domenica 27 settembre 2009

Dibattito su Ivan Illich

Vita o una vita?

La pubblicazione su questo blog dell’articolo di risposta a Lucetta Scaraffia sul concetto di vita in Ivan Illich, ha riscosso un certo – qualificato – interesse. Ho ricevuto diverse risposte, anche da parte della Scaraffia, ne pubblico alcune.


Lucetta Scaraffia, interpellata dall’articolo, ha risposto privatamente, ringraziandomi dell’interessamento con cui ho risposto alla sua «provocazione». Ha tenuto a sottolineare, però, che con il suo intervento «non voleva trattare del pensiero di Illich», quanto piuttosto «ragionare a partire dalla sua provocazione», ribadendo la convinzione di un impegno finalizzato alla difesa dell’embrione e dei malati in stato vegetativo permanente.

Fabio Milana, curatore del volume di Ivan Illich, Pervertimento del Cristianesimo, è intervenuto scrivendo quanto segue:
«Non so, non farei un simile fuoco di sbarramento… Se si pone in questione l’intera istituzione-chiesa o l’intero svolgimento (pervertimento) del Cristianesimo storico, si resta sì (più) fedeli a Illich, ma non si apre un dialogo nel contesto specifico, sul tema specifico, con la persona specifica.
Nello specifico, appunto, credo si dovrebbe focalizzare sul concetto sostitutivo non già di ‘vivente’ (che pertiene direttamente a Dio, e poi anche all’animale), ma su quello di persona umana. Che non può essere disincarnato, così da potersene fare un uso arbitrario, totalmente astratto da ciò che è la mia concreta, percepita, elaborata esperienza dell’‘essere persona’. Operare in questo modo significa esattamente ribaltare, pervertire quel concetto. È questo, mi sembra, il punto del pensiero di Illich che resiste alla lettura di Scaraffia, per quanto generosa e intelligente».

Da parte mia, ringrazio la professoressa Scaraffia per la premura con cui ha risposto al mio articolo e per il coraggio che dimostra in una ricerca pronta anche a scompaginare certezze e a proporre nuovi punti di vista. Tuttavia, anche se nel suo articolo non intendeva trattare del pensiero di Illich in quanto tale, mi sembrava opportuno chiarire degli aspetti riguardo a Illich. Ringrazio anche Fabio Milana per le sue preziose puntualizzazioni.
Anch’io sono dell’idea che l’embrione non debba essere controllato e manipolato dagli scienziati, ma tuttavia non credo che si tratti di una vita dotata di «anima razionale» (in questo penso di essere vicino a Illich, discepolo di Tommaso). Penso anche, per la stessa ragione – cioè per il rifiuto del potere esercitato dalla «medicina», con tutto ciò che questo comporta nel nostro mondo diventato «sistema tecnico» (Ellul mi sembra fondamentale) – che sia scandaloso che una persona sia condannata ad una non morte, in un modo tutto determinato dal «progresso», semplicemente e diabolicamente. Ma, se mi fa paura l’eutanasia e l’eugenetica, ho ancora più timore di una società dove non è più concesso morire naturalmente; dove l’idea della morte è stata bandita e la sola parola morte considerata impronunciabile, tabù – nonostante che sia sempre presente nella società, sotto le più svariate forme, e danza intorno a noi travestita degli abiti più sensuali e vitali.
Credo che solo la fede e la carità, vissute nella libertà, possano aiutarci a camminare per i sentieri di questo mondo seguendo la direzione indicata dal Vangelo. (G.G)


Il dibattito prosegue qui.




martedì 15 settembre 2009

Il fraintendimento di Ivan Illich

Quale vita? Non questa.

Note a margine dell’intervento di Lucetta Scaraffia su L’Osservatore Romano

Ogni volta che Ivan Illich1 apriva bocca temeva di essere frainteso. E molte volte il corso delle cose dimostrò che questa sua preoccupazione era fondata (si pensi agli infuocati dibattiti che seguirono la pubblicazione delle sue due opere più famose: Deschooling Society e Medical Nemesis). E così, quando ho letto l’articolo della storica Lucetta Scaraffia, Qual è la vita che difendiamo? (L’Osservatore Romano, 9 settembre 2009), non sono rimasto affatto sorpreso, mi sono semplicemente chiesto: dov’è sta il fraintendimento? Perché di fraintendimento doveva trattarsi o, peggio, di strumentalizzazione.



