri che devono essere presenti nelle comunità;


- la ripresa della "collegialità episcopale" come garanzia dell’unità nella diversità, e come fondamento della concretizzazione della Chiesa in "Chiese locali";


- la valorizzazione delle Conferenze episcopali, incentivando l’esercizio delle loro responsabilità.


- le "Comunità ecclesiali di base" come via pratica ed incarnazione della Chiesa nelle realtà del popolo.


Ma oggi viviamo una realtà segnata da tali trasformazioni che non basta farci guidare dai criteri e dalle indicazioni di un Concilio, per quanto importante sia stato il Vaticano II. È necessario ricorrere all’ispirazione più profonda della Chiesa Primitiva e cercare direttamente le fonti del Vangelo, così come fu annunciato, predicato e vissuto storicamente da Gesù (...).



5. Recuperare la pratica della Chiesa primitiva


In relazione alla Chiesa primitiva, è importante tenere come riferimento gli Atti degli Apostoli, per diverse ragioni. In primo luogo per fare una rilettura della traiettoria che Luca traccia per la Chiesa nelle parole che egli attribuisce a Gesù: "Siate miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea, nella Samaria e fino ai confini del mondo" (Atti 1,8) (...). Roma, per Luca, significava "i confini del mondo" e, finendo con Roma, Luca completava la traiettoria che si era proposto (...). In questo senso, la Roma degli Atti è un riferimento dinamico, un invito permanente a superare frontiere. Non a creare nuovi muri, ma a continuare a piantare la bandiera del Vangelo nel cuore del mondo, nelle circostanze di ogni epoca.
Il libro degli Atti presenta altre due dimensioni molto feconde ed importanti, che devono essere riprese oggi dalla Chiesa, con urgenza:
- l’inculturazione della fede,
- la valorizzazione del Concilio a partire dall’esperienza del "Concilio di Gerusalemme".
Riguardo all’inculturazione, fino ad oggi la Chiesa ha vissuto una sola esperienza profonda e riuscita di inculturazione del Vangelo, quella del suo inserimento nella cultura greco-romana, una realizzazione ecclesiale che continua fino ad oggi (...).
La Chiesa dovrebbe continuare a fare oggi quello che ha fatto nella Chiesa primitiva nel contesto dell’impero romano. Con la stessa forza dello Spirito, nella fedeltà al Vangelo, ma anche nella libertà con cui ha accolto elementi della cultura e della religiosità popolare, in modo da avere Chiese umanamente caratterizzate dalla realtà socio-culturale dei popoli e dei continenti in cui si sono inserite.
La mancanza di questo profondo processo di inculturazione spiega certamente la difficoltà della Chiesa a radicarsi in culture ancestrali quali quelle dell’India, della Cina, del Giappone e di altri Paesi. Ma spiega anche come la Chiesa potrebbe lasciare maggiore libertà alla sua nuova inculturazione negli ambienti segnati oggi dalla modernità e dalla post-modernità, anche qui in America Latina. Per questo, una delle preoccupazioni di Aparecida si manifesta, necessariamente, in termini di nuova inculturazione del Vangelo, con le conseguenze ecclesiali che ciò deve significare.
Ma gli Atti degli Apostoli ci portano un’altra testimonianza, poco avvertita ma importante, soprattutto rispetto alla sfida dell’applicazione del Vaticano II. Gli Atti mostrano quanto fu importante il "Concilio di Gerusalemme" per aprire le porte all’accettazione della fede cristiana fra i pagani, tramite la flessibilizzazione dell’esigenza della circoncisione. Ma mostrano anche come le decisioni del Concilio furono assunte incondizionatamente da tutte le correnti ideologiche della Chiesa, e diventarono parte necessaria dell’agenda ecclesiale. Tanto la "destra conservatrice", rappresentata dalla Chiesa di Gerusalemme, quanto la "sinistra progressista" rappresentata da Paolo e Barnaba, fecero proprie le decisioni del Concilio e si lasciarono guidare da esse (...).
È questo che è mancato al Vaticano II. Ancora prima della sua chiusura, la "destra conservatrice" ha messo in discussione il Concilio e ha dato inizio ad una sistematica opera di boicottaggio della sua applicazione proprio nelle misure che avrebbero favorito oggi una nuova "inculturazione del Vangelo" e fatto sorgere nuove espressioni ecclesiali, più incarnate e più autonome: le conseguenze pratiche della "collegialità episcopale", una visione di Chiesa come "popolo di Dio", la valorizzazione dei laici, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (riconoscendo l’azione dello Spirito anche nelle altre realtà fuori della Chiesa cattolica) e il valore delle realtà terrene e il rispetto per la loro autonomia.



