domenica 16 dicembre 2007

Predicazione per l’eucaristia comunitaria – Pinerolo 16 dicembre 2007

«Voglio l’amore e non il sacrificio» (Os 6,4-6)

di g.g.


Os 6,4
Che dovrò fare per te, Efraim,
che dovrò fare per te, Giuda?
Il vostro amore è come una nube del mattino,
come la rugiada che all'alba svanisce.

5 Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti,
li ho uccisi con le parole della mia bocca
e il mio giudizio sorge come la luce:

6 poiché voglio l'amore e non il sacrificio,
la conoscenza di Dio più degli olocausti.


Il Dio deluso, il popolo infedele.

Dio è frustrato, è deluso (Cfr. I Sam 10, 22; Es 17,4). Le domande che rivolge al suo popolo sono i quesiti che un padre rivolge ai propri figli nell’ora della preoccupazione, della disperazione, dell’inquietudine di chi non sa più che cosa fare per risollevare la sorte della persona che ama.

Questo profondo sentimento è stato provocato dalla constatazione che l’amore che il popolo d’Israele nutre per Dio è fragile ed è caratterizzato da precarietà e infedeltà: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce» (6,4).

Amore di cui parla Osea, in ebraico hesed (che si traduce anche come «bontà»), è connotato da un forte sentimento di fedeltà che contraddistingue il rapporto tra due parti impegnatesi formalmente l’una verso l’altra tramite un’alleanza. L’hesed è dunque un «patto di amore» tra Dio e il suo popolo.[1]

Questo amore è venuto a mancare: viene a mancare spesso. E continuamente si viene a creare un dinamismo che attraversa tutta la storia della Bibbia, il continuo rinnovarsi della promessa di Abramo da parte di Dio nella storia. Una promessa ricordata ciclicamente agli uomini e alle donne che non riescono a mantenere questo patto di amore.


Non religione ma fedeltà e amore.

Gli israeliti pensano di poter adempiere ai doveri, all’impegno reciproco che questo amore richiede, attraverso la «religione», attraverso la pratica esteriore dei sacrifici e delle oblazioni. Questa concezione esteriore di una religione “poco religiosa” viene subito in contrasto con il sogno di Dio (Os 6,5). Osea mette subito in guardia dalla dicotomia tra religione e vita, tra sacrificio e amore: «Voglio l’amore e non il sacrificio». Questa denuncia, che si ritrova in tutti i profeti dell’VIII sec (cfr. Is 1,10-17; Mi 6,6-8), è la denuncia di chi tiene veramente alla vita. Esistono due tipi di religione, una ansiosa di portare qualche cosa a Dio, l’altra invece che richiede la dedizione totale di qualcuno.[2] Per Amos la distanza che si è venuta a creare tra culto esteriore e vita non è più sostenibile (Am 5,21-24), il Signore arriva a rifiutare tali pratiche esteriori e richiede l’instaurazione del diritto e della giustizia nella vita quotidiana.

Questa tentazione, di creare una spiritualità trionfalistica e distaccata dalla vita, è propria di tutte le istituzioni religiose. La spiritualità non può più sostenere questa dicotomia, deve riavvicinarsi alla vita. Bisogna riappropriarsi di questi concetti vitali, «bisogna uscire dai criteri puramente ideologici, dai pregiudizi. Questi temi sono terribilmente laici: appartengono ai popoli, a tutte le culture, a tutte le persone e i gruppi umani che ancora cercano e che devono affrontare la vita… Questi non sono solo i temi dei credenti, della fede, ma sono i temi storici dove dall’esperienza di fede, dall’appartenenza ad una comunità credente può nascere una certa interpretazione; però non sono temi di proprietà privata di nessuno in questa storia. Probabilmente proprio in questo consiste la difficoltà, perché quando noi li consideriamo di proprietà privata di alcune ideologie e di alcune esperienze religiose già chiudiamo il discorso. […]

Abbiamo paura: un certo tipo di morale, un certo tipo di dottrina ci hanno marcato e segnato con la paura dicendoci che il mistero non si può toccare. Questo si deve anche ad un’ermeneutica unilaterale, perché la teologia è sempre stata fatta da persone con un ruolo particolare nella comunità credente, la “sacerdotalità” della teologia, che ha bisogno di mediatori, non fa parte della spiritualità».[3] Non fa parte dell’hesed.

Occorre rivendicare spazi di libertà, riprendersi la parola che le gerarchie, i funzionari di Dio, i teologi e i sacerdoti di mestiere hanno reso loro patrimonio privato. Se non riusciremo a prenderci questa libertà, se non riusciamo giorno per giorno a ribadirla con forza, senza farci vincere dal sonno e dalla ripetitività, le cose non potranno mai cambiare.