La Scaraffia prende le mosse dalla lettura di un saggio di Ivan Illich intitolato La vita umana come nuovo feticcio2 in cui l’autore cerca di mettere in guardia dall’utilizzo della parola vita, nuovo idolo di chiese e di bioeticisti, utilizzata per designare l’uomo come «un oggetto che si può manipolare, del quale ci si sente responsabili, che si può gestire», cosa che, dice, è «la perversione più radicale possibile»3. Utilizzare «il termine vita per uno zigote, un ovulo fecondato che dev’essere impiantato nell’utero» è un abuso4. Illich cerca di spiegare che «la ‘vita umana’ è una costruzione sociale recente, una cosa che oggi diamo tanto per scontata da non osare metterla seriamente in discussione». Per questa ragione, propone «che la Chiesa esorcizzi ogni riferimento al nuovo sostantivo ‘vita’ dal proprio discorso»5. Il pensatore si muove verso una demistificazione del termine «vita», che si è trasformato in un idolo proprio grazie ai movimenti per la vita sostenuti dalle chiese cristiane, che è un «feticcio sociale che, da un punto di vista teologico, perverte la Vita rivelata in un idolo»6. Illich dunque attribuisce chiaramente delle responsabilità politiche e teologiche ben precise alle chiese, che in questo modo perdono di vista il messaggio del Vangelo («Io sono la Vita», Gv 19) e pongono le basi di una complicità con l’ideologia dello sviluppo che propone il mito di una salute perfetta e di una vita illimitata.


Non si capisce perché mai la Scaraffia, dalle pagine del giornale della Santa Sede, proponga ai cattolici una lettura di questo genere. Loro, che hanno fatto della difesa della vita una battaglia idolatrica, cercano ora una nuova definizione di vita? Bisogna dare atto alla commentatrice dell’Osservatore che la sua lettura di Illich e la spiegazione che ne dà nella prima parte dell’articolo è rigorosa e riassume con chiarezza il contenuto del saggio, anche se in alcuni punti tende a smorzarne i toni e i riferimenti diretti alla responsabilità della Chiesa. Parafrasando le parole di Illich, la storica cattolica arriva comunque a scrivere: «Le Chiese, utilizzando il loro potere di creare dei miti, nutrono, consacrano e santificano questa nozione astratta di vita umana che non ha nulla a che vedere con la tradizione cristiana. Si permette così a questa identità spettrale di rimpiazzare progressivamente la nozione di ‘persona’».



Tutto procede sin quando, dopo aver citato nella seconda parte dell’articolo anche Foucault e Pichot, la Scaraffia giunge ad una conclusione quantomeno sospetta. Alla fine dell’articolo si legge: «Non sarebbe meglio, allora, invece che di vita in senso astratto, parlare dei problemi delle singole creature – siano essi embrioni o feti, o malati senza speranza di guarigione – e difenderle, occuparsi della loro condizione fragile e delle possibilità di intervenire per proteggerle da tentativi di distruzione?». Se da una parte c’è la buona intenzione, ereditata dalla lettura di Illich, di prendere in considerazione le «singole creature», e non in senso astratto, ecco che dall’altra parte si ricasca nel solito errore: considerare feti ed embrioni come persone, intervenendo per proteggerle dai tentativi di distruzione. Ora, a chi non ha presente l’intero corpo delle opere di Illich, queste parole potrebbero apparire coerenti con la prima parte dell’articolo della Scaraffia. Ma chi, invece, ha una discreta conoscenza degli scritti di Illich, si ritrova subito a storcere il naso e ad avvertire puzza di bruciato. Qualcosa, infatti, non torna.


