martedì 10 luglio 2007

La lingua del potere

Due visioni opposte dell'eucaristia: tra sacrificio e condivisione.
di Enzo Mazzi (da Liberazione 10/7/07)
L 'autorizzazione del papa a celebrare la messa in latino secondo un rituale ormai imbalsamato non meriterebbe in sé l'attenzione e il clamore che le è riservato. La decisione di Benedetto XVI è stata presa in primo luogo per l'unità della Chiesa. E' una sollecitudine da apprezzare nella sua intenzionalità. Ma il carattere essenziale del messaggio che trasmette è di restaurazione. Ed è una restaurazione pesante in contrasto stridente con le esperienze e le attese di molta parte della realtà ecclesiale nel mondo che attende da quarant'anni l'attuazione progressiva delle promesse conciliari.
Perché il Concilio non è affatto un evento chiuso ed esaurito dai documenti prodotti e dalle riforme attuate. E' piuttosto un grande processo storico di trasformazione che deve ancora sviluppare tutta la sua forza. La riforma liturgica attuata e in particolare il Messale romano promulgato da Paolo VI non possono diventare la tomba dello spirito che ha animato il Concilio. Tanti cattolici nel mondo e specialmente nei paesi impoveriti si aspettavano un nuovo slancio verso la liberazione e invece ecco il messaggio necrofilo che ribadisce la cultura del sacrificio, quella cultura che da sempre serve a colpire i poveri e a tenerli nella soggezione.
Perché il gesto di papa Ratzinger non è solo questione di lingua ma di cultura. E' un colpo al processo conciliare che aveva favorito il passaggio tanto atteso dalla cultura del sacrificio alla cultura della condivisione, dal primato del rito e del mito al primato delle relazioni e dell'amore. Possiamo capire meglio il senso di questa opposizione di papa Ratzinger al passaggio strategico dal Sacro alla vita, con alcune cenni storici. Per le tradizioni religiose sacrificali la salvezza viene dal sacrificio.Tutte le religioni hanno al loro centro il problema della salvezza. Sono vie di salvezza di fronte al mistero del male, del dolore e della morte.
Lo strumento principe della salvezza è quasi sempre il sacrificio. E spesso si tratta di un sacrificio cruento. Fino dalle religioni più antiche. Tutti i sistemi di dominio hanno sfruttato a piene mani la cultura del sacrifico per sfruttare, opprimere, soffocare nel sangue la rivolta.
E' ben nota la centralità del sacrificio nella religione ebraica: «Consacra al Signore ogni primo nato tra i figli d'Israele, sia degli uomini che degli animali: esso è mio. Lo riscatterai sacrificando al suo posto un animale» (libro dell'Esodo). La cena pasquale, prima della morte di Gesù, origine prima dell'eucarestia, avviene all'interno della tradizione sacrificale. Ma, a me sembra, è stato inserito un elemento nuovo che avrebbe potuto essere rivoluzionario se non fosse stato devitalizzato: l'identificazione fra pane e corpo e fra vino e sangue, la fusione cioè fra il sacro e la vita: «prendete e mangiate questo è il mio corpo». Va tenuto conto che il racconto dell'ultima cena, prima di essere codificato nei Vangeli, nasce e si diffonde oralmente fra piccoli gruppi di persone che vivevano al di fuori delle strutture sacrali, celebravano l'eucaristia in casa e non nel tempio.
I primi cristiani lasciarono il Tempio, anzi furono cacciati via dal Tempio, non avevano sacerdoti, i loro ministri erano presbiteri, erano anziani, rifiutavano le parole sacrali. La loro collocazione nella società era una collocazione di tipo laico, erano pastori, pescatori, artigiani, donne e uomini emarginati. Non avevano cornici sacre. Per questo stesso motivo i cristiani furono perseguitati anche dal mondo pagano che era un mondo religioso. Erano combattuti perché non erano religiosi cioè non avevano una simbologia sacrale, non sacrificavano a nessuno. Il loro momento espressivo era la cena. E non c'erano tra loro gerarchie ma ministeri. Quindi anche questa struttura sacrale della gerarchia non esisteva. E morivano versando il sangue per l'umanità nuova (E. Balducci).
Per il cristianesimo nascente non il sacrificio salva ma la condivisione.Tradotto in termini espliciti, e quindi riduttivi, il messaggio che emana dalla simbologia dell'ultima cena potrebbe essere questo: la via della salvezza non passa attraverso il sacrificio rituale, che è solo consolatorio, anzi è una truffa mascherata di sacro (il Tempio-spelonca di ladri). La via della salvezza sta nella condivisione degli elementi offerti dalla natura e dal lavoro dell'uomo, essenziali alla vita, simboleggiati dal pane e dal vino.
