sabato 24 gennaio 2009

Il ritiro della scomunica contro i lefebvriani

La comunione secondo Ratzinger

Ciò che fu iniziato con il Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007 è stato portato a compimento. Il 21 gennaio è stata revocata la scomunica contro i vescovi ultra-tradizionalisti ordinati da mons. Marcel Lefebvre il 30 giugno 1988.

Con questo atto, a cui si è giunti grazie al lavoro della Commissione Ecclesia Dei, la Chiesa di Roma ricompone lo scisma con i lefebvriani, rappresentati da mons. Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità Sacerdotale di San Pio X.

C’era da aspettarselo. Il cammino iniziato con il Motu Proprio di Benedetto XVI, che ha consentito la liberalizzazione della messa secondo il rito preconciliare di Pio V, non poteva che portare a questo provvedimento.

Nel decreto di ritiro della scomunica si sottollinea come il papa si è dimostrato «paternamente sensibile al disagio spirituale manifestato dagli interessati … e fiducioso nell'impegno da loro espresso nella citata lettera (inviata da Fellay il 15 dicembre 2008 al card. Dario Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ndr) di non risparmiare alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con le autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte». Insomma, il papa, in cambio dell’obbedienza, ha concesso il rientro dei vescovi scismatici sulla base di una dichiarazione di intenti in cui si dicono obbedienti all’autorità del papa.

Obbedienti su tutto, tranne sul Concilio Vaticano II. In una lettera indirizzata alla sua comunità, mons. Fellay ribadisce ciò che da sempre si sapeva: «accettiamo e facciamo nostri tutti i concili fino al Concilio Vaticano II, sul quale esprimiamo delle riserve» (in particolare sulla libertà religiosa, la liturgia, i rapporti con i mondo ebraico, ecc) e aggiunge che la Fraternità è «convinta di rimanere fedele alla linea di condotta indicata dal nostro fondatore, mons. Marcel Lefebvre, la cui reputazione speriamo di vedere presto riabilitata».

Al di là delle polemiche di questi giorni sulle posizioni antisemite di uno di questi vescovi rientrati grazie a Ratzinger (Richard Williamson) che lasciano il tempo che trovano – ma che nello stesso tempo dimostrano le idee ultra-tradizionaliste dei lefebvriani, molto vicine all'estrema destra – questo provvedimento dimostra la deriva integralista del pontificato di Ratzinger, evidentissima anche agli occhi dei più moderati.

È un fatto che la «paterna sensibilità» del romano pontefice si dimostri, ormai, soltanto nei confronti di alcuni e non nei confronti dei numerosi teologi inquisiti, scomunicati e sospesi che, negli anni in cui Ratzinger era a capo del Sant’Uffizio - ma anche ora da papa, - non ha esitato a condannare e a perseguitare, ultimo esempio è stato il teologo gesuita Roger Haight. È dunque ormai chiaro che, mentre alcuni «scismatici ed eretici» possono essere tranquillamente (e opportunamente) riaccolti, altri vanno perseguitati e allontanati al più presto.



Vincono i reazionari,
progressisti schiacciati


di don Vitaliano della Sala (da il manifesto, 25 gennaio 2009)

Che il Papa abbia accolto la richiesta formulata da mons. Bernard Fellay, Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, di rimettere la scomunica in cui erano incorsi i 4 vescovi lefebvriani ordinati illecitamente nel 1988 è, di per sé, una bella notizia, a prescindere dall'essere d'accordo o meno con i seguaci di mons. Marcel Lefebvre. Inutile dire che il sottoscritto non condivide molto con questo gruppo tradizionalista.

L'esclusione ha tracciato lungo la storia della Chiesa una scia rossa di sangue e di dolore, mentre si sente sempre più il bisogno di una Chiesa che, come diceva don Tonino Bello, il compianto vescovo di Pax Christi, deve essere capace di realizzare anche al suo interno una «convivialità delle differenze» tra chi la pensa in modo diverso, fatte salve le Verità di fede: solo in una logica dell'inclusività è l'avvenire anche della Chiesa.

Riflettere sul tema dell'esclusione nella Chiesa, mi ha fatto ricordare la parabola evangelica del piccolo granello di senape che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Luca 1, 51-53): paradigma della Chiesa-altra che sempre più cattolici sognano e si impegnano a costruire. Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno; una Chiesa degli esclusi e non dell'esclusione, capace di accogliere, di portare tutti nel suo seno.