6. Recuperare la forza e l’originalità del Vangelo di Gesù


Il momento che sta vivendo oggi la Chiesa, non solo in America Latina, ma nel mondo intero, richiede uno sforzo cosciente e persistente di recupero del Vangelo di Gesù nella sua integralità, nelle sue grandi ispirazioni e nelle sue conseguenze più radicali. Solo una nuova e profonda identificazione della Chiesa con il Vangelo le darà credibilità e speranza. Come fece S. Francesco, che adottò il Vangelo come regola pratica della sua comunità, la Chiesa deve oggi avere il coraggio di cogliere quanto Gesù ha fatto, e il modo in cui lo ha fatto, per farlo anch'essa, senza domandarsi se questo scandalizza, ferisce sensibilità e, soprattutto, se va contro privilegi stabiliti o contrasta interessi di potere e di dominio.


6.1. La dinamica dell’incarnazione
Prima che da parole, il Vangelo è costituito da fatti fondamentali, il primo dei quali è l’incarnazione del Verbo in Gesù di Nazareth. Il processo di incarnazione continua nella realizzazione della Chiesa di Cristo. Lo Spirito la guida perché essa assuma le realtà del suo tempo e le renda sacramento della presenza di Dio e manifestazione della sua grazia. Così deve fare la Chiesa.
La dimensione dell’incarnazione fonda la realtà e il processo di inculturazione, esprimendo il dinamismo dello Spirito che continua a fecondare la storia, rivelando e facendo accadere l’azione salvifica di Dio.


6.2. Il contesto storico del Vangelo
Ma più ancora che nei fatti, il Vangelo consiste nella reazione di Gesù di fronte ai fatti che hanno intessuto la sua vita e il suo umano relazionarsi. Da qui l’importanza di recuperare la realtà di questi fatti per comprendere meglio come Gesù agiva. Per questo si dice che è fondamentale per la Chiesa di oggi avere come punto di riferimento il "Gesù storico". Non si tratta di un recupero archeologico di circostanze antiche per imitarle oggi artificialmente. Esattamente il contrario. Il riferimento al Gesù storico ci permette di relativizzare le circostanze per valorizzare gli atteggiamenti di Cristo, che costituiscono il suo Vangelo.
Da qui l’importanza di individuare le grandi opzioni di Gesù, le posizioni che meglio manifestano il suo mistero, che meglio rivelano le sue intenzioni e meglio indicano la pratica autentica del suo Vangelo. Quali sono?


6.2.1. La sua mistica
Innanzitutto Gesù fu impregnato di Spirito. Senza lo Spirito, non si capisce Gesù. (…).


6.2.2. La sua chiara opzione per i più deboli, per gli esclusi, per i piccoli, i semplici, i peccatori, i poveri
È importante recuperare la portata di questa opzione di Gesù. Egli avrebbe potuto ricercare persone di potere, di prestigio, di influenza sociale o religiosa. C’erano tutte le condizioni per questo, e dall’età di dodici anni! Ma egli preferì chiaramente "i semplici e i piccoli", e giustificò la sua scelta sentendosi autorizzato dal suo stesso Padre. Pertanto, cercò la giustificazione più profonda e più radicale per la sua "opzione" decisa e cosciente. "Sì, Padre, perché così tu hai voluto", dichiarò esultando per l’accoglienza che gli riservavano i poveri. "Hai nascosto queste cose ai saggi e agli intelligenti e le hai rivelate i piccoli".
Dunque, l’opzione di Gesù per i poveri non fu strategica, non fu di circostanza. Nacque dalla profondità della sua identificazione con il mistero del Padre. Essa è inseparabile dal Vangelo. La porta di ingresso del mistero della salvezza che Dio ha scelto sono i poveri. Attraverso di loro si accede al Regno di Dio.