E il sacrificio? E' sostituito dalla condivisione esistenziale. La condivisione eucaristica del pane e del vino non è una qualsiasi spartizione contrattuale: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. La giustizia ha bisogno di leggi e norme che regolino il contratto sociale; ma non deve sacralizzare e rendere eterne le leggi e le norme: Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato. La spartizione e condivisione dei beni della terra e del lavoro coinvolge insieme al pane e al vino tutta la esistenza umana, corpo e sangue. E' una condivisione esistenziale che non è mai appagata dai livelli di giustizia raggiunti storicamente dalle spartizioni contrattuali. Cerca e vuole livelli sempre più alti di giustizia e quindi tende di continuo a un "oltre". Perché il corpo e il sangue, la vita umana, non si possono esaurire mai in un contratto o in un programma politico. Il corpo e il sangue sono l'anima della trasformazione continua della storia. Sono il motore intimo della lotta inesausta per la giustizia. Finché ci sarà un solo povero sulla terra.Tutto questo nel periodo del cristianesimo nascente. E venne la transustanziazione a devitalizzare l'eucaristia.
Quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere c'è stata la sacralizzazione della Chiesa. E' cominciata l'avventura della fede dentro le categorie del sacro. Il cristianesimo-potere ha rovesciato il senso di questa simbologia insita nell'ultima cena. E' stata sancita la transustanziazione. Parola difficile che in sostanza significa che il pane non è più pane ma è il corpo di Cristo. Il pane e il corpo sono stati di nuovo contrapposti. La vita, la natura e il sacro sono stati di nuovo separati. E all'ansia di giustizia e alla lotta pacifica per la giustizia è stata tolta l'anima. E l'eucaristia è stata devitalizzata.
Potrei raccontare tanti aneddoti in proposito. Ne scelgo uno. Quando si celebrava la messa in latino, tanti preti scivolavano via frettolosamente sulle varie parti della messa, anch'io qualche volta l'ho fatto, tanto nessuno capiva nulla, ma si soffermavano sulle parole della consacrazione scandendole quasi ossessivamente. "hoc est corpus meum…". Ricordo un monsignore importante che impiegava più tempo su quelle parole che su tutto il resto. La Messa era tutta lì in quelle parole mitiche che operavano il miracolo rinnovando il sacrificio di Gesù.
Ed ecco il colpo d'ala verso cui tendono tante esperienze di celebrazioni eucaristiche specialmente nelle comunità di base: la liberazione della Messa dal sacrificio e il recupero del senso iniziale della condivisione.
La reazione anticonciliare del Motu proprio papale si pone contro tutto questo. Va incontro però a una contraddizione che può trasformare la concessione del ritorno al latino in un boomerang. Perché introduce un elemento di flessibilità che s'insinua come una crepa nel monolite della rigidità rituale e apre all'antichissima tradizione del pluralismo partecipativo, della inculturazione e della creatività. La Messa non è nata in latino, ma in aramaico, la lingua di Gesù, poi si è affermata in greco, quindi ha conquistato il mondo nella lingua dei conquistatori, il latino, ed infine si è adeguata alle lingue nazionali. Forse il futuro di chi ha sempre cercato varchi per aprire la Chiesa alle necessità della vita è proprio quello di allargare la crepa della flessibilità per fare spazio allo Spirito che soffia dove vuole in modo che l'eucaristia torni ad essere vera condivisione degli elementi essenziali della vita nella memoria di Gesù. Non è la lingua che preme in primo luogo ma le esigenze del pluralismo, della inculturazione, della creatività, della liberazione.

domenica 1 luglio 2007

Intervento di Franco Barbero sul libro di Ratzinger "Gesù di Nazaret"

L'imbarazzante mediocrità del "Gesù" di Ratzinger
da MicroMega 4/2007
Può essere imprudente o prematuro esprimere una valutazione complessiva della ponderosa opera di Joseph Ratzinger prima che compaia il secondo volume. Ma già questa prima parte sollecita un confronto che, purtroppo, non è così vasto e coinvolgente come lo scritto meriterebbe. Non solo le pagine dedicate alle parabole e alle beatitudini testimoniano la passione sincera e profonda di Joseph Ratzinger. Mi piace riconoscerlo senza mezzi termini all’inizio di questa recensione critica.