Si sa molto dell'Inquisizione nel medioevo; poco si sa e meno si parla dell'Inquisizione moderna, probabilmente perché solo pochi sono a conoscenza dell'impressionante tuffo nel passato che sono i processi "interni" che le varie Congregazioni vaticane intentano ogni anno contro preti, religiosi e teologi cattolici, in maggioranza progressisti, rei di non aderire, non tanto alle verità di fede e ai dogmi, quanto piuttosto alle mille pieghe delle elaborazioni del magistero pontificio, di cui si vuole ostinatamente ribadire, contro la centralità del Vangelo, la fondamentale importanza.

Qualcuno dovrebbe raccogliere i frammenti di storia di tutti i provvedimenti disciplinari, o delle precisazioni dottrinali, emanati dal Vaticano negli ultimi 25 anni contro quei sacerdoti, teologi e religiosi che hanno adottato un approccio molto più ampio e flessibile nel trattare la delicata questione dei rapporti tra annuncio evangelico, strutture religiose, contesti storico-sociali e norme morali. Ne emergerebbe, tra l'altro, la storia del tentativo di difendere la visione della Chiesa come istituzione - gerarchica, autoritaria e centralista - tutta tesa a tradurre il messaggio rivoluzionario del Vangelo in norme morali e giuridiche, e purtroppo i lefebvriani di questa chiesa sono nostalgici e paladini. Provvidenzialmente e malgrado ciò, non si è riusciti a impedire che il cattolicesimo proseguisse quel cammino di rinnovamento iniziato con la seconda metà dello scorso secolo e con il Concilio Vaticano II. Ma non possiamo evitare di porci qualche domanda: come mai si sdoganano solo i gruppi più reazionari, che appoggiano politiche di estrema destra, razziste e xenofobe, che negano l'Olocausto, che ripropongono una immagine di Chiesa slegata dalla gente e nella quale i fedeli laici non valgono nulla, una Chiesa trionfalmente alleata con i potenti, potente essa stessa, mentre al contrario si condannano e si contrastano aspramente i settori progressisti e le Teologie della liberazione?

Nella Chiesa c'è chi, come i lefebvriani, può permettersi di criticare e dissentire, addirittura contestare le decisioni non solo del papa, ma di un Concilio, quello Ecumenico Vaticano II. Invece c'è chi per molto meno, per il solo fatto di porsi e porre domande, perché approfondisce scientificamente gli argomenti teologici, perché sceglie di stare dalla parte dei poveri difendendoli, denuncia le ingiustizie e accusa i potenti, viene tacciato di disobbedienza, punito, processato, cacciato: sto parlando delle centinaia di vescovi, preti, suore e laici "progressisti", inquisiti dai tribunali ecclesiastici, colpiti da provvedimenti canonici ed emarginati sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Nella Chiesa-altra che sognano i "progressisti", i "tradizionalisti" hanno non solo il diritto di esistere ma, anzi, possono essere una ricchezza; temo invece che nella Chiesa che vogliono restaurare i "tradizionalisti" come i lefebvriani, i "progressisti" siano solo un "cancro da rimuovere" a tutti i costi. Per questo il provvedimento a favore dei seguaci di mons. Marcel Lefebvre ha creato in me sconcerto, tristezza e dolore, perché rischia di acuire nel mondo cattolico una sorta di "scisma sommerso" (come scrive Piero Prini nel suo libro con questo titolo). Per fortuna il futuro del cristianesimo, nelle singole comunità e nel mondo, non è affidato solamente alla quantità di documenti stampati a Roma.


Il giovane Ratzinger


Comunicato delle Comunità cristiane di base italiane
Lefebvre, la riabilitazione è un ritorno al pre-concilio

Papa Ratzinger ha tolto la scomunica ai seguaci di Mons. Lefebvre, che non hanno mai cessato di essere ostili al Concilio e a tutte le riforme liturgiche e pastorali della Chiesa dagli anni Sessanta in poi. Lo ha fatto il 24 gennaio scorso, proprio alla vigilia del 50° anniversario della convocazione del Concilio Vaticano II da parte di papa Giovanni.

Colpisce il carattere simbolico della coincidenza: dice ancora una volta la grande preoccupazione del papa, da lui espressa a più riprese fin da quando era Prefetto dell’ex sant’Uffizio, per certi aspetti del Concilio. Affermava già nel 1984 in un’intervista a Vittorio Messori:

“Già durante le sedute e poi dopo, in modo sempre più vasto, circolò quello che noi tedeschi chiameremmo Konzil-Ungeist, quell’ “anti-spirito del Concilio” secondo il quale tutto ciò che è “nuovo” sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c’è già; un “anti-spirito” secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far ricominciare dal Concilio ecumenico Vaticano II” (Jesus nov. 1984).

Poiché siamo contrari a tutte le scomuniche, la riammissione dei seguaci di Lefebvre non ci scandalizza.