«Essere capaci di credere che “non deve essere per forza così” è già una straordinaria e alquanto inquietante irruzione della fede nel Dio vivente in mezzo alla fissità e alle impossibilità della fede idolatra… “Non deve essere per forza così”, nonostante l’implacabilità di coloro che affermano di parlare in nome di un immutabile ordine divino, è già cominciare a scoprire un modo di essere umani molto al di là di quello che è possibile capire dall’interno del sistema».[4]

Uscire dal sistema significa rigettare la pratica religiosa esteriore, credere che si possa vivere una fede che sia «semplicemente appoggiarsi alla profondità della vita»[5] – come dice la teologa Antonietta Potente.

Gesù figlio di Abramo.

Questi temi vitali li ritroviamo molte volte nei vangeli, e in due episodi diversi Gesù cita Osea: «misericordia voglio e non sacrifici» (Mt 9,12-13; Mt 12,7). Per Gesù questa citazione profetica è sempre viva e verrà usata in polemica con i farisei, con i ben pensanti, con chi di mestiere fa l’uomo di Dio e tratta le cose di Dio come se non fossero cose del popolo, della gente comune, della vita nella sua quotidianità. Per il profeta Gesù di Nazaret queste parole significano concretamente «accogliere i peccatori, i malati, gli indigeni», oggi aggiungeremmo anche i gay, le donne, gli immigrati, i lavoratori precari, e tanti altri che vivono nei sotterranei della storia e che cercano libertà e vita. Il Nazareno «manifesta la reale universalità dell’offerta della salvezza di cui [egli] è portatore»[6].

Gesù sottolinea due atteggiamenti religiosi, due interpretazioni, che sono in contrasto con la vita. Il primo atteggiamento è legato al culto, e in esso si conclude e si ferma la religione, una funzione che non ha vita, che non porta vita, che riduce tutto all’apparenza di un’appartenenza religiosa puramente formale. Il secondo atteggiamento vede nell’adempimento delle norme morali il fine ultimo della religione, si tratta del legalismo che ingabbia nelle sue regole, nei suoi codici di diritto canonico, nei suoi moralismi, la creatività della fede e la libertà della vita. Quando la religione viene prima della fede, quando la si concepisce in termini di frequentazione della chiesa, di generico rispetto della buona creanza e della morale comune, quando si usa il nome di Dio per giustificare le proprie azioni e le leggi di uno Stato, quando diventa puro adempimento di norme; in tal caso, occorre far risuonare la parola di Gesù: «Andate e imparate cosa significhi: amore voglio e non sacrifici».



[1] J. Limburg, I dodici profeti, Claudiana, Torino 2005, pag. 51.

[2] J. Limburg, op. cit., pag. 52.

[3] A. Potente, Appunti per una spiritualità della liberazione, inedito. Testo della conferenza tenuta al Gruppo comunità “nascente” e al Gruppo biblico di Torino il 21/11/2007.

[4] J. Alison, Fede oltre il risentimento, Transeuropa, Ancona-Massa 2007, pag. 77.

[5] Cfr. A. Potente, La fede, Icone, Roma 2006.

[6] Cfr. G. Gutierrez, Condividere la parola, Queriniana, Brescia 1996, pag. 208.

domenica 9 dicembre 2007

Ministeri: che senso hanno oggi?

Sabato 8 e domenica 9 dicembre si è svolto a Tirrenia il collegamento seminariale nazionale delle Comunità cristiane di base italiane sul tema "Fare Comunità - Ministeri/servizi: quali? Come esercitarli?". Pubblichiamo di seguito la relazione introduttiva al convegno delle cdb.

Alcuni pensieri per la nostra ricerca
di Franco Barbero

1) Per me parlare di “servizi - ministeri” dentro la comunità cristiana significa ribadire che il senso della vita sta nel situarsi nel magma vitale della condivisione, fuori dalla cultura e dalla prassi o “signorile” o “schiavizzante”. Vivere in un’ottica e pratica fuori dal dominio e dalla schiavitù come “stile” quotidiano, mondano.
In questo “cantiere” faccio esperienza di Dio e vivo la fede.

2) Sul piano “ecclesiale”, nella strutturazione comunitaria, non abbiamo modelli nei quali rientrare, ma modi da inventare, da tentare, da superare…
Gesù non ha fondato nessuna chiesa, non ci ha lasciato una struttura. Ci ha testimoniato una prassi. Il Secondo Testamento ci documenta struttura molto diverse.