Ma nella lettura di queste pagine ho trovato più l’autore che non Gesù di Nazareth. Si tratta, a mio avviso, di uno scritto in cui Ratzinger, credente appassionato e teologo dogmatico militante, ha stampigliato a chiare lettere il suo ritratto spirituale e psicologico di uomo, di filosofo, di credente. Il timbro della sua personalità e i chiaro scuri della sua riflessione emergono ad ogni pagina. Questo “incombere” della personalità di Ratzinger, a mio avviso, comporta il prevalere di una tesi precostituita sulla documentazione di una ricerca rigorosa, seriamente confrontata.
Di tanto in tanto le preoccupazioni pastorali, ben visibili nel suo esercizio del primato romano, fanno capolino e si esprimono con chiarezza ed allora affiorano le vibrazioni della tonalità apologetica dei discorsi e delle prediche papali che conosciamo: “E’ in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessun’altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene” (pag. 56). Subito dopo diventa ancor più esplicito il pensiero di Ratzinger: “Il Signore risorto raduna i suoi 'sul monte'… e in quel momento dice effettivamente: 'Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra' (Mt. 28,18). Due aspetti qui sono nuovi e diversi: il Signore ha potere in cielo e in terra. E solo chi ha tutto questo potere ha il potere autentico, il potere salvifico. Senza il cielo, il potere terreno resta ambiguo e fragile. Solo il potere che si pone sotto il criterio e sotto il giudizio del cielo, cioè di Dio, può diventare potere a fin di bene. E solo il potere che sta sotto la benedizione di Dio può essere affidabile” (pagg. 61-62).
Nel corso del volume si trovano inserite tutte le “battaglie” che caratterizzano la “militanza” teologica e pastorale di Ratzinger. Occorre scegliere tra “una libertà cieca ed arbitraria” e “una libertà illuminata”: “Questa libertà è stata interamente sottratta allo sguardo su Dio… la libertà per la giusta laicità dello Stato si è trasformata in qualcosa di assolutamente profano, in “laicismo”, per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi” (pag. 147).
Né poteva mancare il riferimento alla famiglia: “Ma per la Chiesa nascente come per quella successiva, fin dall’inizio è stato fondamentale difendere la famiglia come il cuore di ogni ordinamento sociale, impegnarsi per l’attuazione del quarto comandamento nell’intera ampiezza del suo significato: vediamo come oggi la lotta della Chiesa sia incentrata su questo punto” (pag.149).
Potrei proseguire citando queste “attualizzazioni” che, si dirà, non rappresentano nulla di nuovo rispetto alle catechesi settimanali. Ma queste affermazioni, si noti, sono rese particolarmente pesanti dal fatto che esse vengono presentate come logiche deduzioni e stringenti conseguenze dell’insegnamento di Gesù.
Le mie perplessità riguardo a questo libro crescono quando si entra sul terreno esegetico ed ermeneutico. Al riguardo, se lo spazio lo consentisse, avrei una valanga di osservazioni critiche da avanzare sul terreno dell’interpretazione.
Già la identificazione del Gesù reale con il Gesù storico è problematica. Studiosi cattolici come Salas e Meier ci mettono in guardia dal rischio di simili approssimazioni: “Il Gesù storico non è il Gesù reale. Il Gesù reale non è il Gesù storico. Sottolineo questo paradosso fin dall’inizio perché nella “ricerca sul Gesù storico” nasce una confusione senza fine quando non si distinguono chiaramente questi due concetti” (J. P. Meier, Un ebreo marginale I, Queriniana, Brescia 2001, pag. 25).
Ma il libro, anziché documentare una storia ed un percorso, procede enunciando e ripetendo continuamente la tesi della divinità ontologica di Gesù e cerca di dimostrarla con le argomentazioni che l’esegesi più tradizionale e conservatrice gli fornisce. Tutto questo avviene con un confronto talmente ristretto da non rispecchiare in alcun modo la vastità della ricerca in atto, la pluralità delle voci, la molteplicità dei percorsi cristologici e la svolta ermeneutica che caratterizzano il lavoro storico, esegetico, interdisciplinare ed ecumenico che da almeno due secoli è in pieno svolgimento e che negli ultimi 50 anni ha subito una accelerazione ed una espansione davvero feconde da parte di moltissimi teologi, studiosi e credenti appassionati, spesso innamorati di Gesù.