Ci colpisce invece che questo “misericordioso provvedimento” sia a senso unico e che sancisca un ritorno al pre-concilio.

Ci colpisce che si mantenga il sospetto e la condanna verso le realtà ecclesiali più orientate in senso conciliare come ad esempio le Comunità Cristiane di base e i teologi della Teologia della Liberazione.

Ci colpisce che la riabilitazione sia avvenuta, oltre che alla vigilia dell’anniversario del Concilio, anche alla vigilia del Giorno della memoria e che tra i vescovi riabilitati ce ne sia uno che neghi la realtà dell’Olocausto, quasi alludendo a un ritorno al tempo in cui gli ebrei erano considerati responsabili della morte di Gesù e bisognosi di conversione.

Sono in molti dentro e fuori la curia romana pronti ad annunciare la morte dello spirito del Concilio; ma lo stesso Spirito, che ha ispirato i Padri conciliari, continuerà ad impedirla.


Il vescovo scismatico Marcel Lefevre


Il papa, i lefebvriani, il concilio
di don Paolo Farinella (da MicroMega)

Il papa è ancora cattolico?
Dovrei provare soddisfazione nel dire «lo avevo detto», invece provo amarezza e rabbia. Il 14 settembre 2007, opponendomi con tutte le mie forze all’introduzione della Messa preconciliare voluta dal papa attuale, scrissi in 24 ore un libretto (Ritorno all’antica Messa, Gabrielli Editore) in cui mi dichiaravo obiettore di coscienza e mentre tutti giocavano sul folclore della «Messa in latino» dimostravo che l’obiettivo esplicito del papa era l’abolizione del concilio ecumenico Vaticano II. Qualcuno parlò di esagerazione. Oggi gli increduli di allora ne hanno la prova provata e spero che nessuno riduca ciò che sta accadendo a meri fatti interni alla Chiesa che non interessano il mondo laico.

Il ritorno all’anticoncilio
L’abolizione della scomunica ai quattro vescovi scismatici lefebvriani è uno stupro compiuto dal papa contro la Chiesa perché di sua iniziativa sancisce e definisce che il concilio Vaticano II non è mai esistito. Il papa infatti non chiede ai lefebvriani un atto previo di adesione al magistero del concilio come condizione per l’abolizione della scomunica, ma li riammette semplicemente come se niente fosse successo, schierandosi contro due papi che li sospesero a divinis (Paolo VI) e li scomunicarono come scismatici (Giovanni Paolo II). O i lefebvriani erano scismatici o il papa che li scomunicò compì un atto illecito, visto che le condizioni della scomunica non sono mutate. Oppure sbaglia, e alla grande, il papa di adesso. Lo stesso giorno dell’abolizione della scomunica (24 gennaio 2009), il capo degli scismatici, Fallay in due distinti comunicati ai suoi seguaci scrive:

«Noi siamo pronti a scrivere col nostro sangue il Credo, a firmare il giuramento anti-modernista di Pio X, facciamo nostri e accettiamo tutti i concili fino al Vaticano I. Nello stesso tempo non possiamo che esprimere delle riserve riguardo al concilio Vaticano II, un concilio «diverso dagli altri». In tutto ciò, noi manteniamo la convinzione di restare fedeli alla linea di condotta indicata dal nostro fondatore, Monsignor Marcel Lefebvre, di cui ora aspettiamo la pronta riabilitazione … Allo stesso modo, nei colloqui che seguiranno con le autorità romane, vogliamo esaminare le cause profonde della situazione presente e, nel trovare il rimedio adeguato, giungere a una restaurazione solida della Chiesa. … La nostra Fraternità desidera potere aiutare sempre di più il papa a porre rimedio alla crisi senza precedenti che scuote attualmente il mondo cattolico … Siamo anche felici che il decreto del 21 gennaio 2009 ravvisa come necessari «incontri» con la Santa Sede; questi incontri permetteranno alla Fraternità Sacerdotale San Pio X di esporre le ragioni dottrinali di fondo che ritiene stiano all’origine delle difficoltà attuali della Chiesa. In questo rinnovato clima, noi abbiamo la ferma speranza di giungere presto al riconoscimento dei diritti della Tradizione cattolica» (Menzingen 24 gennaio 2009. Bernard Fellay).

Qualcuno mente spudoratamente
Coloro che parlano, come la Sala Stampa vaticana e il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, di gesto di clemenza e di magnanimità del papa, mentono sapendo di mentire, perché sanno troppo bene che i problemi sono dottrinali e riguardano una sola questione: «Il concilio Vaticano II è un concilio almeno come gli altri, la cui accettazione è essenziale per essere cattolici, oppure è ad libitum, a discrezione cioè della sensibilità di ciascuno, essendo solo un conciliabolo per pochi intimi?». Come conciliare le affermazioni del capo dei lefebvriani che lo stesso giorno dell’abolizione della scomunica dichiara pubblicamente che non accetteranno mai il concilio Vaticano II e il suo magistero per «ragioni dottrinali di fondo»?

