martedì 27 marzo 2007

una riflessione sui tempi "ecclesiali" difficili che stiamo vivendo

La fede della crisi
di g.g.

Per questo blog, un diario che guarda al mondo della teologia e della fede, in un’ottica liberazionista (anche se dal nord del mondo) questi giorni non possono che essere momenti di crisi. Le continue intromissioni vaticane nel campo della politica e della ricerca teologica sono un attacco frontale all’impegno di tanti cristiani, di chi ogni giorno cerca di costruire un mondo ‘altro’, una terra liberata dall’oppressione, dal patriarcato, dalle discriminazioni di genere, sesso, cultura, religione.

Queste prese di posizione, reazionarie e autoritarie, sono uno scandalo per tanti ‘piccoli’, tante sorelle e tanti fratelli, che con fatica cercano la fede e operano tentando di scorgere la volontà di Dio, e la strada verso il Regno. Non si possono non ricordare le parole del vangelo di Marco: «chiunque sarà occasione di scandalo a uno di questi piccoli che credono, meglio sarebbe per lui che gli appendessero al collo una macina da mulino e lo gettassero in mare».

In questi giorni, quando sembra che tutto il lavoro fatto finora sia stato vano, non posso che guardare a tante persone, attorno a me, che si sentono schiacciate sempre più da questa chiesa istituzione, e per questa ragione sono ostacolati nel loro percorso di fede. E molte volte sono spinte a rinunciare a causa di queste condanne senza appello. Mi vengono in mente le parole di fede che frei Betto ha scritto nei giorni scorsi, dopo aver appreso la notizia di condanna nei confronti del teologo Jon Sobrino: «Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni. Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, preesistente ai sacramenti e che va oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti».

Un messaggio di speranza sembrerebbe difficile, ma chi nel suo cuore sente forte l’anelito della liberazione non può perdere la voglia e la forza di cercare sempre, di essere sempre in ricerca, di risalire il fiume fino alle fonti, fino a Gesù di Nazaret. L’uomo che duemila anni fa si scontrò con i poteri politici e religiosi del suo tempo, e che nonostante questo testimoniò un messaggio di speranza che ancora oggi spinge gli uomini a cercare la strada della giustizia di Dio.

Oggi l’invito, a chi lotta per una fede liberata, potrebbe essere di continuare con speranza il lavoro di ricerca. Continuare a scrivere sulla sabbia, accanto a chi vorrebbe lapidare l’adultera, i nomi e i cognomi di chi ha sbagliato, di chi ipocritamente vorrebbe dettare agli altri leggi pesanti e senza amore, nonché prive di senso agli occhi di Dio, caricando le vite dei fratelli e delle sorelle di fardelli insostenibili, architettati per la sopravvivenza stessa della casta sacerdotale gerarchica.

martedì 20 marzo 2007

Professione di fede di Frei Betto

UN NUOVO CREDO
di Frei Betto*

Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, pre-esistente ai sacramenti e che và oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti al mistero di ciò che sarà dopo la morte.

Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’universo, donatore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e nell’essere umano. Dio orefice di ogni piccolo anello delle particelle elementari, dalla raffinata architettura del cervello umano fino al sofisticato tessuto dei quark.

Credo nel Dio che si fa sacramento in tutto ciò che cerca, attrae, collega e unisce: l’amore. Tutto l’amore è Dio e Dio è il reale. E trattandosi di Dio, non si tratta dell’assetato che cerca l’acqua ma del’acqua che cerca l’assetato.

Credo nel Dio che si fa rifrazione nella storia umana e riscatta tutte le vittime di tutti i poteri capaci di far soffrire gli altri. Credo nella teofania permanente e nello specchio dell’anima che mi fa vedere gli altri diversi dal mio io. Credo nel Dio, che come il calore del sole, sento sulla pelle, anche se non riesco a contemplare la stella che mi riscalda.

Credo nel Dio della fede di Gesù, Dio che si fa bambino nel ventre vuoto della mendicante e si accosta nell’amaca per riposarsi dalle fatiche del mondo. Il Dio dell’arca di Noé, dei cavalli di fuoco di Elia, della balena di Giona. Il Dio che sorpassa la nostra fede, dissente dei nostri giudizi e ride delle nostre pretese; che si infastidisce dei nostri sermoni moralisti e si diverte quando il nostro impeto ci fa proferire blasfemie.

Credo nel Dio che, nella mia infanzia, piantò una acacia in ogni stella e, nella mia giovinezza, si mise in ombra quando mi vide baciare la mia prima innamorata. Dio festeggiatore e bisboccione, lui che creò la luna per adornare la notte della delizia e l’aurora per incorniciare la sinfonia del volo degli uccelli all’albeggiare.

Credo nel Dio dei maniaci-depressi, dell’ossessione psicotica, della schizofrenia allucinata. Il Dio dell’arte che denuda il reale e fa risplendere la bellezza pregna di densità spirituale. Dio ballerino che, sulla punta dei piedi, entra in silenzio sul palcoscenico del cuore e, cominciata la musica, ci afferra fino alla sazietà.

Credo nel Dio dello stupore di Maria, del camminare laborioso delle formiche e dello sbadiglio siderale dei fiorellini neri. Dio spogliato, montato su un asino, senza una pietra dove appoggiare il capo, atterrato dalla sua stessa debolezza.