6.2.3. La valorizzazione dell’"altro", del diverso, dello straniero
Impressiona vedere l’ossessione che Gesù aveva per l’"altro". Tante volte stava sulla riva del lago e insisteva per passare dall’"altra parte". Che diavolo d’ossessione era questa, forse che da questa parte il lago non dava pesce?
Questo atteggiamento di Gesù è profondamente rivelatore del mistero della Trinità e segnala l’urgenza e la necessità di aprirci all’altro e al diverso e a scoprire in lui, nel modo più profondo, la nostra stessa identità. (…). Gesù ci insegna ad attraversare tutte le frontiere e ad aprirci ad orizzonti più ampi!


6.2.4. La trasformazione della mentalità
Gesù si è sempre sforzato di cambiare la mentalità dei suoi discepoli e del suo popolo. (…). L’esempio più tipico è stato il mutamento che Gesù è riuscito ad ottenere nei confronti dei "samaritani", specie di "protestanti" dell’Antico Testamento, mezzo eretici e separati. Per i giudei c’erano solo "cattivi samaritani". Con i suoi atteggiamenti accoglienti nei confronti dei samaritani, Gesù è riuscito a coniare l’idea del "buon samaritano". È stata una trasformazione molto più profonda che mutare l’acqua in vino. (…).
Cosa ci suggerisce questo atteggiamento di Gesù se assunto verso i "samaritani" di oggi? Siamo capaci di trasformarli, e trasformarci, in "buoni samaritani"?


6.2.5. Il duro scontro con gli oppositori del Regno
Anche questo è parte del Vangelo vissuto da Gesù. Egli si scontrò con tutti coloro che sfruttavano i piccoli e li mantenevano schiavi di pregiudizi che impedivano loro di vivere i valori del Regno. Non litigava per delle idee, in difesa di un’ideologia. Egli si schierava a favore dei poveri e a servizio della vita. Non aveva pregiudizi di sorta. Accettò l’ospi-talità della casa di Zaccheo e di Simone, seppe elogiare il fariseo che era "prossimo al Regno". Ma era inflessibile quando i valori del Regno erano contrastati tanto dai farisei quanto dai suoi stessi discepoli. Viveva una coerenza totale (...).


7. Compiti della Quinta Conferenza

Rispetto a questi grandi riferimenti - il Vaticano II, la Chiesa primitiva, il Vangelo del Gesù storico - cosa c’è da attendersi da questa Quinta Conferenza?
Innanzitutto, non aspettarsi troppo! Non possiamo chiedere troppo! Ma, perlomeno, la Conferenza deve dare impulso e seguito ai valori del cammino della Chiesa nel nostro continente e lasciare le porte aperte ad ulteriori passi avanti. Non ci si attende un lungo documento teorico, pieno di insegnamenti. Questi sono già stati dati in abbondanza dalla Chiesa negli ultimi decenni. Il compito di questa Conferenza deve consistere, questo sì, in grandi opzioni strategiche, evangeliche, che lascino la strada aperta ad altri sviluppi. In sintesi, Aparecida è chiamata a recuperare, riaffermare e avanzare.


7.1. Recuperare
- la metodologia tipica della Chiesa latinoamericana, che è stata abbandonata nella Conferenza di Santo Domingo: partire dalla realtà, nella nota dinamica del "vedere, giudicare, agire".
In verità, quello che è in gioco è la prassi di Gesù, che partiva dalla realtà per situare in essa la sua azione, animata dal suo Spirito. Non si tratta, perciò, della forma esteriore o della sequenza del documento della Conferenza. Ma delle sue opzioni, che devono derivare dal seguire la prassi di Gesù. Opzioni quali:
- l’inculturazione del Vangelo (…);
- l’ecclesiologia della Chiesa locale;
- la centralità ecclesiale della collegialità episcopale;
- l’importanza delle Conferenze episcopali;
- la memoria storica del cammino della Chiesa in America Latina e nei Caraibi: l’irruzione dei poveri come soggetti, nella Chiesa e nella società; l’opzione della Chiesa per i poveri; la denuncia delle strutture ingiuste; la teologia liberatrice; le comunità ecclesiali di base; la prossimità dei pastori al popolo; la vita consacrata inserita nelle comunità; i ministeri laici; il risveglio della coscienza degli emarginati (indigeni, afrodiscendenti, donne, giovani).