Non vi sono alternative: o mente il papa o mente il capo dei lefebvriani o mentono tutti e due. Se i lefebvriani possono archiviare e disprezzare un concilio ecumenico, è lecito ad un cattolico, restando cattolico, rifiutare per motivi dottrinali il magistero di Benedetto XVI ritenuto lesivo per la fede cattolica?

Se i lefebvriani possono essere riammessi nella Chiesa cattolica senza dovere contestualmente accettare il magistero di un concilio ecumenico, perché il papa non compie lo stesso «gesto di misericordia» verso quei cattolici che sono stati buttati fuori dalla Chiesa per «eccesso di progressismo», colpevoli di considerare il concilio un’assise incompiuta? Che posto occupano nella chiesa i teologi e teologhe della liberazione perseguitati, vilipesi e cacciati? Se il concilio non è determinante, perché usare due pesi e due misure?

Posso esigere che le mie posizioni teologiche diametralmente opposte a quelle dei lefebvriani debbano avere la stessa cittadinanza nella chiesa ponendo fine così ad un ostracismo ed isolamento che dura da oltre un quarto di secolo? Dal momento che si stanno avverando tutte le «profezie» che scrissi nel 2007 e ancora prima, non è il caso che il vescovo chieda scusa e mi restituisca quella dignità di cattolico a tutto tondo che io credo di meritare?

Dal mio punto di vista anticipo e prevedo (come si suole dire in diritto: nunc pro tunc) che la prossima mossa di Benedetto XVI sarà la dichiarazione che la Messa tridentina dovrà considerarsi «forma ordinaria» e la Messa riformata di Paolo VI «forma extraordinaria» per giungere nel ragionevole tempo di una decina d’anni alla sua abolizione e ripristinare il clima tridentino per andare alla riscossa del mondo moderno con le truppe cammellate dei tradizionalisti, combattenti fidati per restaurare la Christianitas medievale.

L’antisemitismo come fondamento teologico
Uno dei vescovi scismatici e sospesi a divinis, tale Richard Williamson ha avuto l’ardire di negare l’olocausto la vigilia della sua riammissione nella comunione cattolica che per gentile concessione del papa, coincideva con la vigilia della giornata della memoria della Shoàh. Nulla avviene per caso e tutto ha un senso e una simbologia. Dopo le reazioni dentro e fuori la Chiesa, il Vaticano, la Cei e chi più ne ha più ne metta, si sono arrampicati sugli specchi per tentare di fare quadrare il cerchio, senza rendersi conto che chi nasce quadrato non può morire rotondo. Per i lefebvriani l’antisemitismo è una nota caratterizzante la loro teologia per la quale gli Ebrei sono «deicidi» e lo sono per l’eternità, a meno che non si convertano e riconoscano Gesù Cristo come loro Messia e Dio. Nella lettera di scuse inviata al papa dall’altro compare e capo dei lefebvriani, Bernard Fellay, si chiede perdono al papa, ma non al popolo giudaico e a tutti i morti ebrei nei campi di concentramento e per mano nazi-fascista. La pezza è stata peggio del buco. I lefebvriani rifiutano di sana pianta il documento conciliare «Nostra Aetate» in cui al n. 4 si parla della religione ebraica in termini positivi e si rifiuta per la prima volta il concetto di «deicidio» come colpa di tutto il popolo d’Israele, ma lasciandone la responsabilità solo alle «autorità ebraiche con i loro seguaci» del tempo di Gesù (n. 4/866).

I papi sbagliano
Nella Chiesa cattolica, da un punto di vista cattolico, non possono coesistere i lefebvriani e il concilio Vaticano II. Se entrano i primi deve uscire il secondo e se resta il secondo, non possono entrare i primi. A mio avviso, infatti, i nodi dovranno ancora venire al pettine e questa riconciliazione porterà molta più frattura di quanto si possa immaginare. Prego che il papa torni suoi passi e riprenda la fede cattolica che ha abbandonato consapevolmente sulla soglia della Fraternità lefebvriana. Diversamente ci sentiamo dispensati dal riconoscere la sua autorità, come i lefebvriani hanno rifiutano e rifiutano l’autorità di Giovanni XXIII, Paolo VI e in parte di Giovanni Paolo II. Tutto ciò dimostra che la confusione regna ai vertici della Chiesa cattolica e la prova che spesso anche i papi infallibilmente sbagliano. Enormemente.