3) Penso più ad una chiesa di base che non alle comunità cristiane di base di cui mi sento parte. Interpreto la realtà delle cdb come parte del più vasto mondo della chiesa di base con realtà e pratiche ministeriali anche molto diverse (parrocchie, centri di spiritualità, gruppi, reti, Noi Siamo Chiesa, attività ecumeniche, preti sposati, gruppi di omosessuali-trans-lesbiche credenti, gruppi casalinghi…). Penso a concezioni ministeriali anche molto diverse in cui “fare comunità” sia più coinvolgimento di amore, di condivisone e di vita più che un pur necessario processo sul piano teoretico.

4) Penso a “chiese provvisorie” che si concepiscano sempre di più inserite nei processi storici e culturali del tempo: stare nel presente, trarre lezioni dal passato, lasciare ad altri/e il futuro.
La ministerialità plurale provvisoria significa, a mio avviso, non una destrutturazione della comunità, ma la capacità di inventare, trasformare, cestinare modalità e forme secondo i bisogni attuali della comunità in vista della testimonianza del Vangelo. Intendo la provvisorietà non come sinonimo di “comunità liquida” alla Baumann. E’ la mobilità itinerante per cui il “gioco comunitario resta vivo” se si individuano i doni di Dio e si tentano “spregiudicatamente” le risposte agli interrogativi e ai bisogni che emergono dentro i tempi del creato. E’ la vita che chiama alla vita e Dio rivolge i Suoi appelli al cambiamento dalle Scritture, dal teatro della storia, dai nostri piccoli percorsi personali e comunitari, dalle relazioni che viviamo.
Chiesa provvisoria è per me anche il segno di una grande libertà e di una non minore responsabilità. Se riprodurre un modello è imprigionate, è pur vero che è più facile. Qui si tratta di esperimentare con saggezza ed audacia in un confronto comunitario impegnativo. Guardare oltre, guardare avanti verso un arcobaleno culturale, ministeriale, ecclesiale molto più variegato con albe e tramonti più veloci.

5) Nella mia esperienza teologica e soprattutto ministeriale ritengo utile porre attenzione alla “pontalità”, cioè ad una dinamica e strutturazione - di cui ho ampiamente scritto in questi ultimi 40 anni - che permetta una riconoscibilità da persone che compiono percorsi diversi. Il ponte è uno strumento che permette il passaggio nelle due direzioni, che intercetta nuovi cammini, spazio di viaggio e di incontro e di scambio. Senza questa “pontalità aperta” la comunità rischia di perdere l’ossigeno della vita e di impoverire l’evangelo. Sono le persone che creano i ponti… se mettono in atto questo dono di Dio di essere “costruttori/costruttrici di ponti”. Questa oggi a me sembra una delle forme più preziose del servizio, del ministero, ma anche una delle “arti” più difficili sia all’interno che all’esterno della comunità per intercettare la vita.
Va da sé che, affinché tutti/e si sentano in cammino ma non imbottigliati/e in unica direzione, servono molte idee, molte pratiche e meno ideologie imbutizzanti e gli altri/e non sono maturi se progressivamente entrano nel mio/nostro raggio di pensiero o di azione.

6) Credo che il bello della nostra esperienza non solo italiana sia l’estrema varietà delle nostre “risposte” lungo il corso di questi anni. Ma nemmeno la libertà e la varietà sono garanzie di fecondità.
Resto personalmente convinto che i fermenti più vivi continuano a nascere un po’ in tutta la chiesa di base, spesso fuori dalle comunità di base “recensite”. Penso al recente documento dei domenicani olandesi.

7) Siccome non sono un abbonato al diluvio o un nostalgico del ’68, penso che viviamo un frammento di storia insieme macabro e sorgivo. Tanto fetore di morte, tanta violenza appestano l’aria che respiriamo, ma dai femminismi, dalle lotte per i diritti dei minori, dai movimenti gay, lesbiche, transessuali, dalle pratiche ecumeniche e dalle lotte per la salvaguardia del creato fino alla svolta ermeneutica… ci sono molte albe che salutano i nuovi giorni. Speriamo di esserci dentro con la nostra fiducia in Dio.