Non si può leggere un piccolo saggio senza tener conto del contesto e dell’intera opera dell’autore che l’ha scritto. E, sorprende che la Scaraffia, da qualche tempo impegnata a proporre questo pensatore libertario ed ‘eretico’ a certi ambienti della destra cattolica, non conosca le opere fondamentali di Illich, soprattutto Nemesi medica. Per Illich uno dei problemi fondamentali era quello del limite, del pericolo di ignorare i limiti. Egli, in Nemesi medica, descrisse l’espropriazione della salute come diretta conseguenza dell’operare di una classe medica «diventata una grave minaccia per la salute», responsabile di una sempre maggiore medicalizzazione della vita. Si tratta dello stesso processo che ci ha messo di fronte ai vastissimi problemi della cosiddetta bioetica, il problema della fine e dell’inizio della vita. Illich parlava di iatrogenesi (i danni creati dalla medicina) in senso clinico, sociale e culturale; la iatrogenesi culturale «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà»7. Di conseguenza «la società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni [il malato] dovrà morire … L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire»8. Come si vede, Illich non poteva minimamente accettare che fosse la medicina a stabilire, con le sue tecniche e i suoi protocolli, con i suoi respiratori artificiali e i suoi sondini gastrici, quando e come a un uomo era consentito morire. Non poteva accettare che fosse il medico ad avere la completa responsabilità della vita, «da sperma a verme»9.


Non si può nemmeno ignorare quello che fu l’atteggiamento personale e la testimonianza che Illich diede con il suo corpo quando si trattò di affrontare la malattia. Quando alla fine degli anni ’70 fu colpito da una crescita tumorale sul volto, decise di lasciarla stare, senza intervenire chirurgicamente e alleviando il dolore che il tumore gli provocava fumando oppio, ricorrendo all’agopuntura e allo yoga. La decisione di rifiutare ogni trattamento medico contro il tumore che gli comparve sulla guancia, che giunse a diventare grosso come un pompelmo e che lo accompagnò per vent’anni, fino alla sua morte, non deve essere letta come un atto di fondamentalismo o di oscurantismo ma semplicemente come la presa di coscienza che la malattia doveva essere accettata come parte del proprio essere; egli la chiamava: «la mia mortalità».



Stupisce allora che la Scaraffia utilizzi Illich, del quale dovrebbe conoscere le opere, per propagandare una sorta di personalismo dell’embrione e del feto, nonché la «protezione» ad oltranza dei «malati senza speranza di guarigione». Eludendo in tal modo il senso complessivo delle riflessioni del pensatore. Per Illich, infatti, lo scandalo sta nel fatto che la società possa arrivare a creare la possibilità che ci siano «malati senza speranza di guarigione» e non che questi possano, un giorno, morire.


Scrive ancora la Scaraffia: «Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l’amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili». Se queste parole fossero accompagnate dal massimo della coerenza sarebbero parole piene, e cariche di significato. Ma, questa lettura, con ogni probabilità, risente dei problemi di collocazione politica e delle lotte di potere che si stanno consumando dentro i sacri palazzi, mostra come si sia disposti ad ogni gioco e ad ogni strumentalizzazione. Tanto che deve aver creato qualche imbarazzo in Vaticano se si è sentita la necessità di affiancare all’articolo della Scaraffia, forse per tutelarsi, un commento di risposta affidato ad Adriano Pessina (Parole pericolose nel gioco degli equivoci). Così, c’è anche chi ha visto in questo «nuovo approccio» della Scaraffia una mossa politica «assai critica verso la ‘cultura della vita’ dell’epoca Wojtyla-Ruini», segno della nuova linea dell’Osservatore e del suo direttore Vian, e delle strade che si stanno aprendo verso nuove alleanze politiche10.