mercoledì 7 gennaio 2009

Intervento di Antonietta Potente sull'alleanza integralista Ratringer-Pera

Intromettendomi nel dialogo
tra Marcello Pera e Benedetto
XVI

di Antonietta Potente

Ci sono dei momenti storici nei quali le idee sembrano seguire il flusso di movimenti ondulatori e irrompere sulle rive come se non se ne fossero mai andate. Anche se coscienti dei molteplici cambi epocali, ci sono visioni del mondo che paiono preferire gli eterni ritorni delle più certe sistematizzazioni ideologiche e dottrinali, in nome di una fedeltà che rende la maggioranza numerica di noi poveri mortali, insensati e moralmente peccatori. Certamente la nostra epoca è complessa; certamente le coordinate storiche su cui ci muoviamo, a volte sembrano essere molto disordinate. Nonostante questo, ogni lettura storica che fa dell’umanità e dell’epoca attuale uno spazio di totale contraddittorietà, dove, secondo questa visione, tutti camminiamo ambiguamente, abbagliati dalla luce della superficialità, mi sembra davvero riprovevole, oltre che suscitare in me, una profonda tristezza. A chi mi riferisco? All’eco che già c’è giunto via Corriere della Sera, in una lettera di Benedetto XVI, che raccoglie la trama principale della pubblicazione del libro del senatore e filosofo Marcello Pera, dal titolo: Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori).


Non voglio e non posso ancora addentrarmi nei dettagli del contenuto del libro, ma voglio farlo riguardo alla lettera che accompagna il testo di Marcello Pera, resa pubblica il 23 di novembre, pochi giorni fa, e che probabilmente è, allo stesso tempo, cassa di risonanza e ispirazione, poiché non è la prima volta che i due autori fanno un concerto a quattro mani su temi socio-culturali e religiosi (Senza radici, Mondadori 2004). Per ora, dunque, è solo la lettera di Joseph Ratzinger che provoca in me alcuni sentimenti e alcuni pensieri. Raccolgo dunque alcuni frammenti, per poi lasciare libero l’eco interiore che hanno suscitato in me.

Il primo frammento è con riferimento alle radici del liberalismo che si alimentano – secondo Ratzinger - nell’immagine cristiana di Dio. Non voglio fare un riassunto su ciò che s’intende per “liberalismo” e soprattutto sulle sue multipli sfaccettature assunte lungo la storia, ma ritengo inconsueto sentire affermare, senza ombra di critica, che il liberalismo è la condizione ideale per una cultura veramente cristiana. Forse questo mi appare ancora più strano, sapendo che Benedetto XVI sta commentando il testo di Marcello Pera, uno degli esponenti di quelle correnti politiche che hanno scalpellato gli ideali liberali fino a renderli a immagine e somiglianza di quelli dell’economia neoliberale. Il liberalismo italiano, pronipote del liberalismo anglosassone nato alla fine del secolo XVII e rappresentato, in Inghilterra, da David Hume, Adam Smith, Edmund Burke ed altri.

Com’è possibile affrettarci per trovare sintonie tra cristianesimo e liberalismo e dubitare, invece, su possibili dialoghi con culture e religioni di altre geografie storiche ed esistenziali? Com’è possibile cercare complicità, senza ombra di dubbio e senza paura, tra il messaggio cristiano e quello del liberalismo europeo e avere, invece, tanti dubbi e tanta paura quando si tratta di leggere il parto storico d’intere società e culture di fronte alla complessità e alle sue nuove esigenze vitali?

Com’è possibile benedire e affiancarsi al sogno di chi pensa a una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità?

Forse il concetto dell’ecumene evangelico, non corrisponde alla realtà cosmopolita di una Europa interrogata da altre culture e da altre religioni? O forse Benedetto XVI si è dimenticato che questo flusso e riflusso di persone, culture e religioni è dovuto anche agli ideali imposti di un certo liberalismo culturale e neoliberalismo economico e politico de nostri giorni, che sospingono interi popoli a sottomettersi agli imperativi sociali e ai miti culturali dei paesi così detti sviluppati?

Che cosa succede? Com’è possibile che chi, come rappresentante di una confessione religiosa che dovrebbe sostenere il sogno dell’estensione del pensiero, della comprensione delle idee e della sintonia dei gesti, appoggi, invece, con convincimento, che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile? Qual è secondo Ratzinger il dialogo interreligioso in senso stretto…? Perché, forse ne esiste uno in senso largo?