8) OGGI Come gli scritti portati a questo seminario documentano, oggi la comunità vive una articolazione di servizi davvero ricca. Sta agli atti e non lo ripeto. Certo, occorre sempre crescere: eccome!
Quanto a me, vivo il mio servizio di presbitero privilegiando alcuni terreni e spazi. Il maggiore numero di ore è dedicato all’ascolto di persone emarginate dalle istituzioni ecclesiali, molti preti, molti gay e lesbiche, molti/e che vogliono riaprire il capitolo della fede. Al primo posto stanno nelle mie relazioni quotidiane tossicodipendenti, sofferenti mentali, genitori disperati, zingari e vagabondi. La richiesta di dialogo è sterminata.
Svolgo poi un piccolo ministero itinerante in Italia e all’estero per corsi biblici, dialoghi ecumenici, dibattiti e lo lego al mio blog.
In comunità mi occupo specialmente delle persone che sono più marginali e animo 2 gruppi biblici e il gruppo “la scala di Giacobbe”. Cerco di fare in modo che non cresca lo scollamento, a volte molto evidente, tra servizio di direzione e comunità reale.
Cerco progressivamente di favorire la crescita e l’assunzione diretta di responsabilità di un sempre maggior numero di persone. Negli undici gruppi che accompagno in modo stabile, sento che siamo in un terra nuova, più popolata, più giovane rispetto alle comunità cristiane di base in generale. Nel silenzio del servizio quotidiano sento le canzoni dell’aurora, sento che tanti cuori palpitano e che le nostre “anime” guariscono. Un rammarico? Beh… mi sembra che il più bello della vita e del ministero cominci proprio quando si arriva alla vecchia.. e bisogna traslocare tra le braccia di Dio. Mi godo, intanto, questo ultimo intervallo con gli occhi dell’attesa dell’aurora.

Tirrenia, 8 dicembre 2007

venerdì 7 dicembre 2007

In vista del seminario delle cdb

Una chiesa da inventare
di Franco Barbero

Sabato 8 e domenica 9 dicembre si svolge a Tirrenia il collegamento seminariale nazionale delle Comunità cristiane di base italiane sul tema "
Fare Comunità - Ministeri/servizi: quali? Come esercitarli?". Pubblichiamo di seguito uno studio di don Franco Barbero tratto dal volume "Fuori del mondo non c'è salvezza, ed. Qualevita, 1991.


L'esegesi ha ampiamente documentato come i ministri nella letteratura del N.T. non siano dei “sacerdoti” (1). Ma è altrettanto innegabile che già nelle scritture cristiane noi ci troviamo di fronte ad un tentativo di sacerdotalizzare Gesù mediante un «trasferimento postumo e indebito di Gesù nella categoria sacerdotale, con una dimenticanza grave e incomprensibile del Cristo della storia» (2).

Tale “trasferimento” - scrive ancora il biblista cattolico Ortensio da Spinetoli - «è il presupposto per l'instaurazione del sacerdozio cristiano che si conformerà anch'esso a quello giudaico» (Chiesa delle origini chiesa del futuro, Borla, pag. 117). «Nel Nuovo Testamento - per quanto riguarda i ministri della comunità - non si parla ancora mai di sacerdozio cristiano, ma non tarderà a comparire, insieme a tutti i ranghi della gerarchia, compreso il sommo pontificato» (Idem, pag. 118). Insomma, «se nell'A.T. esisteva una classe sacerdotale, deputata istituzionalmente al culto, questa sparisce nel N.T.» (Schede Bibliche Pastorali, a cura di Giuseppe Barbaglio, Vol. VII, pag. 3413, EDB, Bologna 1986). In realtà, anche quando si parla di “sacerdozio” di Cristo e dei cristiani, il Nuovo Testamento usa un linguaggio traslato. Come Gesù viene detto sacerdote non in senso cultuale e istituzionale, ma perché vive al cospetto di Dio la sua esistenza quotidiana e la offre a Lui, così i credenti sono sacerdoti se offrono a Dio la loro vita d'ogni giorno. Non è possibile concepire nessuna separatezza tra sacro e profano, tra persone consacrate e individui “laici”. In ogni modo, non è l'analogia, bensì l'antitesi il senso dell'esatto rapporto tra il sacerdozio dell'A.T. e quello del N.T. Chi volesse approfondire questa originalità di Gesù e del cristiano in chiave biblica, potrebbe leggere con grande profitto il volume di Giuseppe Barbaglio, “La laicità del credente”, Cittadella Editrice, Assisi 1987. Chi poi desiderasse riflettere sulla natura e sullo spessore della novità che Dio ci ha regalato attraverso la persona e l'opera di Gesù, non dimentichi di leggere un aureo libretto di Martin Lutero, scritto poco meno di cinquecento anni fa. Si tratta di “Come si devono istituire i ministri della chiesa”, Editrice Claudiana, Torino 1987.

Gesù non ha fondato una chiesa con strutture precise

Se è urgentissimo desacerdotalizzare Gesù, cioè farlo uscire dai panni sacerdotali dei quali le chiese lo hanno progressivamente rivestito per potersi sacerdotalizzare a loro volta, ciò non è per avversione all'istituzione ecclesiastica, ma per amore verso Gesù stesso e per amore della fede cristiana in cui ci sentiamo coinvolti.

