venerdì 27 febbraio 2009

Commento al vangelo di domenica 1 marzo

Cambiare mente

Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo».
(Marco 1,12-15)

Banksy, murale realizzato sul Muro tra Israele e Palestina, 2005


Nel deserto

Il primo capitolo del Vangelo di Marco comincia con la preparazione della missione pubblica di Gesù. Dopo il battesimo, che rappresenta l’abilitazione carismatica alla sua missione (e probabilmente quello che storicamente fu l’ingresso nella comunità dei discepoli di Giovanni il Battista), Gesù viene «spinto nel deserto dallo Spirito».
Il periodo trascorso nel deserto, dove il Nazareno «rimase quaranta giorni, tentato da satana», indica un momento nel quale Gesù maturò la convinzione e la necessità di un nuovo annuncio. Una maturazione che lo portò a staccarsi dal gruppo dei discepoli di Giovanni. «L’esperienza del deserto, i contatti con Giovanni [...] possono ritenersi determinanti per la decisione che Gesù doveva prendere. Innanzitutto anch’egli [come Giovanni] si rendeva maggiormente persuaso che la storia della salvezza era a una svolta; il ‘giudizio’ di cui parlava Giovanni e la ‘nuova alleanza’ prevista dai monaci esseni non faceva che confermarlo. Il rinnovamento radicale [...] atteso dai profeti si poteva ritenere davvero imminente» (O. da Spinetoli, Gesù di Nazaret, Molfetta 2005, pag. 45).
Quello passato nel deserto, dunque, non è un tempo (kronos) trascorso realmente, ma uno stato esistenziale, un tempo di ricerca, di prova e di verifica. Un «luogo» dove Gesù matura una scelta, una convinzione nuova, che lo porterà alla missione pubblica. Così l’evangelista del Vangelo di Marco utilizza una tipologia narrativa che si ritrova molte volte nelle Scritture ebraiche e che ha un significato di facile identificazione all’interno della tradizione ebraica: ritirarsi nel deserto, in un luogo appartato, per maturare una decisione importante, per prepararsi ad una missione per conto di Dio. Marco intende comunicare questo tempo di prova, descrivendo ai suoi interlocutori la permanenza di Gesù in un «luogo», il deserto, in cui avviene la maturazione umana e spirituale che ha portato Gesù ad iniziare la sua missione nei villaggi della Galilea.
«Il ‘tempo’, a detta di Marco, era ‘compiuto’ (1,15). L’espressione che l’evangelista pone in bocca a Gesù, quale tema della sua prima predicazione, riassume questa sua profonda convinzione che coincide con quella dei vicini interlocutori. Tutti erano proiettati verso la grande speranza a cui Israele aveva sempre guardato e che si affacciava agli uomini della presente generazione» (Ibidem).


Il tempo è compiuto

Dopo l’arresto di Giovanni, Gesù inizia la sua predicazione. L’arresto di Giovanni è un fatto sconvolgente per Gesù. La sorte del Battista – e Marco vuole indicarlo ai suoi lettori – presagisce la stessa sorte che toccherà al profeta di Nazaret, anch’egli infatti sarà «consegnato».
Non sappiamo se fu davvero l’arresto di Giovanni a spingere Gesù ad uscire allo scoperto, e a raccogliere personalmente il messaggio di conversione predicato da Giovanni. Senz’altro Gesù fu spinto da questo messaggio di cambiamento, lo fece suo e gli diede un carattere di radicalità particolare, sentendo il bisogno di annunciarlo a tutti.
Gesù sceglie la Galilea come luogo del suo annuncio: non la Giudea di chi andava devotamente a farsi battezzare da Giovanni, ma la «Galilea delle genti», la terra dei pagani e di coloro che avevano una fede dubbia, in fondo la sua terra. Il Galileo sente il bisogno di andare dalla parte dei peccatori.
E Gesù comincia a predicare la buona novella di Dio, l’evangelo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo». Il tempo è compiuto: si aspetta un evento risolutivo dell’ordine esistente, una nuova creazione (una palingenesi), in cui Dio avrebbe instaurato il suo regno, la sua signoria sul mondo. Questo necessita di una conversione (un metànoia), un cambiamento della mente e della vita. Per Gesù, questa convinzione diventa lo scopo primario della sua missione. Non è più necessario purificarsi dai propri peccati attraverso un battesimo nel fiume Giordano, come proponeva Giovanni, ora occorre rendersi conto che «il tempo è compiuto» e che bisogna «cambiare mente». Occorre entrare in una nuova dimensione, una dimensione radicale che investe tutta la vita.
Per questa missione Gesù si adopera e viaggia per le strade della Palestina, passa nei villaggi, incontra la gente. Gesù non passa per le grandi città del tempo, non tocca i grandi centri ma si concentra sui piccoli villaggi di pescatori e di gente semplice.
Gesù e i suoi discepoli sono sempre in cammino, sulla strada, per incontrare le persone e per muoversi nel loro ambiente di vita. Il Nazareno, dunque, non è all’interno di una istituzione, e questo non gli fornisce nessuna garanzia, nessuna credenziale particolare nei confronti della gente che lo ascolta. «Egli va considerato come un predicatore marginale, cioè privo di autorità riconosciuta, non legittimato dai poteri istituzionali, senza credenziali. Poteva trovare un riconoscimento solo attraverso la reazione diretta della gente. In alcuni suscitava attrazione, speranza di poter raggiungere, mediante lui, le proprie aspirazioni. In altri provocava, come abbiamo visto, interesse, dubbio o sospetto. In altri, infine, opposizione anche mortale». Un predicatore marginale che si faceva portatore di un grande sogno: «Gesù non promette solo emancipazione dal bisogno o egalitarismo. Promette una nuova era» (A. Destro, M. Pesce, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Milano, 2008, p. 98-99).