Non è sufficiente riconoscere meriti e demeriti, frutti e limiti dei metodi storici e critici, se poi ci si limita ad una ricerca tra quattro o cinque amici e qualche autore dissenziente. Questa è teologia da cucinino che stupisce non poco in un autore come il nostro. Guardando anche solo la modesta rassegna delle 2780 opere espressamente cristologiche della mia biblioteca personale, ho spiacevolmente constatato che Ratzinger non si è messo a confronto con gran parte di queste ricerche con le quali oggi, a mio avviso, è doveroso misurarsi. Mi sembra poco decoroso e per nulla rigoroso non fare i conti con gli scritti di Patterson, Barbaglio, Boismard, Ortensio da Spinetoli, Pesce, Destro, Pikaza, Dupuis, Haight, Pannikar, Dotolo, Kung, Queiruga, Knitter, Kuschel, Hick, Schussler Fiorenza, Gilkey, Schillebeeckx, Amaladoss, Ruether, Filoramo, Borg, Crossan, E. Johnson, Wengst, Vouga, Geffré, Tamayo, Tepedino, Duquoc, Gianotto, Sobrino, Balasuriya, Prabhu, Scaccaglia, Wright e tanti altri.
Sembra per il nostro autore che l’Asia e l’Africa non abbiano prodotto studi e che le teologhe femministe non esistano. La ricerca per Ratzinger sembra fermarsi poco oltre i confini della sua Germania e, per giunta, ad alcuni - pochissimi - autori. A questa cristologia manca il coraggio di raccogliere le sfide della ricerca recente e contemporanea. A volta mi sono trovato più vicino alla retorica catechistica che all’esegesi: “Nell’enigmatica espressione “Figlio dell’Uomo” incontriamo da vicino l’essenza propria della figura di Gesù, della sua missione e del suo essere. Egli proviene da Dio. Egli è Dio” (pag. 383). Affermazioni che, a mio avviso, risultano di un semplicismo impressionante dopo gli studi di Vermès, di Lapide, di Calimani e di centinaia di biblisti ebrei e cristiani sulla metafora “Figlio dell’Uomo”.
Ci si accorge spesso che Ratzinger non è un esegeta, ma le pagine dedicate al vangelo di Giovanni dimostrano la lontananza del nostro autore dalle ricerche più accreditate. A pagina 284 addirittura cita la I Lettera di Giovanni 5,6-8 come testo originario quando, per unanime consenso degli studiosi, siamo difronte ad un’aggiunta che risale al periodo delle formulazioni trinitarie. E’ evidente la sua incompetenza sul testo critico del Secondo o Nuovo Testamento.
Ma torniamo alla tesi della divinità di Gesù. Nel libro, se ho letto bene, l’ho trovata espressa in modo esplicito ben 49 volte: “Proprio come uomo egli era Dio” (pag.19), “Soltanto colui che è Dio, vede Dio” (pag. 309), “Quell’uomo che è Dio” (pag. 124), “Egli è Dio” (pag. 383) …anzi, “Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio” (pag.368). E siamo al dogma della Trinità… Non riempirò la pagina con ulteriori citazioni, ma il nostro autore collega tutti i titoli cristologici alla divinità di Gesù in modo diretto, perentorio.
Non è qui il caso di prolungarci sul significato dei titoli cristologici che, come scrive Barbaglio, hanno una valenza funzionale, cioè vogliono illustrare la funzione che Dio ha assegnato a Gesù: “A scanso di malintesi possibili ed anche esistenti, pare necessario precisare che la fede in Gesù dei primi cristiani non ha preso il posto della fede in Dio; essi non hanno per nulla abiurato il monoteismo ebraico, la confessione cioè dell’unico Dio esistente. Hanno esaltato oltre ogni dire Gesù… ma non si sono mai spinti a fare di lui un secondo Dio”. (G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Dehoniane, pag. 618).
Gesù non ha mai applicato a se stesso i titoli di gloria che i discepoli gli hanno conferito: “Gesù non avrebbe mai parlato di se stesso in quei termini: non pretendeva affatto di essere Dio incarnato. Ma affermava la presenza del Regno di Dio. Tale è l’origine della fondamentale convinzione cristiana secondo cui Dio è presente nella condizione umana. Questo è il significato dell’incarnazione” (St. Patterson, Il Dio di Gesù, Claudiana, pag. 138).
Questa maniera di pensare la “divinità” di Gesù non in modo essenzialista-ontologico, ma funzionale, è oggi propria di molti biblisti che non leggono il Secondo Testamento attraverso gli occhiali dogmatici o i linguaggi filosofici di Nicea e Calcedonia.