Questa “operazione” che ha ricondotto Gesù nel tempio, tradendo i connotati essenziali della sua esistenza profetica vissuta nella più aperta profanità, in una quotidianità fatta di preghiera e di solidarietà, non ha soltanto tentato di imbavagliare e “normalizzare” Gesù, ma è giunta a fare di lui il fondatore della chiesa, anzi il fondatore di una chiesa di cui avrebbe stabilito un magistero, un sacerdozio, dei sacramenti, un corpo di dottrine.

Se è vero che con le sue parole e la sua azione Gesù, nel corso della sua vita terrena, pose «i fondamenti per la nascita di una chiesa postpasquale » (H. Küng), risulta però sempre più evidente che, nella sua forma concreta e storica, la chiesa si rifà alla decisione degli apostoli, illuminati e sospinti dall'azione di Dio (L. Boff). L'idea che Gesù abbia fondato, nella previsione di un lungo futuro, una chiesa con ben precise strutture, con un magistero dottrinale, con un determinato numero di sacramenti, travisa la realtà storica. «Ci si deve, invece, chiedere e si deve tentare di descrivere come dalla comunità dei discepoli di Gesù sia nata la chiesa» (K.H. Schelkle). Sostenere che un determinato assetto istituzionale e strutturale discenda direttamente dalla volontà “costituente e fondatrice” di Gesù e presentarlo conseguentemente come volontà di Dio, realizzatasi attraverso Gesù, significa mettere tra parentesi tutto un cammino storico ormai ampiamente documentato. Ecco perché è possibile leggere i testi biblici in questione (tra gli altri Matteo 16, 18-19 e Giovanni 21, oltre a Luca 10,16) non come la eco delle precise parole di Gesù, con le quali egli avrebbe inteso fissare un modello canonico, cioè normativo, di chiesa, quanto come una decisione postpasquale dei discepoli, i quali crearono e assunsero quelle forme istituzionali che, lungi dall'essere sacre ed immutabili, sembrarono ai loro occhi il tentativo di tradurre, nelle comunità di allora, anche a livello strutturale, l'istanza normativa del servizio ricevuta da Gesù.

Ma è innegabile che già nel Nuovo Testamento noi troviamo diverse esperienze ecclesiali e diverse ecclesiologie per cui il richiamo al Nuovo Testamento può certamente legittimare forme anche molto diverse di strutturazione ecclesiale.

L'assetto istituzionale della chiesa è e deve rimanere opera delle nostre mani, soggetta ai processi evolutivi di ogni strutturazione “sociale” che sia conforme allo stile di vita di Gesù e al suo insegnamento, tanto più che 1'evangelo è forza critico-creatrice di conversione anche strutturale. «Né le vecchie strutture ecclesiastiche, né le nostre esigenze di riforme strutturali si lasciano fondare direttamente sulla Bibbia; non le potremo quindi nemmeno assolutizzare» (Ed. Schillebeeckx). Non si creda che questa riflessione sia ormai scontata. Vi ho insistito con tanta abbondanza di riferimenti e ritengo necessario fornire ulteriore documentazione sul piano esegetico e sistematico proprio perché ancor oggi l'idea che Gesù abbia fondato una chiesa dotata di precisi tratti istituzionali è più largamente diffusa di quanto si creda. Se non si supera “criticamente” questo modo di vedere, questa “precomprensione” della realtà ecclesiale, diventa estremamente precaria ogni azione di rinnovamento profondo, e tutto rischia di ridursi ad una pratica di cosmesi istituzionale. I rinnovamenti che non partono da solide radici bibliche si riducono poi ad una delle tante “metamorfosi della potenza sacerdotale”.

«II far risalire la chiesa direttamente a misure esplicite di Gesù sarebbe problematico sotto molti aspetti. Come sintomo esterno, sorprende che il termine greco corrispondente, ekklesìa, nei vangeli ricorra solo in Matteo, e anche qui soltanto in due passi. In Matteo 18, 17 si parla di regole di procedimento disciplinare, che si riferiscono chiaramente alla “comunità” postpasquale. L'altro passo, fondamentale, di Matteo 16,18 in cui Gesù promette che edificherà la propria “chiesa” sulla “roccia” Simone, è inserito in un testo che rappresenta chiaramente una composizione redazionale di diversi pezzi della tradizione e quindi rimanda anch'esso ad uno stadio di riflessione postpasquale. Soprattutto però, al di là della trattazione di questo dato linguistico, si può riconoscere che una vera e propria istituzione della chiesa, con condizioni esterne di appartenenza (come, ad esempio, il battesimo) e specialmente con strutture organizzative (come, ad esempio, gli uffici di guida della comunità), non rientrava ancora nelle prospettive di Gesù. La sua predicazione era tutta orientata a interpellare il suo popolo per conquistarlo al proprio messaggio». (Hans Zirker, Ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1987, pag. 49). Lo stesso pensiero viene espresso da W. Trilling, L'annuncio di Gesù, Paideia, Brescia 1986, pag. 68, in questi termini: «Una parola sul detto di Matteo 16, 17-19 sulla istituzione della chiesa. Per lungo tempo il macarismo (=Beato te...) di Pietro, con la promessa del fondamento e dell'esercizio del potere delle chiavi, costituì il punto culminante ed al tempo stesso nevralgico del dibattito interconfessionale. Solo in tempi recenti si è avuto un mutamento da parte cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II. Per questo aumentano le voci che considerano il testo non un detto autentico di Gesù, ma una formazione postpasquale...»