La Scaraffia, poi, non tiene conto di un altro aspetto fondamentale dell’opera di Illich. Nella lettura che fa, non esplicita quello che per il nostro pensatore è stato un presupposto fondamentale per tutta la sua opera, senza il quale non sarebbe possibile comprendere appieno le sue analisi e la sua critica della modernità. Illich credeva che con il passare dei secoli le pratiche cristiane subirono un «pervertimento»11, un capovolgimento. Ed è da questo rovesciamento del Vangelo, perpetuato ad opera delle istituzioni ecclesiastiche, che trae origine la modernità. Così, «nei discorsi contemporanei su salute, responsabilità per la vita, educazione permanente», Illich ci invita a vedere «non un adempimento della religione cristiana né una sua dimenticanza, ma la sua demoniaca parodia»12. Quello che nelle sue ultime riflessioni chiamò il «pervertimento del cristianesimo» è uno degli aspetti più interessanti della sua opera, come critica alla religione e delle istituzioni. Un tema che, come è facile da comprendere, non potrà mai andare giù a chi tenta di tirare Illich per la giacchetta, facendolo rientrare nel dibattito politico italiano al fine di trovare una mediazione tra le posizioni più intransigenti e quelle più liberali della gerarchia cattolica, in relazione al mondo laico. Addirittura qui – ironia delle sorte – vittima di un «pervertimento» è il pensiero stesso di Illich, la Scaraffia, infatti, arriva ad affermare che «questo [problema] non presenta alcuna somiglianza con le ideologie conflittuali che la Chiesa ha affrontato nella prima fase della secolarizzazione, quando uno Stato nemico tentava di cancellarla: ora si cerca di rendere superfluo il suo ruolo con dei poteri che promuovono l'assistenza, lo sviluppo e la giustizia». Come se la Chiesa, in quanto istituzione, possa considerarsi priva di ogni responsabilità nell’aver congiurato, alleata dello Stato (qualsiasi esso sia), contro la fede cristiana originaria, per un pervertimento del cristianesimo. Si capisce quindi perché, quando uscì il volume di interviste a Illich Pervertimento del Cristianesimo, la stessa Scaraffia, scrivendone la recensione su Avvenire, definì questo titolo «provocatorio» ed «eccessivo» (Illich, domande al cristianesimo, Avvenire, 22 luglio 2008), facendone una questione di forma piuttosto che di contenuto. La Scaraffia, infatti, si guarda bene dal citare il passo dove Illich afferma che «si profila un ruolo nuovo per istituzioni mitopoietiche, moralizzanti, legittimanti, un ruolo che non può essere compreso nella prospettiva delle vecchie religioni, ma che certe chiese si precipitano ad occupare»13.


Illich fu sempre un pensatore fuori da ogni schema, il suo pensiero ancor’oggi si dimostra scomodo sia per i «difensori» che per gli accusatori della fede. Egli, infatti, criticò la religione proprio a partire dalla strumentalizzazione e dalla istituzionalizzazione che ha fatto del Vangelo, trasformando la libertà e la carità in bisogni da soddisfare e in norme da rispettare. Le parole di Ivan Illich, nonostante la polvere degli anni e i vari tentativi, a destra e a manca, di renderle partigiane, restano profetiche e, in tutta la loro libertà, più che mai attuali. «Ci sono persone – scriveva – che si dichiarano ‘per la vita’: alcuni si oppongono all’aborto, altri alla vivisezione, alla pena di morte o alla guerra. I loro antagonisti difendono il diritto di interrompere una gravidanza o una procedura medica di prolungamento della vita … ‘La vita sta lacerando la Chiesa’. E tuttavia nessuno osa opporsi all’uso di questo ameba verbale nei dibattiti pubblici. Meno di ogni altro gli ecclesiastici. Alcuni accendono incensi alla vita. Altri si specializzano nello smercio di pie banalità pseudo bibliche sul ‘valore’ della vita. Mentre la medicina controlla la vita dallo sperma al verme, le chiese hanno acquisito una nuova credibilità sociale inquadrando queste attività mediche nell’apparenza di un discorso etico»14.


G.G.



P.S.: C’è un racconto di Lev Tolstoj intitolato La morte di Ivan Il’ič che, per uno strano gioco del destino, tratta proprio di quella «medicalizzazione della vita» di cui si occupò il nostro Illich. Leonardo Sciascia, accorgendosi di questa comunanza oltre il tempo, quasi come in un racconto di Borges, giunse a proporre che nelle traduzioni italiane del racconto di Tolstoj non si scrivesse più Ivan Il’ič, Ivàn Iljíč o Ivan Ilíč ma, più semplicemente, Ivan Illich15.

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1Ivan Illich (1926-2002), storico e critico della modernità. Prete cattolico, rinunciò all’esercizio pubblico del ministero nel 1969 a causa delle censure ecclesiastiche dovute alla sua attività di oppositore dello «sviluppo», esportato nei paesi poveri come forma più raffinata e pericolosa di colonialismo. Divenne celebre per aver contestato la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (Descolarizzare la società, 1971; La convivialità, 1973; Nemesi medica, 1976). In seguito, fu un acuto studioso delle trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo (Il genere e il sesso, 1982; Nello specchio del passato, 1992; Nella vigna del testo, 1993).