Un sogno

Per Gesù il sogno era rappresentato dal regno di Dio, un regno di giustizia, pace, amore. Per realizzare e per accogliere questo sogno occorreva «cambiare mente», mutare profondamente la propria vita accogliendola nella sua umanità, nella sua vitalità.
Il sogno di Gesù è stato il sogno di tanti uomini e di tante donne che hanno lottato nel corso della storia per la liberazione. Ed è il sogno che ancora oggi, uomini e donne, nonostante lo scoraggiamento e le difficoltà di una situazione globale iniqua, che sempre più sembra precipitare, continuano a sognare durante le loro veglie notturne. Continuiamo ad alimentare questo sogno, per unirci a coloro che lo hanno fatto proprio nella storia, nella loro vita.

«Oggi vi dico, amici, non indugiamo nella valle della disperazione, anche di fronte alle difficoltà dell'oggi e di domani, ho ancora un sogno [...]. Sogno che un giorno ogni valle sarà ricolmata, ogni collina e ogni montagna si abbasserà, i luoghi impervi diverranno piani e quelli tortuosi si raddrizzeranno e la gloria del Signore verrà rivelata, e tutti gli uomini la vedranno insieme. Io sogno che un giorno la nazione sorgerà a vivere il vero significato del suo credo, che tutti sono creati uguali. Sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia figli di antichi schiavi e figli di antichi schiavisti potranno sedere insieme alla tavola della fratellanza. Sogno che un giorno l’Alabama sia trasformato in uno stato dove bambine e bambini negri potranno dare la mano a bambini e bambine bianche, e camminare insieme come fratelli e sorelle. Sogno che i miei quattro figli vivranno un giorno in una nazione in cui non saranno giudicati dal colore della pelle ma dal contenuto del loro carattere. Con questa fede staccheremo dalla montagna dell’angoscia una scaglia di speranza, con questa fede potremo lavorare insieme, cercare insieme la libertà, andare in prigione insieme, sapendo che un giorno saremo liberi. Questo avverrà il giorno in cui tutti i figli di Dio saranno capaci di cantare con un nuovo significato ‘possa risuonare la libertà’.[…] Questo avverrà quando tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, saranno capaci di prendersi per mano e cantare quell’antico spiritual degli schiavi negri: ‘Finalmente liberi! Finalmente liberi! Grazie a Dio onnipotente, siamo finalmente liberi!’»

(Martin Luther King, dal discorso della marcia su Washington, 28 agosto 1963)

giovedì 26 febbraio 2009

Intervista a Hans Kung

Questa Chiesa diventerà una setta

(da La Stampa del 25 febbraio 2009)


Alto e magro, con il volto glabro e il ciuffo ribelle, Hans Küng, considerato il massimo teologo cattolico dissidente vivente, riceve nel suo studio di Tubinga dai muri tappezzati di libri, dove i suoi - tradotti in tutte le lingue - occupano il posto d’onore.

Professore, come giudica la decisione del Papa di togliere la scomunica ai quattro vescovi integralisti di monsignor Lefebvre, uno dei quali, Richard Williamson, è un negazionista?

«Non ne sono rimasto sorpreso. Già nel 1977, in una intervista a un giornale italiano, Monsignor Lefebvre diceva che “alcuni cardinali sostengono il mio corso” e che “il nuovo cardinal Ratzinger ha promesso si intervenire presso il Papa per trovare una soluzione”. Questo dimostra che la questione non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto con queste persone. Oggi toglie loro la scomunica, perché ritiene che sia il momento giusto per farlo. Ha pensato di poter trovare una formula per reintegrare gli scismatici i quali, pur conservando le loro convinzioni personali, avrebbero potuto dare l’impressione di essere d’accordo con il concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato».

Come spiega il fatto che il Papa non abbia misurato la dimensione della protesta che la sua decisione avrebbe suscitato, anche al di là dei discorsi negazionisti di Richard Williamson?