Infatti, il dialogo vero non si gioca nelle sfere più alte, perché la vita non è in gioco nelle sfere più alte delle nostre istituzioni, politiche e religiose, di per sé già morte. La vita è in gioco nei meandri più quotidiani di questa società europea in cui le persone cercano di dialogare non per mantenere privilegi e poteri, ma semplicemente per vivere, giorno dopo giorno. E sono questi gli ambiti in cui la fede sussiste comunque, tra cosmovisioni e gesti diversi, perché sussiste la voglia di vivere e la ricerca costante per abitare il mondo in un altro modo.

E’ vero, forse il cristianesimo potrebbe contribuire a questo nuovo volto dell’Europa, ma mi domando quale cristianesimo? Leggendo tra le righe, mi accorgo che Ratzinger, se avesse scritto più a lungo, avrebbe fatto ulteriori distinzioni e non solo sulle religioni, ma sull’unico specifico cristiano che, secondo lui può contribuire, cioè il cattolicesimo.

E allora gli altri, con le loro sapienze, esperienze, con le loro ricerche di Dio, di se stessi, della storia; questi altri che? Forse le loro evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni non servono, non contano, sono assurde? Ma questo mondo postmoderno è così cattivo?

Ma la teologia cattolica, non ha mai il dubbio della sua insufficienza? Quale privilegio abbiamo? Pazienza che questi dettagli non siano colti dal senatore Pera, ma un rappresentante di una chiesa e per di più un teologo: com’è possibile?

Allora, se scruto e mi soffermo, mi ritornano in mente le parole della figlia di una mia amica (una bambina di circa 9/10 anni) che una sera mi domandò cosa significavano le ombre, nell’allegoria della caverna di Platone. E’ vero, forse c’è bisogno di ricordare quest’allegoria e tentare una semantica del testo, per capire cosa succede nella teologia della chiesa cattolica.

Dei prigionieri sono legati in modo che possono vedere soltanto la parete di una caverna. Un grande fuoco, dal dietro, proietta delle ombre sulla parete. Che cosa vedono i prigionieri? Essi vedono le ombre proiettate dai loro corpi o da qualsiasi oggetto o sagoma che si proietti sulla parete. In poche parole, i prigionieri non possono vedere oggetti reali, ma osservano solo ombre bidimensionali proiettate da oggetti che, in realtà, non possono vedere veramente. Ed è per questo che non potendo vedere le cause reali delle ombre, i prigionieri pensano che le ombre sono l’unica vera realtà.

Sappiamo che l’antico filosofo, nel proporre l’allegoria, sperava di scoprire alcune proprietà del “mondo delle forme”. Oggi, quest’allegoria è divenuta molto importante anche per la fisica e, la fisica, ci aiuta a capire che ciò che vedono i prigionieri sono immagini bidimensionali, così che, loro, pensano che il mondo è solo bidimensionale. Questo, a mio avviso è il problema del pensiero teologico e della cultura europea di matrice cristiana oggi. Pensiamo di continuare a vivere in un mondo bidimensionale di cui ci assicuriamo conoscere tutto, anche se in realtà sono solo ombre, riflessi. Ma oggi, la storia, precisamente in quest’auto-riscoperta delle identità, si mostra in tutta la sua complessità e dunque diversità. Le culture sono espressione di una molteplicità d’individui, categorie sociali, soggetti di genere diverso, visioni del cosmo. La rivendicazione che il mondo oggi fa della sua maturità e dei suoi impulsi, non è un peccato deplorevole, ma piuttosto un’ iniziativa mistica, dal di dentro dell’essere umano, che si riscopre degno di prendere iniziativa e soprattutto desideroso di non abbandonare la storia per raggiungere l’essenza di sé, della verità e del mondo intero. Il mondo, oggi, non è più bidimensionale e forse la scienza potrebbe dirci qualcosa su queste inquietudini religiose e culturali dell’Europa.

E’ per questo che restiamo perplessi di fronte alle opinioni di un rappresentante religioso che non sostiene l’osato sogno di chi nella storia di oggi, con fatica, osa uscire dall’idea o dall’esperienza fatta nella caverna e, uscendo, percepisce altre dimensioni. Personalmente penso che cercare altre persone, altre idee, altri lineamenti, non solo storici ma anche trascendentali per ritessere la trama della vita sociale, affettiva, spirituale e politica dell’umanità, non significa perdere l’identità del proprio credo. Mentre invece mi sembra che precluderci al dialogo è un vero e proprio precluderci al mistero, alla rivelazione, alla complicità divina con l’umanità e la sua biodiversità cosmica. Certamente questo non è un cammino facile, certamente questo non è il frutto d’incontri sociali e politici, oltre che religiosi, che si fondano sulle logiche dei privilegi, a cui la chiesa cattolica, nel mondo intero, è da sempre abituata; logiche economiche, di potere, in nome del riconoscimento della propria fede.