2 Scaraffia cita questo saggio (che in realtà è il testo di un discorso tenuto da Illich ad un incontro della Chiesa evangelica luterana d’America nel 1989) nella sua versione francese, col titolo La construction institutionelle d’un nouveau fétiche: la vie humaine (in Oeuvres complètes, II, Paris 2005); la traduzione italiana si trova in I. Illich, Nello specchio del passato, Milano 2005, pagg. 223-236.

3 Conversarzioni con Ivan Illich. Una archeologo della modernità, a cura di David Cayley, Milano 1994, pagg. 194-195.

4 E aggiunge: «Per questa ragione quando ho tenuto [questo] discorso a un folto gruppo di ministri protestanti degli Stati Uniti, ho cominciato con una bestemmia formale, la bestemmia più forte che ti puoi immaginare, dicendo per tre volte: ‘Al diavolo la vita!’» (Ibidem).

5 Nello specchio del passato, op. cit., pag. 224.

6 Ivi, pag. 231.

7 da Medical Nemesis, cit. in I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Macerata 2009, pag. 252.

8 I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2005, pag. 205.

9 Cfr. I fiumi a nord del futuro, op. cit., pag. 112.

10 Così ha scritto il cattolico ultratradizionalista Antonio Socci in un articolo apparso su Libero l’11 settembre 2009.

11 Si veda a questo proposito Jacques Ellul, La subversion du christianisme, Paris 1984.

12 I fiumi a nord del futuro, op. cit., pag. 287. Si veda a questo proposito anche l’opera Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo chiesa e modernità, Macerata 2008.

13 Nello specchio del passato, op. cit., pag. 229.

14 Ivi, pag. 228.

15 L. Sciascia, Cronachette, in Opere 1971-1983, Milano 2001, pag. 1219.



giovedì 3 settembre 2009

Commento al vangelo di domenica 6 settembre

In attesa che qualcuno ci tocchi


Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!». (Mc 7,31-37)


Per noi, uomini e donne di oggi, un fatto prodigioso come quello che ci viene raccontato in questo brano di Marco è quantomeno difficile da comprendere; immersi come siamo in una società che cerca sempre di dare una spiegazione il più possibile «scientifica» dei fenomeni che ci circondano, non ci accontentiamo più del silenzio di fronte all’inspiegabile, al mistero (dal greco mystérion, da myo, serrare le labbra) inteso come l’insufficienza del linguaggio umano di dare una spiegazione della totalità dei fatti. Non si tratta di credere ai «miracoli» (madonne in lacrime, frati sanguinanti, suore allucinate, ecc) ma piuttosto di lasciarsi stupire, di meravigliarsi ancora di fronte alle cose e agli avvenimenti della vita (miraculum deriva da mirari, meravigliarsi); occorre tornare a scoprire l’autenticità delle cose cercando di riappropriarci della nostra fisicità. Il vangelo, infatti, ci narra di un fatto fisico, talmente fisico che finisce per avere una forte valenza sociale, tanto da essere riconosciuto da tutti.

Le azioni e le parole di Gesù di fronte al sordomuto sono espressione estrema di fisicità: gli tocca le orecchie con le dita, la lingua con la saliva, sospira, parla. E tutto questo avviene «in disparte, lontano dalla folla». Per la cultura del tempo, la sordità e l’afasia erano considerati un castigo; il segno di una colpa commessa, la concretizzazione fisica di un peccato commesso, dall’interessato o dai genitori. Eppure Gesù non teme la contaminazione e, come sempre, tocca; restituendo non solo la parola e l’udito al sordomuto, ma reintegrando nella vita sociale e religiosa un individuo sino ad allora considerato un emarginato.

Si può dire che anche in questi momenti, compiendo questi «segni», Gesù mina alle basi la dimensione sacrale della cultura del suo tempo. Egli, infatti, reintegra nella comunità dei puri qualcuno che ne era stato separato a motivo della sua impurità o del suo rapporto anomalo con il divino. E lo fa con dei gesti, con delle parole, con dei segni che pur nella loro semplicità destano meraviglia, creano stupore. Non fa altro che avvicinare gli uomini e le donne alla vita: questa è la buona notizia che i profeti avevano annunciato e per cui avevano lottato («Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto», Isaia 35,5-6).