Il compito dei biblisti è proprio quello di segnalare le distanze ed i percorsi che separano le formulazioni dogmatiche dai dati scritturali, ricollocando il tutto nei contesti storici e linguistici appropriati, compiendo un’opera di filologia delle religioni. Nei mesi scorsi suscitò scalpore e reazioni avvelenate l’opera preziosa di Augias-Pesce che ha avuto il merito di divulgare conoscenze pacificamente acquisite nelle riviste per addetti ai lavori: “All’interno della letteratura giudaica l’appellativo 'Figlio di Dio' non ha il significato che assumerà in seguito per i dogmi cristiani, vale a dire una persona che sia un uomo e nello stesso tempo Dio. Significa solo una persona a cui Dio ha affidato un incarico, oppure una persona che segue la volontà ed i disegni divini e in questo senso ne è figlio, pur restando integralmente ed esclusivamente uomo…Insomma il termine in quanto tale non esprime la natura divina di Gesù” (Inchiesta su Gesù, Mondadori, pag. 91).
Se non si esce dalla prigione di formule che hanno avuto un senso nel loro tempo e non si rinnovano i linguaggi della fede, è possibile oggi la predicazione cristiana? Queste comuni ed acquisite informazioni, sempre suscettibili di ulteriori approfondimenti, sono anche il frutto di un dialogo con l’ebraismo che non si limiti, come fa Ratzinger, ad un generico riconoscimento dell’ebraicità di Gesù. “Non c’è una sola idea o consuetudine, una sola delle principali iniziative di Gesù che non siano integralmente ebraiche. Egli crede in un Dio unico… Noi sappiamo che Gesù si alzava presto al mattino per pregare… è un’altra testimonianza del suo rispetto dell’ebraicità…Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio. Gesù, come ogni ebreo religioso, prega ed interpella Dio”. (Mauro Pesce, op. cit., pag. 28).
Egli era un ebreo, non un cristiano. Il Gesù di Ratzinger, al più nasce ebreo, ma presenta i tratti del primo cristiano. Del resto, per il nostro autore “Ciò che in Gesù dava scandalo era proprio il fatto che egli sembrava mettersi sullo stesso piano del Dio vivente” (pag. 350). In Lui le grandi parole messianiche erano vere in modo sconcertante ed inaspettato: “Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato” (Sal. 2,7).
In istanti significativi i discepoli, sconvolti, percepivano: “Questi è Dio stesso” (pag. 352). La Scrittura antica convergeva verso questa affermazione: “Mosè ed i Profeti parlano tutti di Gesù” (pag. 355), anzi Mosè ed i Profeti confluiscono in Lui (pag. 395).
Questo mettere le mani sulla Bibbia ebraica, dopo le acquisizioni degli anni conciliari e dopo il documento Nostra Aetate, mi sembra figlio della “teologia del compimento” per cui l’ebraismo è praeparatio evangelii. Per me è improponibile. E che dire di una “lettura della Bibbia e soprattutto dei Vangeli come unità e totalità, che in tutte le sue stratificazioni storiche esprime tuttavia un messaggio intrinsecamente consequenziale” (pag. 228)? Forse la ricchezza vulcanica dei due Testamenti non sta, invece, nella loro irriducibilità ad un pensiero armonizzabile, componibile in unità?
Vorrei concludere con alcuni accenni. Anche le donne sono servite. A Ratzinger preme soprattutto sottolineare che “La differenza tra il discepolato dei Dodici ed il discepolato delle donne è evidente; i due compiti sono decisamente diversi” (pag. 216). Altrettanto sbrigative e banalizzanti sono alcune righe dedicate alla preghiera: “Anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “Madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto” (pag. 171). Di questo passo… saremo più fedeli alla Scrittura se lo invocheremo come Dio degli eserciti? Tutto è troppo chiaro: dalla fondazione della chiesa al “primato” di Pietro (pag. 344).
Ma, a lettura conclusa, sembra che due siano i principali nemici del cristianesimo: il mondo moderno e i biblisti cristiani. Non manca nemmeno un pizzico di disprezzo. Coloro che cercano le vie della pace, se non sono credenti, non fanno che mettere insieme “chiacchiere utopistiche” (pag. 78). Chi si addentra nell’enorme dibattito dell’esegesi moderna “si ritrova in un cimitero di ipotesi contrastanti” (pag. 370).
Mentre ritengo completamente infondata l’accusa rivolta ai biblisti di lasciar cadere la dimensione storica della fede, leggo in queste frasi del teologo Ratzinger la scarsa considerazione della ricerca, con la sua fatica, i suoi travagli, i suoi errori, la sua fecondità. E’ la chiesa della paura e della diffidenza che si aggrappa ai dogmi.
La vera ricerca è sempre un inoltro nei territori del rischio, ma senza di essa la teologia diventa un mausoleo pieno di muffa e/o una dogmatica popolata di certezze scadute. Ora, anche se questo libro, per espressa e onesta dichiarazione del suo autore, non costituisce in alcun modo un atto magisteriale, è indubbio che in esso troviamo l’orizzonte teologico e pastorale che l’attuale pontificato “impone” per altre vie alla chiesa cattolica.