Si tratta di un parto, di veri e propri dolori di parto; sono sforzi quotidiani, di cui forse chi sta in certi luoghi e legge la storia da un certo punto di vista, si è dimenticato o non ha mai conosciuto. Vivere le diversità costa, ha dei prezzi molto alti. Certamente è più facile omologare o meglio dominare, con un pensiero unico e testimoniare le scintille del vero con un’unica esperienza. Quando è così, forse finiscono i dolori del parto della creatività umana, ma anche, finiscono i sogni di tutti quei cambi storici reali e, invece, si riconduce tutto all’eterno ritorno dell’olimpo divino dei poteri religiosi e sociali.

Comunque, potremmo discutere fino all’infinito su questa lettura e interpretazione della storia e della vita, ma almeno facessimo memoria di qualcosa di molto semplice, che riguarda proprio le radici cosmopolite del cristianesimo primitivo, quelle raccontate dagli Atti degli Apostoli, quelle raccontate da Paolo. Forse tutti contesti ancora più bidimensionali di quelli che conosciamo noi oggi, ma che nonostante tutto, hanno permesso al cristianesimo di alimentarsi anche nelle circostanze più complesse e diverse, proprio nella sua caratteristica fondamentale di passione profonda per la riconciliazione.

Una passione che rende la teologia più apofatica, nel suo insufficiente linguaggio e per questo in ricerca, tra visione, ascolto e nostalgia per l’assenza, l’Assente e gli assenti. Un progressivo itinerario di svelamento di linguaggi alternativi, che curino le rughe non solo dell’umanità, ma anche di questa comunità credente cattolica prigioniera delle ombre. Mi auguro che qualcuno, uscendo dalla caverna, torni e ci racconti le multipli dimensioni della realtà e così continueremo a cercare, noi stessi e Dio che, secondo la visione di Ratzinger e Marcello Pera, sembra essere così estraneo alle nostre fatiche e timide comprensioni della vita. Personalmente spero che, ancora una volta, tutti coloro che bramiamo e osiamo il mondo in un altro modo, si sia perdonati per avere amato troppo e per aver dedicato la vita a cercarci reciprocamente e a cercare. Se oggi, la figlia della mia amica, torna a rifarmi la domanda, le risponderò che ogni ombra evoca qualcosa di più, non solo quello che ci sta dietro, ma quello che ci sta davanti e che sta fuori e che lei e solo lei, per essere fedele, dovrà scoprire con altre e altri.

venerdì 2 gennaio 2009

Commento al vangelo di domenica 4 gennaio 2009

Gesù: una «parola» ebraica

(Vangelo di Giovanni 1,1-8)


Logos?

Il Vangelo di Giovanni inizia con un inno cristologico (conosciuto come il Prologo) che accenna alle principali tematiche affrontate dall’evangelista lungo tutto suo racconto. Per esempio, vengono utilizzati i termini, che in seguito avranno una forte valenza simbolica riferiti al Cristo, luce, rivelazione, vita...
Si tratta di un inno che risente di un forte influsso ellenistico, ovvero greco, che ci fornisce una rappresentazione del Cristo utilizzando il linguaggio filosofico tipico del mondo greco. Un linguaggio senz’altro molto suggestivo, ma che rischia di allontanarci dalla figura storica di Gesù di Nazaret. Gesù, infatti, è qui presentato come il logos che si fa carne (che in greco significa parola, ma anche ragione o discorso). Un logos preesistente, che era già «in principio» (en arché).
«In principio», sono le stesse parole con cui inizia la Bibbia (Gn 1,1). In questo caso, però, non si tratta di quel Dio che crea il mondo semplicemente camminando alla brezza del giorno (Gn 3,8), ma piuttosto si tratta il mistero di un Dio che genera in sé il suo figlio, raffigurato qui come la Parola creatrice. Una formulazione che, nonostante il tragico tentativo di personificare il Logos, si rivelerà oscura, faticosa e terribilmente precaria, e che darà vita a quelle interminabili dispute – cristologiche e trinitarie – che hanno dilaniato la storia della chiesa dei primi secoli.
Il concetto di logos come manifestazione di Dio, era già presente nella cultura greca precedente a Gesù, mentre nella cultura ebraica comparve per la prima volta grazie al filosofo Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C. circa). Filone era un ebreo ellenizzato che arrivò ad introdurre una interpretazione della Bibbia a partire dalla dottrina del grande filosofo greco Platone, arrivando così a teorizzare l’interpretazione allegorica dei testi sacri. Egli si poneva il problema del dialogo tra la cultura greca del suo tempo e la cultura ebraica da cui egli stesso proveniva; fu così che arrivò ad incorporare il concetto di logos all’interno della propria teologia: l’idea di logos fu connessa al tema biblico della «parola di Dio», intesa come mediatrice tra Dio e il mondo.
Il Prologo di Giovanni solleva, da parte degli studiosi, complicate questioni di critica testuale in relazione al rapporto con il resto del vangelo. Senz’altro si tratta di un testo molto rimaneggiato ed intriso di elementi esterni, sia alla cultura ebraica, sia al resto del vangelo, ma che nello stesso tempo ne anticipa gli elementi teologici principali.