La buona notizia, l’evangelo, rompe con lo stato delle cose, con il mondo come siamo abituati ad intenderlo. L’annuncio di Gesù apre nel mondo, nella storia, una spaccatura irrimediabile: squarcia il velo del Tempio, il dominio del sacro. Gesù, uomo autentico, con i suoi gesti ha compiuto questo miracolo: l’unica legge è l’amore. Tuttavia il sacro, che è principalmente una struttura di potere, religioso ma anche politico, si ripropone nel corso della storia continuamente, sotto le forme più diverse e ambigue.

Oggi, abituati come siamo a riporre la nostra fiducia nella Tecnica (internet, auto, cellulari…), viviamo ormai in un mondo artificiale dove le relazioni umane sono mediate dagli oggetti che l’uomo si è costruito e che hanno finito per imprigionarlo, costringendolo in un «mutismo» che, seppur diverso da quello del sordomuto guarito da Gesù, impedisce ogni espressione di autenticità e ostacola ogni scelta inserita in una dimensione umana. Ci troviamo di fronte ad una situazione dove il sacro, lo stesso contro il quale ha lottato Gesù, si ripropone con insistenza anche in luoghi in cui non avremmo mai immaginato, non solo nelle chiese ma negli apparati statali, nelle multinazionali e in ogni struttura di potere che propone una nuova «religione», impedendoci di vivere fraternamente, nella convivialità, in un mondo dove possa esserci armonia tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi: gli animali, le piante. Questa «società tecnica» – come l’ha definita Jacques Ellul – si è rivestita di una sacralità mostruosa, tanto da trasformarsi in un nuovo terribile Moloch che ogni giorno chiede in sacrificio la libertà (Cfr. J.Ellul, Les nouveaux possédés, Paris, Fayard, 1973, p. 259).

In gioco, infatti, è la nostra libertà. Si fa un gran parlare di libertà: questa continua presenza della parola «libertà» sulle nostre bocche è il segno più evidente della mancanza di essa nel nostro mondo. Non sappiamo più, effettivamente, chi prende le decisioni per noi, e la cosiddetta crisi della politica è il segno più evidente di questo smarrimento. In questo tempo di crisi, ci troviamo così impossibilitati a compiere delle scelte, sentiamo tutta la forza e il peso di un vortice fuori da ogni controllo che non sappiamo dove ci porterà. Sappiamo soltanto – e lo vediamo tutti i giorni – che uomini e donne provenienti da paesi lontani in cerca di fortuna nei nostri «paradisi occidentali» vengono respinti, rigettati in un mare mangia-disperati; che donne e uomini liberi di amare vengono picchiati, minacciati, accoltellati perché hanno il coraggio del loro amore; che le donne sono vittime di violenza perché i «maschi» non vogliono che anche loro esistano; che i bisogni che ci hanno fatto credere nostri sono stati creati ad arte e che esaudendoli non si diviene felici; che i giovani non hanno speranza perché non riescono più a guardare l’orizzonte.

Ellul, questo grande critico della società tecnologica e della modernità, nelle ultime pagine del suo ultimo libro (Le bfuff technologique, 1988), annunciava «un enorme disordine mondiale che si manifesterà attraverso ogni contraddizione e smarrimento». Ebbene, forse ci siamo già. Egli si chiedeva: non siamo «immobilizzati, bloccati, incatenati»? Si rispondeva in questo modo: «No, se in realtà, alla fine, conoscendo la limitatezza del nostro margine di manovra, approfittiamo, mai dall’alto e con la forza, ma sempre avendo a modello il modo di farsi strada di una sorgente e attraverso la sola attitudine allo stupore, dell’esistenza frattale di questi spazi di libertà, per instaurarvi una tremolante libertà (ma una libertà effettiva, non concessa, non mediata da strumenti, non politica), inventarvi ciò che potrebbe essere il Nuovo che l’uomo attende» (cit. in J-L Porquet, Jacques Ellul, l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, Jaca Book, Milano 2008, pag. 244).

È di fronte a tutta questa violenza, ad un mondo che non controlliamo più e che ci condanna ad una iniqua precarietà dell’esistenza, che dobbiamo sperare con tutta la nostra forza di essere «toccati»; che un giorno qualcuno si affacci alla nostra porta e ci dica con forza, un po’ in disparte: «Apriti!».



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