7.2. Riaffernare
- il primato della Parola di Dio per la vita della Chiesa. Mettere la Bibbia nelle mani del popolo (...);
- la centralità della giustizia e della liberazione dalle ingiustizie;
- la dignità di ogni persona umana;
- il protagonismo dei laici;
- la collegialità episcopale;
- l’importanza della Chiesa locale;
- l’importanza delle comunità di base;
- lo spirito di comunione e di partecipazione;
- la religiosità popolare, come espressione della fede inculturata.


7.3. Avanzare
- porre la Chiesa al servizio del Regno, non a difesa del-l’istituzione o dei suoi privilegi storici;
- accogliere e dare spazio ai poveri, alle vittime del sistema, favorendo la partecipazione degli esclusi nella Chiesa: indigeni, afro, donne;
- vivere la gratuità;
- affrontare con più coraggio la questione ministeriale nella Chiesa, soprattutto per garantire alle comunità l’Euca-restia;
- avanzare nel dialogo ecumenico ed interreligioso, nel rispetto della diversità e della pluralità;
- perfezionare i processi di pastorale organica;
- prestare maggiore attenzione all’ecologia, con il contributo che la Chiesa può dare in questo campo.



8. Risposte da esigere


Pur coscienti che non tutte le aspettative intorno alla Conferenza di Aparecida potranno essere soddisfatte nel-l’immediato o essere contemplate nel documento ufficiale, alcune di esse sono fatte con tale pressante enfasi che la Conferenza non potrà ignorarle.


8.1. Comunità di base
Le comunità concrete delle nostre realtà sociali vogliono innanzitutto veder riconosciuta la loro ecclesialità, con la libertà di vivere il Vangelo, contando sulle risorse della grazia di Dio.


8.2. La questione ministeriale
Questo è uno dei nodi del rinnovamento della Chiesa. Per la sua portata, questo tema va oltre le competenze della Conferenza di Aparecida. Tanto più essa deve sottolineare l’urgenza per la Chiesa di affrontare con coraggio tale questione.

8.3. La donna nella Chiesa
Un punto molto importante che ha bisogno di concreti ed effettivi passi avanti è il riconoscimento della presenza della donna nella Chiesa, del significato ecclesiale e della dimensione ministeriale della sua azione e della sua imprescindibile partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

8.4. La riflessione teologica
Sarà molto significativa una espressione di stima del lavoro dei teologi di fronte alla necessità della Chiesa di poter contare su una riflessione che l’aiuti ad individuare i passi che bisogna compiere in questo nostro tempo.

mercoledì 2 maggio 2007

Appunti sulle ingerenze non più tollerabili

Pubblichiamo gli appunti per una conferenza che un prete di Alessandria ha tenuto nel febbraio del 2007. Si cerca di spiegare le ragioni dell’insistente difesa della famiglia (in opposizione a nuovi modelli di convivenza) analizzando le ragioni della morale cattolica (e il loro influsso sociale e politico) contro quella che l’autore chiama sessualità “espressiva”.
Sessualità “espressiva”
di un prete anonimo
Il punto di partenza.
L’ossessiva difesa della famiglia, e la conseguente opposizione ai Pacs (ora Dico), e più in particolare al riconoscimento delle unioni omosessuali. L’argomento secondo cui l’introduzione di modelli alternativi alla famiglia eterosessuale monogamica ne intaccherebbe l’integrità, mi pare privo di giustificazioni teoriche e di verifiche empiriche.
Ma in radice la rabbiosa aggressività della Chiesa si spiega con il fatto che essa sente intaccata la sua pretesa di definire autoritativamente cos’è la famiglia, cos’è la sessualità, cos’è la natura.

La posta in gioco.
1) Una concezione fissista della natura. È in gioco il concetto di diritto naturale, la pretesa di stabilire che cosa è naturale, e quindi conforme a disegno di Dio (di cui la Chiesa è interprete esclusiva), e che cosa non lo è. Tale pretesa si fonda sulla convinzione di avere il monopolio della Verità, grazie a un filo diretto con Dio, e di poter quindi definire in modo incontrovertibile quali sono i valori «non negoziabili». E quindi di poter stabilire dove comincia la vita, che cosa è la famiglia naturale, qual è la sessualità giusta, ecc.
Questa convinzione di essere in possesso della Verità ha come conseguenze: a) il ritenere di dovere difendere valori assoluti e immutabili (da cui la non negoziabilità); b) la diffidenza verso ogni concezione di tipo evoluzionistico che intacca l’idea di Natura (da cui anche la diffidenza per il sapere scientifico); c) quindi l’ossessiva condanna del relativismo, che ovviamente si annida ovunque non si sia allineati con le asserzioni veritative del magistero ecclesiastico.