Dal Gesù di Ratzinger mi sono congedato da molto tempo. Il Gesù dei dogmi non mi interessa, quando esso viene a trovarsi in contrasto con il Gesù ebreo, che secoli di studi ci aiutano ad avvicinare e a comprendere un po’ meglio. Nel rigoroso rispetto di questa interpretazione ratzingeriana di Gesù, constato il mio ampio dissenso e penso che sia assolutamente normale essere diversi nella stessa chiesa. Non si è un’altra chiesa, ma una chiesa “altra”.

Intervento di Franco Barbero sui Di.Co.

I Di.Co. metteranno in crisi la famiglia?

da c.d.b informa n° 38 - periodico di informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri (To)


Il 19 aprile si è svolto a Chieri, organizzato dalla Comunità Cristiana di base, dal Laboratorio Democratico e dal circolo “I Modigliani” il dibattito su: “I DICO metteranno in crisi la famiglia? Il modello famigliare cristiano può essere l’unico modello riconosciuto per la nostra società” Hanno relazionato: don Franco Barbero della comunità cristiana di base di Pinerolo, Silvia Dicrescenzo del coordinamento donne DS, Gian Luigi Bonino capogruppo della “Rosa nel Pugno” al comune di Torino. Riportiamo, non rivisto dall’autore, l’intervento di don Franco Barbero.
Io vorrei partire dal ricordo della sera in cui morì Welby. Vi sembrerà che inizi da un’altra parte per dirvi, da credente, da prete, il disagio che ho provato di fronte alla decisione di privarlo del funerale.
Ma, al di là del mio disagio personale, che per la strada, in aereo, in treno ho risentito ingigantito, mi parve da subito molto leggibile lo scollamento interno alla chiesa cattolica. Da una parte una gerarchia che prende delle decisioni con una sua coerenza e dall’altra un sentire civico, culturale, cristiano, che dice: forse questa coerenza andrebbe rimessa in discussione. Forse questa coerenza è talmente rigida da imparentarsi con la disumanità.
Perché ho voluto ricondurre questo inizio della mia piccola riflessione alla situazione Welby? Perché dentro la chiesa cattolica si vivono oggi delle tensioni che in quel momento si espressero bene. Mi ricordo le due suore che dissero al tg. 3: “noi siamo qui a pregare per Welby”. Ma altre volte non si esprimono così chiaramente.
C’è effettivamente un momento in cui mi sembra di poter dire, con rispetto ma anche con serenità, che probabilmente, la cosiddetta istituzione ufficiale sta estraniandosi dai processi e dalla realtà del mondo in cui viviamo.
La mia domanda è questa: possiamo vivere in riferimento a dei principi astratti, che io vorrei dire ellenistici, di un tempo filosofico determinato, prescindendo da questa modernità, nel bene o nel male? Vogliamo asserire l’assoluto in tutte le cose, o ci rendiamo conto che l’etica, la vita, è il luogo di un continuo patteggiamento, di una continua revisione, di una scelta del contingente, dello storico, del possibile.
Io personalmente annoto questo elemento: mi sembra che si perda contatto con questa realtà. Ma notate non lo sto dicendo io. Se voi leggete quello che sui DICO ha detto monsignor Bettazzi, è proprio questo. Quello che ha detto il massimo teologo cattolico Giannino Piana è esattamente questo: perdiamo contatto con la realtà. Ho finito di leggere ieri l’ultimo libro del papa: Gesù di Nazareth e mi è sembrato di leggere questa onda profonda: che il grande nemico della fede è la modernità, e che i grandi nemici sono i teologi, i quali discutono troppo e così si perde l’orientamento. Bisogna abitare il nostro presente, e non essere dei dirigisti ma degli uomini e delle donne che hanno appreso dalla storia l’esigenza di affrontare il contingente, l’umano, e che nessuna cultura, nessuna tradizione religiosa, oggi, nella complessità del reale, può essere in grado da sola di affrontare tutti i problemi.
Di fronte ai problemi dell’ecosistema, delle biotecnologie, abbiamo bisogno di un pensiero molteplice. Perché il mondo è plurale. Il fatto di una societas che avesse in sè proprio la capacità di imporre un modello unico, mi ha sempre fatto credere che questa è un’operazione a imbuto, che non rispetta le persone.