Questo è un fatto degno di nota, non ancora valutabile in sé e per sé e nelle sue conseguenze. Esso non permette più alla teologia cattolica di richiamarsi in senso assoluto e indifferenziato al testo di Matteo per comprovare un'idea gerarchica di chiesa (con un vertice nel papato romano) e di dichiarare la contestazione di autenticità del detto, opinione del protestantesimo liberale. In modo fin troppo chiaro Erich Grasser ha dimostrato come già da tempo «la ricerca critica, ivi inclusa quella cattolica», fosse concorde nel ritenere che Gesù non avrebbe previsto né annunciato uno sviluppo verso la fondazione di una chiesa e verso la missione, e che «i passi relativi nei vangeli sinottici... apparterrebbero ad uno strato tradizionale posteriore, da collocarsi nel periodo postpasquale; nell'esegesi cattolica, dunque, la tendenza in questo senso non può essere ignorata. L'apertura e gli orientamenti propri della discussione

contemporanea non permettono neppure più di rivendicare semplicemente l'autenticità di Matteo 16, 17-19, riconoscendo questo testo come proprio di Gesù, né di fondare, sulla sua base, nell'opera terrena di Gesù, un progetto di istituire una chiesa...».

Non si vogliono per nulla mitizzare o assolutizzare le ricerche citate, ma esse non possono essere ignorate o minimizzate: «Questi dati, che si devono prendere molto sul serio e che contraddicono in maniera fondamentale la tesi dell'istituzione dell'ordinamento gerarchico da parte dì Gesù Cristo stesso e, quindi, colpiscono nel suo nerbo la concezione cattolico-tradizionalista del ministero, continuano a venire semplicemente ignoratí ancora oggi dalla teologia neoscolastica e addirittura repressi dal “magistero” con “dichiarazioni” e qualcosa di più». (H. Küng, Teologia in cammino, Mondadori, pag. 107). Lo stesso teologo cattolico prosegue: «Ma la provocazione fondamentale alla deideologizzazione dei nostri ministeri sta nel disinteresse totale di Gesù per la creazione di un'istituzione come la chiesa e per l'organizzazione dei ministeri. Il Regno di Dio, e non la chiesa, viene promesso nel messaggio di Gesù; a lui preme la volontà di Dio e il bene dell'uomo. La chiesa è una comunità di fede postpasquale e, anche come tale, soltanto qualcosa di provvisorio, un mezzo di aiuto, un luogo... della fraternità e del perdono estesi al mondo intero» (Ivi, pag. 110).

Tra dato biblico e dato dogmatico esiste un divario che, a volte, sembra essere insanabile. Una simile discontinuità non può essere né ignorata né sminuita; probabilmente, se sapremo accettare onestamente questo conflitto, senza occultarlo con interpretazioni armonizzatrici, dovremo mordere le carni della dogmatica tradizionale ed ufficiale su parecchi punti. Hans Küng lo dice con parole esplicite: «La miseria della odierna dogmatica cattolica, ortodossa e anche protestante è rappresentata dall'abisso che la separa dall'esegesi storico-critica» (Teologia in cammino, pag. 98).

Non si creda che, negando la fondazione della chiesa da parte di Gesù, si voglia escludere ogni rapporto tra Gesù e la chiesa. Per nulla! La chiesa ha in Gesù un riferimento necessario, fondamentale, normativo. Tale rapporto è «un atto interno-costitutivo, simile a quello che collega la radice alla pianta» (Carmine di Sante). Gesù è il fondamento della chiesa, ma non ne è il fondatore in forza di un atto esterno-giuridico (3). Nel senso sopra espresso, cioè con la precisa determinazione di strutture e di ministeri, «le comunità postpasquali non erano state né fondate né previste da Gesù... Se per chiesa si intendono le comunità sedentarie con le loro istituzioni, fra Gesù e il cristianesimo primitivo non esiste alcuna continuità sociologica» (G. Theissen, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, pag. 82). Ma non escluderci dall'orizzonte di Gesù la realtà della chiesa, se con essa si intende la cerchia dei testimoni che hanno accolto il messaggio del regno o ad esso si apriranno. Barbaglio esplicita il pensiero sopracitato di Küng e di Carmine di Sante: «Non c'è dubbio che la chiesa vide la luce solo con la fede dei discepoli nella risurrezione di Gesù crocifisso e storicamente si devono tenere