2) Il potere (normativo, e non solo) della Chiesa. Se è messa in discussione l’autorità del magistero ecclesiastico in tema di normatività etica, è minato alla base il fondamento del suo potere, quello spirituale esercitato su coscienze infantili ed eterodirette (che è conveniente mantenere tali), e mediatamente quello politico grazie al gregarismo interessato di un ceto politico impreparato e immaturo, talvolta platealmente incoerente quando non in mala fede.
Triste conseguenza di questi presupposti è la sostanziale incompatibilità con il metodo democratico, in quanto intrinsecamente pluralistico, relativistico, evolutivo (come ha ripetutamente e lucidamente illustrato Gustavo Zagrebelsky). Bisogna purtoppo convenire con chi ha scritto che “cattolico democratico” è diventato un ossimoro.

3) Una concezione funzionalistica della sessualità. Per il Magistero cattolico la sessualità ha una funzione eminentemente procreativa, e ciò discende “naturalmente” da leggi inscritte nella natura, fissisticamente intesa e autoritativamente definita. Che poi esista in natura una percentuale – pare neanche tanto piccola – di persone con inclinazioni omosessuali (per non estendere l’osservazione ad altre specie animali, in cui la casistica è singolarmente diversificata) questo non è – contraddittoriamente – naturale, e non va comunque preso in considerazione. Chissà perché l’omosessualità che esiste in natura non è naturale…
Quindi la sessualità è giusta (giustificata) quando è finalizzata alla procreazione. Ogni forma di sessualità con finalità diverse da quella procreativa (che qui chiamerò “espressiva”, con un aggettivo di cui avverto l’inadeguatezza) e con modalità di esercizio tese a impedire la procreatività, è giudicata immorale.

Intendo con “espressiva” una sessualità in cui è affermato il valore intrinseco della relazione (non quindi funzionale ad altro), in quanto espressiva al massimo grado della comunione/comunicazione interpersonale, al suo livello più integrato e profondo.
Ebbene, questa dimensione della sessualità (non negata in assoluto, ma in quanto dissociata dall’intento procreativo) è interdetta anche all’interno del matrimonio; e non rivela il fatto assolutamente comprovato che la prassi comune contravvenga questa indicazione etica: purché non lo si dica.
Ovviamente, a fortiori, è proibito l’esercizio della sessualità extra-matrimoniale, la cui dimensione espressiva, in una fase pre-matrimoniale, potrebbe costituire un importante momento di verifica interna a un percorso di conoscenza e integrazione profonda in un rapporto costruito seriamente. Ma forse si sfoltirebbero i clienti di quella indecorosa istituzione ecclesiastica che è il tribunale della sacra Rota.

Mi pare a questo punto chiaro qual è la radice dell’intransigenza omofobica della Chiesa cattolica. Accettare l’omosessualità equivarrebbe a riconoscere il valore “espressivo” della relazionalità sessuale, legittimare l’eros, superare la differenza per il piacere (il che potrebbe anche implicitamente e insidiosamente svalutare la sofferenza, che in una certa spiritualità cristiana è proposta come un valore (i membri dell’Opus Dei portano il cilicio…).
Accettare l’omosessualità aprirebbe la porta ad accettare il valore della sessualità “espressiva” anche all’interno del matrimonio, ciò che minerebbe la famiglia, cellula nevralgica della società. Questo sarebbe dunque l’argomento forte a difesa della famiglia, e a giustificazione di una opposizione intransigente a ogni forma alternativa di convivenza.

Se il ragionamento che ho esposto ha una certa sua coerenza, per affrontare questa problematica in modo concreto ed efficace, occorre attaccarla ai suoi punti originari, che a me pare siano la concezione fissistica e assolutistica della natura, la pretesa del Magistero di definire autoritativamente valori e naturalità, e in applicazione alla problematica dei modelli di convivenza il diritto di cittadinanza etica della concezione espressiva della sessualità.

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