Invece, oggi, credo che si possa veramente guardare la realtà e scoprire che il modello unico è scoppiato e che ci sono più modi di amare. Uscire da un modello e quindi andare alla pluralità dei modi, fare sì che la legge, la statuizione giuridica, tenga conto di questo, mi pare un grande passo in avanti.Un grande passo di civiltà. In cui la mia fede non è per nulla estranea. A me non interessa, qui parlo come credente, che ci sia un modo solo di vivere la famiglia. Peraltro, d’accordissimo con voi, famiglia a cui tengo moltissimo, e non vedo come i DICO ne rappresentino una qualche minaccia. Siamo tutti d’accordo che bisogna fare di più per la famiglia.
Ma se da un modello si passa a più modi di vivere la convivenza, la solidarietà, i beni e i doveri delle convivenze, mi pare che una comunità che vive nel mondo per annunciare la solidarietà dovrebbe essere partigiana di tutto questo, dovrebbe schierarsi. Soprattutto in un mondo che ha molti sfaldamenti, pieno di stupri, di violenze, di guerre.
Riconoscere legalmente la possibilità di nuovi, arricchenti legami mi pare una grande ricchezza. Io temo che si perda contatto, che non si veda il bene dentro il travaglio di questa modernità disturbata, mobilitata, eppure capace di rinnovare tanti aspetti della nostra umanità, che non si veda che siamo di fronte ad una prigionia. E’ vero che i DICO parlano di molte cose, ma rimane vero che dentro la chiesa il tasto più dolente è stato la perdita del modello unico. C’è un solo cristianesimo, si dice; mentre invece c’è ne sono tanti. Non c’è un solo vangelo, ne abbiamo almeno quattro. Il mito del modello unico funziona nella teologia, nella dogmatica, nella morale. Ed è un mito, non è la realtà.
Ma è anche vero che oltre a questo, il terreno dell’omosessualità è molto sensibile. Per la gerarchia chiaramente perdere il modello unico è spiacevole. Ma è profondamente turbante, e qui si è scatenata in gran parte l’aggressività dei documenti e delle posizioni ribadite e ripetute, proprio il problema del rapporto omossessuale. Questo ha una storia.
In breve, teologicamente la posso ripercorrere da “L’Humanae vitae” di Paolo VI. C’è soprattutto un decreto, sempre di quel papa, “Persona umana”, che nessuno ricorda, dove l’omosessualità viene vista come una devianza; quindi qualunque unione di persone dello stesso sesso è una devianza.
Ma il documento che il cardinale Ratzinger scrisse (tre anni fa), che qui ho per intero, sull’obbligo che hanno i politici, gli amministratori, di obbedire al magistero e di non approvare nessuna legge che riguardi la possibilità giuridica di coppie di fatto dice, testualmente, che è una devianza. Si parla sempre nei termini di malattia e di anomalia.
E’ questo, mi pare, che rende più aggressivo il discorso quando si arriva a tale questione. Devo dire, è un frutto di non conoscenza. L’associazione psichiatrica americana nel 1973 depennò l’omosessualità dalla possibilità di essere considerata malattia o disturbo. L’organizzazione mondiale della sanità nel 1993 proibì di curare gli omosessuali, dicendo che non sono collegabili al capitolo delle patologie.
C’è un altro elemento, oltre al fatto di perdere il modello unico. Ci sono, in questa nota dei vescovi, che come sempre bisogna leggere per intero, delle cose di una gravità incredibile. Alcune sono delle non conoscenze, per usare un eufemismo, altre sono delle gravi menzogne. Ripetere testualmente che è un attentato alla famiglia non è onesto.
Perché lo abbiamo detto in tutti i modi che non si tratta affatto di introdurre il matrimonio, non è il caso, anche se io da buon amico di Zapatero sarei molto d’accordo, ma la mia è un’opinione personale. I DICO sono altra cosa rispetto a questo.
Mi ha impressionato che il documento cominci così “Noi che siamo i custodi di una verità e di una sapienza…”. Noi non siamo custodi della verità e della sapienza. Non è laico questo. Io non posso mettermi vicino a te e dire io rappresento i custodi della sapienza. Questa è un barzelletta. Oggi c’è così bisogno d’intrecciare le culture, la ricerca! Quello che il cardinale Hartz disse al Concilio: “dobbiamo passare dalla chiesa del dirigismo alla chiesa della compagnia”.
Dobbiamo cercare insieme. Noi non abbiamo nessuna cartina di tornasole. Non abbiamo nessun documento d’infallibilità. Miti storicamente datati, da abbandonare, che hanno creato strutture ontologicamente di arroganza, al di là delle buone intenzioni delle persone che non tocca a me giudicare.