ben distinte la fede prepasquale da quella postpasquale: solo questa caratterizza propriamente i cristiani. Ma non appare senza importanza il fatto che i discepoli storici del nazareno siano i medesimi che hanno dato origine per primi alla chiesa. Questa dunque si ricollega al Gesù storico, non solo al risorto che come tale accetta nella fede... La chiesa si costituisce come gruppo di persone che hanno accolto nella loro vita la parola di Gesù credendo all'irruzione del regno nella storia...» (Gesù di Nazareth e la realtà della chiesa, in Servitium 69/ 1990).

Il fondamento posto da Gesù è come una radice che, per opera di Dio, non cessa di far nascere virgulti. Il nostro essere chiesa oggi non avrebbe senso se non fossimo il tralcio collegato alla vite, se non avessimo coscienza di costruire sul fondamento posto da Dio, cioè Gesù Cristo. Tanto più che, come sperimentiamo ogni giorno, la nostra sequela di Gesù sarebbe probabilmente impossibile se non avessimo il dono di una comunità che crede, prega, cammina con noi. Togliere sacralità alle “strutture” della chiesa non significa affatto deprezzare la realtà della chiesa. né tanto meno incoraggiare ad un individualismo cristiano che rende marginale ed irrilevante il dato comunitario. Su questo terreno non dovrebbero esserci equivoci.

Ogni restaurazione è una sacerdotalizzazione-sacralizzazione

Se noi riprendiamo seriamente contatto con questi dati biblici, siamo più disponibili a rimettere in questione il nostro "immaginario religioso" e il castello dogmatico che abbiamo ereditato dal catechismo dell'infanzia e dalla teologia dogmatica ufficiale. In esso la chiesa era costruita a piramide e la distinzione tra clero e laici era nitidamente tracciata can precise competenze e demarcazioni. E si noti: tutto questo era, nelle sue linee portanti, intangibile ed immutabile perché - si diceva e si continua purtroppo a dire – risaliva a Gesù. Tra l'immaginario che occupò tranquillamente in noi la "sala delle certezze" c'era anche l'idea che Gesù avesse chiamato al suo seguito soltanto uomini maschi. Oggi, da studi che non trovano smentite e che hanno radici solide nella testimonianza evangelica, sappiamo che (4) appartenevano al gruppo di Gesù sia uomini che donne. Abbiamo solo inteso fornire qualche esempio, ma se noi dovessimo rivisitare in lunga e in largo tutto il castello dogmatico

alla luce della testimonianza delle scritture cristiane, avremmo modo di rimettere in questione molte parti del “palazzo”. Qui vogliamo limitarci a tre riflessioni.

a) Ogni volta che la chiesa, a livelli ufficiali, vede crescere la secolarizzazione o constata una crescita di autonomia dei soggetti che potrebbe minacciare il potere della gerarchia, innesta la marcia di una crescente clericalizzazione (rimandiamo ad un eccellente studio di Hervé Legrand su Lumière et vie, n° 167, 1984, pp. 90 - 106).

L'attuale pontefice romano si muove pesantemente in tale direzione, con l'aggravante di una centralizzazione romana via via crescente, come il recente "manifesto di Colonia" ha denunciato. Non avremmo difficoltà a documentare tale affermazione, ma ci limitiamo a citare il Direttorio "Christi Ecclesia" per le celebrazioni domenicali in assenza del presbitero, promulgato in data 2 giugno 1988 dalla Congregazione per il Culto Divino. Tale documento stabilisce e sottolinea, in modo incredibilmente ossessivo, la differenza che deve essere ben visibile tra la presidenza del ministro ordinato e il servizio del laico che guida una assemblea. I paragrafi 35-48 forniscono uno specchio i questa mentalità che sacralizza, separa e distingue il sacerdote dal laico: «II laico che guida i presenti si comporta come uno tra uguali... Non deve usare le parole riservate al presbitero o al diacono... Non deve usare la sede presidenziale, ma venga piuttosto preparata un'altra sede fuori del presbiterio».