La Parola

In ebraico il termine parola si traduce con davàr, un termine che – nella tradizione biblica – indica prima di tutto una creazione, un gesto, un fatto, un evento. Tuttavia, ad un certo punto nella Bibbia questa parola subì un processo di personificazione, (lo stesso avvenne per esempio per la Sapienza, cfr. Sap 6-9). La personificazione, un processo tardo che cominciò a partire dall’elaborazione dei libri sapienziali (Pr 1-9), era un modo, per gli uomini del tempo, di indicare l’azione di Dio nella storia. Così, se da una parte la personificazione della Parola consentì di sentire Dio immediatamente vivo e operante (intendendola come persona vicina agli uomini), dall’altra parte portò, a lungo andare, ad una astrazione concettuale sempre più lontana dalla vita degli uomini, sempre meno concreta.
Si tratta di un rischio sempre vivo che, è il caso tipico del Prologo di Giovanni, rischia di farci immaginare Dio come maestoso e trionfante, e la sua azione operante nella storia come un progetto già concepito e nello stesso tempo intoccabile. Tutto ciò come se fosse già determinato in un processo costituito a priori, dove gli uomini e le donne non sono liberi/e di cooperare alla creazione all’interno di una relazione di responsabilità attiva. La creazione, invece, deve essere considerata in continuo movimento e compimento. L’azione di Dio, infatti, non è certo pre-comprensibile all’interno delle nostre narrazioni umane, qualunque esse siano.
Senza contare, poi, che la storia di Gesù, colui in cui – secondo il vangelo di Giovanni – si incarnò, personificandosi, il logos, fu – nella sua pienezza di umanità – la storia di un fallimento. Una storia difficilmente immaginabile e impossibile da astrarre; una storia che fu possibile (lo è tutt’oggi) vivere soltanto, vivere e basta.


Un Gesù divino

Nel Vangelo di Giovanni «il Gesù terreno appare trasfigurato in un essere divino; lo scritto infatti si presenta espressione di una cristologia incentrata nella Parola eterna di Dio: “In principio era la Parola e la Parola era rivolta verso Dio e la Parola era divina”, fattasi “carne” nel tempo (sarx egeneto), cioè uomo caduco e mortale. Incarnazione finalizzata alla rivelazione, perché è Parola disvelatrice del volto nascosto di Dio: “Dio nessuno lo ha mai visto; l’unigenito essere divino (theos) che è volto verso il seno del Padre, lui ce ne ha fatto l’‘esegesi’ (exegesato)”, cioè lo ha tratto fuori dalla sua impenetrabilità (Gv 1,18), mostrandocelo come colui che “ha tanto amato il mondo umano da donargli il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada alla rovina eterna ma possieda la vita del nuovo mondo” (Gv 3,16). […] Eppure lo scritto non abbandona, del tutto, il campo storico: la Parola divina incarnata è pur sempre in nazareno» (G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, pag. 55).
La divinizzazione di Gesù, la sua ipostatizzazione, la sua trasformazione in un essere divino ha finito per allontanarlo dalle persone, da quegli stessi uomini e da quelle stesse donne che probabilmente egli avrebbe potuto incontrare sulle strade della Palestina di 2000 anni fa.
Questo processo – che è durato dei secoli – ha portato alla costituzione del Cristianesimo come vera e propria religione, con i suo dogmi, i suoi apparati, le sue organizzazioni, la sua morale e la sua dottrina. In qualche modo questo cammino ci ha allontanati dalla fede, soprattutto dalla fede di Gesù: la fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, la stessa fede del popolo di Israele. Si è perso di vista il fatto stesso della «ebraicità» di Yehoshua figlio di Giuseppe, allontanandosi sempre di più dalla radice ebraica della fede biblica.
Riappropriarci di questa fede, ormai dispersa e lontana anche all’interno dell’ebraismo a noi contemporaneo, è il grande sforzo che la coerenza verso il messaggio di Gesù ci richiede pressantemente; un messaggio – non dimentichiamolo – che ci è stato tramandato attraverso l’esperienza dai suoi primi discepoli (anch’essi ebrei) e delle sue prime discepole (anch’esse ebree).

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