Dicono che la legittimazione delle unioni di fatto è inaccettabile sul piano del principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo. Ma sapete che cosa si disse nel grande documento Lexicon di cinque anni fa? Che l’omosessualità, essendo un male sociale, non è soggetto di diritti. Bisogna avere il coraggio di scendere dal trono e camminare con le donne e con gli uomini, mettendo insieme non il rinnegamento di una fede, ma la scoperta di una umanità.Bisogna finirla con la presunzione, bisogna finirla con le declamazioni ideologiche, bisogna finirla con le menzogne! Vorrei dirvi, da persona che ogni giorno vive a fianco degli omosessuali, da 44 anni: quando, professore in seminario, confessore in cattedrale, incontrai i primi, nella mia totale ignoranza, non sapevo che esistessero. Le parole “omosessuale, lesbica”, erano parole innominabili!
Avendo organizzato il primo convegno italiano su: fede cristiana e omosessualità, esattamente 30 anni fa, quando mi presentai al mio amato vescovo e lo invitai, mi disse “ma anche con questi ti vai a mettere?”. Le parole “omosessuale” o “lesbica” erano ancora innominabili!Bisogna andare al cuore del problema che è incontrare le persone. Non parlare astrattamente. Chi incontra ogni giorno le persone non si domanda più se sono lesbiche, omosessuali, transessuali. Si domanda se vivono l’amore, il rispetto, il senso civico. Se partecipano alla costruzione di una società più giusta.
A me interessa la persona, e voglio che nella tua vita tu possa amare secondo la tua natura. Che tu possa essere un soggetto felice. Perché se sei un po’ felice contribuirai più facilmente al bene di questa società.Vorrei finire dicendo che la chiesa non è la gerarchia. Dobbiamo rispetto a tutti nella chiesa, ma l’ultima cosa che conta é la gerarchia. Primo elemento della chiesa sono le persone e la loro coscienza e, per chi è credente, il vangelo. Nel vangelo non c’è la risposta ai DICO. Nel vangelo c’è l’orientamento: “ama e fai che l’amore si espanda”. La chiesa non è la gerarchia; l’ascolto volentieri ma decido nella mia coscienza.
Secondo elemento: la laicità non ci divide, ci unisce. Quando devo lavorare per il bene della mia città, come facciamo tutti, secondo le nostre possibilità, non chiedo a uno: “Sei buddista, sei cattolico, sei protestante, sei islamico, sei ateo o agnostico?”. Gli chiedo: “Ci stai su questo progetto?”. Ma quando dobbiamo costruire progetti d’umanità non chiedo mica la tessera del partito, o la fede, la confessione religiosa! Mi interessa lo starci sui progetti.
Pensate il movimento operaio, il movimento della sinistra, i movimenti femminili: tutti i movimenti di liberazione hanno veramente cercato di rompere queste perimetrazioni, di fare confluire progetti, ricerche. Io invito chi è credente a documentarsi, ma a respingere ogni invadenza politica, in nome della laicità dello stato e, soprattutto, a respingere ogni soggezione di coscienza, perché la nostra coscienza è estremamente importante.
Volete che ve lo dica in quel latino maccheronico di Tommaso D’Aquino che studiai tanti anni fa a Lovanio? “Verbum prelati est verbum prelati, sed coscientia est verbum dei”: la parola di un prelato è tutto sommato sempre la parola di un prelato, ma la coscienza è la voce di Dio. Certo la coscienza può anche non essere la voce di Dio, ma bisogna prima di tutto, questo voleva dirci Tommaso, che pure non era un rivoluzionario, che la coscienza sia posta al centro, in questa mediazione, tra la realtà e sovente i dictat gerarchici. Con molto rispetto, ma devo essere un cittadino laico o una cittadina laica.
Devo essere un credente che non è un figlio della gerarchia ma è un figlio, una figlia di Dio. E deve decidere in una libertà, una creatività per cui, sovente, obbedire a Dio è disobbedire alle gerarchie. Sovente essere laici davvero significa giocarci la vita sul terreno della pratica della libertà.
Nessuno sa, credo di essere la persona che ve lo può dire per un contatto enorme con il mondo omosessuale, nessuno sa che cosa voglia dire per un ragazzo gay, per una donna lesbica, non avere diritto di potersi baciare in pubblico, non avere il diritto di vivere l’amore. Non avere il diritto, sul proprio pianerottolo, di manifestare “che noi ci vogliamo bene”.La legge è anche una forza contro il pregiudizio. Io insisto su questo.
La legge non crea le condizioni, ma favorisce molte condizioni. Dà spazio alle persone, tutela gli affetti, suscita responsabilità. Le responsabilità e le sofferenze della vita sono molte. Le sofferenze aggiuntive, inflitte dall’ignoranza o dal pregiudizio trovo che non abbiano nessuna giustificazione.

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