«La revoca delle scomuniche non è stato un errore di comunicazione o di tattica, ma un errore del governo del Vaticano. Anche se il Papa non era a conoscenza dei discorsi negazionisti di monsignor Williamson e lui personalmente non è antisemita, tutti sanno che quei quattro vescovi lo sono. In questa faccenda il problema fondamentale è l’opposizione al Vaticano II, in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l’ebraismo. Un Papa tedesco avrebbe dovuto considerare centrale questo punto e mostrarsi senza ambiguità nei confronti dell’Olocausto. Invece non ha valutato bene il pericolo. Contrariamente alla cancelliera Merkel, che ha prontamente reagito.Benedetto XVI è sempre vissuto in un ambiente ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. E’ sempre rimasto chiuso in Vaticano - che è assai simile al Cremlino d’un tempo -, dove è al riparo dalle critiche. All’improvviso, non è stato capace di capire l’impatto nel mondo di una decisione del genere. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contropotere, era un suo subordinato alla Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, completamente sottomesso a Benedetto XVI. Ci troviamo di fronte a un problema di struttura. Non c’è nessun elemento democratico in questo sistema, nessuna correzione. Il Papa è stato eletto dai conservatori e oggi è lui che nomina i conservatori».

In che misura si può dire che il Papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?

«A modo suo è fedele al Concilio. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la “tradizione”. Per lui questa tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, ad esempio sul riconoscimento della libertà religiosa, combattuta da tutti i papi vissuti prima del Concilio». L’idea di fondo di Benedetto XVI è che il Concilio vada accolto, ma anche interpretato: forse non al modo dei lefebvriani, ma in ogni caso nel rispetto della tradizione e in modo restrittivo. Per esempio è sempre stato critico sulla liturgia. E ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, perché non si trova a suo agio con la modernità e la riforma, mentre il Vaticano II ha rappresentato l’integrazione nella Chiesa cattolica del paradigma della riforma e della modernità. Monsignor Lefebvre non l’ha mai accettato, e nemmeno i suoi amici in Curia. Sotto questo aspetto Benedetto XVI ha una certa simpatia per monsignor Lefebvre. D’altra parte trovo scandaloso che, per i 50 anni dal lancio del Concilio da parte di Giovanni XXIV, nel gennaio 1959, il Papa non abbia fatto l’elogio del suo predecessore, ma abbia scelto di togliere la scomunica a persone che si erano opposte a questo concilio».

Che Chiesa lascerà questo Papa ai suoi successori?

«Penso che difenda l’idea del “piccolo gregge”. È un po’ la linea degli integralisti: pochi fedeli e una Chiesa elitaria, formata da “veri” cattolici. È un’illusione pensare che si possa continuare così, senza preti né vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente una restaurazione, che si manifesta nella liturgia, ma anche in atti e gesti, come dire ai protestanti che la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa».

La Chiesa cattolica è in pericolo?

«La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo Papa. È molto doloroso».

Lei ha scritto: «Com’è possibile che un teorico dotato, amabile e aperto come Joseph Ratzinger abbia potuto cambiare fino a questo punto e diventare il Grande Inquisitore romano?». Allora, com’è possibile?

«Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia resuscitato il suo passato. Ratzinger era un conservatore. Durante il Concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il ‘68, è tornato a posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino a oggi».

Lei pensa che possa ancora correggere questa evoluzione?

«Quando mi ha ricevuto, nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e io ho veramente creduto che avrebbe trovato la via per le riforme, anche se lente. In quattro anni, invece, ha dimostrato il contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualcosa di coraggioso. Tanto per cominciare, dovrebbe riconoscere che la Chiesa cattolica attraversa una crisi profonda. Poi potrebbe fare un gesto verso i divorziati e dire che, a certe condizioni, possono essere ammessi alla comunione. Potrebbe correggere l’enciclica Humanae vitae, che nel 1968 ha condannato tutte le forme di contraccezione, dicendo che in certi casi l’uso della pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua teologia, che data dal Concilio di Nizza (325). Potrebbe dire: “Abolisco la legge del celibato”. È molto più potente del Presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto a una Corte Suprema! Potrebbe anche convocare un nuovo Concilio».

Un Vaticano III?

«Permetterebbe di regolare alcune questioni rimaste in sospeso, come il celibato dei preti e la limitazione delle nascite. Si dovrebbe prevedere un modo nuovo per eleggere i vescovi, che contempli il coinvolgimento anche del popolo. L’attuale crisi ha suscitato un movimento di resistenza. Molti fedeli si rifiutano di tornare al vecchio sistema. Anche alcuni vescovi sono stati costretti a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo».La sua riabilitazione potrebbe far parte di questi gesti forti?«In ogni caso sarebbe un gesto ben più facile del reintegro degli scismatici! Ma non credo che lo farà, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno lavorato al Concilio e l’hanno accettato».


(Copyright Le Monde - a cura di N. Bourcier e S. Le Bars)



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