b) Paradossalmente (ma nemmeno troppo, per chi conosce le ginniche evoluzioni dei poteri ecclesiastici) mai come oggi si è parlato e scritto tanto sul laicato, sulla teologia del laicato, ma tale linguaggio riconferma la vecchia divisione all'interno del popolo di Dio e, nonostante i recenti tentativi, sinceri e generosi, di ripensare il rapporto, molti elementi fanno pensare ad una crescente clericalizzazione del "laicato" (5).

c) Respingere la tradizionale divisione tra "clero" e "laici" non significa diminuire l'importanza del ministero nella chiesa. Una chiesa senza ministri è un'utopia destinata a non trovare spazio nella realtà. Molte comunità di base farebbero bene a ricordarselo. Ma è possibile che le comunità si diano dei ministri, uomini e donne, che non siano un clero, una casta sacerdotale. Gli arrangiamenti al margine del sistema non servono che a coltivare affascinanti illusioni. Il compromesso delle formule, presente nei testi conciliari, ha semplicemente rimandato ad altri tempi la soluzione dei nodi. Del resto, con triste stupore, notiamo che parecchi preti sposati riducono la loro “battaglia” a poco più che essere “reintegrati” a pieno titolo nelle loro funzioni sacerdotali, senza quasi avvertire la esigenza di ripensare radicalmente l'intera ecclesiologia. Il superamento della casta non avviene con qualche generosa `concessione' ai laici, ma ritrovando, ci sembra, il coraggio di una nuova obbedienza alla Parola di Dio. Finché la chiesa resterà una “societas inaequalis”, come potremo testimoniare al mondo la fraternità che abbatte le barriere fabbricate dai poteri mondani ed ecclesiastici? E se dovessimo, per ritrovare il senso genuino del ministero superare la concezione gerarchica? Forse non ci è richiesto nulla di meno.

Due vicoli ciechi

Se da una parte il recente sinodo dei vescovi ha riconfermato tutte le posizioni teologiche e disciplinari del passato apportando ad esse ritocchi puramente marginali, dall'altra è doloroso constatare come i cristiani di base (specialmente le comunità cristiane di base) non siano stati in grado in questi lunghi anni di “creare” una reale e nuova ministerialità. Probabilmente, anche a causa di questa “invisibilità” ministeriale, si è dileguata la visibilità comunitaria e l'esperienza, in molti casi, si è sciolta o è rifluita nel binario tradizionale.

Il ministero resta uno dei nodi da affrontare e, spesso, un vuoto da colmare proprio tra quei cristiani che hanno intuito l'esigenza del nuovo ed hanno maturato una nuova coscienza teologica. Non si può vivere di sole intuizioni.

Quando scrivo "una chiesa da inventare" non intendo dire che nel passato tutto è terra bruciata o tabula rasa. Per nulla! Il passato contiene montagne di tesori che noi spesso ignoriamo o non sappiamo utilizzare per il nostro tempo. Non voglio nemmeno esprimere un deprezzamento per tutto ciò che di prezioso e di evangelico fiorisce oggi sotto tutti i soli. Voglio piuttosto segnalare l'urgenza e la necessità di stimolare la creatività perché troppo spesso siamo assediati dalle teologie del passato o dalle frenesie del presente che sono piene di ripetitività camuffata e di sostanziale monotonia.

Siamo capaci di scommettere per una profonda novità evangelica?

Invito caldamente il lettore a confrontarsi seriamente con il recente volume, edito dalla Queriniana, intitolato “La controversia sui chierici”. Solo il potere e la paura mantengono la divisione tra clero e laici. Questo muro, come quello di Berlino va distrutto, demolito.

NOTE

(1) La bibliografia è enorme. Ricordiamo soltanto J. Von Allmen, Vocabolario Biblico, A.V.E., Roma 1975; G. Barbaglio, Schede Bibliche Pastorali, Vol. settimo, EDB, Bologna 1986; Ortensio da Spinetoli, Chiesa delle origini chiesa del futuro, Boria 1986; AA.VV., Oltre la confessione, TDF, Torino 1988; Hans Zirker, Ecclesiologia, gueriniana, Brescia 1987.

(2) Ortensio da Spinetoli, ivi, pag. 117. Si tratta di un'opera di solidità esegetica e spirituale davvero notevole.

(3) Carmine di Sante, L'eucarestia terra di benedizione, EDB, Bologna 1987, pag. 146. Si tratta di un volume prezioso e utilissimo, specialmente sul piano degli studi cristologici per superare certe ricorrenti confusioni e fusioni tra Dio e Gesù.

(4) Elisabeth Schüssler Fiorenza. In memoria di lei, Claudiana, Torino 1990.

(5) Ci riferiamo espressamente alla elaborazione ricca ed originale del teologo Bruno Forte che, dietro una vera e propria rivoluzione delle parole, lascia completamente intatto il quadro tradizionale a livello strutturale e dogmatico.

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