Credo nel Dio che si nasconde nel rovescio nella ragione atea, che osserva l’impegno dei scienziati per decifrare il suo gioco, che si incanta con la liturgia amorosa dei corpi che giocano per ubriacare lo spirito.

Credo nel Dio intangibile all’odio più crudele, alle diatribe esplosive, al cuore disgustoso di quelli che si alimentano con la morte altrui. Dio, misericordioso, si fa quatto fino alla nostra piccolezza, supplica un soave messaggio e chiede una ninna nanna, esausto davanti alla profusione delle idiozie umane.

Credo, soprattutto, che Dio crede in me, in ognuno di noi, in tutti gli esseri generati per il mistero abissale di tre persone unite per amore e la cui sufficienza traboccò in questa creazione sostenuta, in tutto il suo splendore, dal filo fragile del nostro atto di fede.

(nostra traduzione dallo spagnolo)


Creo en el Dios liberado del Vaticano y de todas las religiones existentes y por existir. El Dios que antecede a todos los bautismos, preexiste antes que los sacramentos y desborda todas las doctrinas religiosas. Libre de los teólogos, se derrama gratuitamente en el corazón de todos, creyentes y ateos, buenos y malos, de los que se creen salvados y de los que se creen hijos de la perdición, y también de los que son indiferentes a los abismos misteriosos del más allá de la muerte.
Creo en el Dios que no tiene religión, creador del Universo, donador de la vida y de la fe, presente en plenitud en la naturaleza y en los seres humanos. Dios orfebre de cada ínfimo eslabón de las partículas elementales, desde la refinada arquitectura del cerebro humano hasta el sofisticado entrelazado del trío de cuarqs.
Creo en el Dios que se hace sacramento en todo lo que acerca, atrae, enlaza y une: el amor. Todo amor es Dios y Dios es lo real. En tratándose de Dios, dice bellamente Rumi, no se trata del sediento que busca el agua sino del agua que busca al sediento. Basta con manifestar la sed y el agua mana.
Creo en el Dios que se hace refracción en la historia humana y rescata todas las víctimas de todo poder capaz de hacer sufrir al otro. Creo en teofanías permanentes y en el espejo del alma que me hace ver a Otro que no soy yo. Creo en el Dios que, como el calor del sol, siento en la piel, aunque sin conseguir contemplar o agarrar el astro que me calienta.
Creo en el Dios de la fe de Jesús, Dios que se hace niño en el vientre vacío de la mendiga y se acuesta en la hamaca para descansar de los desmanes del mundo. El Dios del arca de Noé, de los caballos de fuego de Elías, de la ballena de Jonás. El Dios que sobrepasa nuestra fe, disiente de nuestros juicios y se ríe de nuestras pretensiones; que se enfada con nuestros sermones moralistas y se divierte cuando nuestro arrebato profiere blasfemias.
Creo en el Dios que, en mi infancia, plantó una acacia en cada estrella y, en mi juventud, se asomó cuando me vio besar a mi primera enamorada. Dios fiestero y juerguista, el que creó la luna para engalanar las noches de deleite y las auroras para enmarcar la sinfonía pajarera de los amaneceres.
Creo en el Dios de los maníaco-depresivos, de las obsesiones sicóticas, de la esquizofrenia alucinada. El Dios del arte que desnuda lo real y hace resplandecer la belleza preñada de densidad espiritual. Dios bailarín que, sobre la punta de los pies, entra en silencio en el palco del corazón y, comenzada la música, nos arrebata hasta la saciedad.
Creo en el Dios del estupor de María, del camino laboral de las hormigas y del bostezo sideral de los agujeros negros. Dios despojado, montado en un borrico, sin piedra donde reclinar la cabeza, aterrorizado de su propia debilidad.
Creo en el Dios que se esconde en el reverso de la razón atea, que observa el empeño de los científicos por descifrarle su juego, que se encanta con la liturgia amorosa de cuerpos excretando jugos para embriagar espíritus.
Creo en el Dios intangible al odio más cruel, a las diatribas explosivas, al corazón hediondo de aquellos que se alimentan con la muerte ajena. Dios, misericordioso, se agacha hasta nuestra pequeñez, suplica un suave masaje y pide arrullos, exhausto ante la profusión de idioteces humanas.
Creo, sobre todo, que Dios cree en mí, en cada uno de nosotros, en todos los seres engendrados por el misterio abismal de tres personas unidas por el amor y cuya suficiencia desbordó en esta Creación sustentada, en todo su esplendor, por el hilo frágil de nuestro acto de fe.

*Frei Betto, domenicano brasiliano, teologo e scrittore.



lunedì 19 marzo 2007

Frei Betto commenta le accuse fatte a Sobrino

Ombre dell’inquisizione
di Frei Betto


Oggi è un giorno triste per me. Mi duole nel profondo del cuore, nel midollo
della mia fede cristiana. Il Papa Benedetto XVI , alla vigilia del suo primo
viaggio in America Latina, ha fatto un gesto che dà un gusto amaro ai saluti
di benvenuto: ha condannato il teologo gesuita Jon Sobrino, di El Salvador.

Conosco Sobrino da molto tempo. Insieme siamo stati consulenti dei vescovi
latinoamericani a Puebla, nel 1979, in occasione della prima visita di Papa
Giovanni Paolo II nel nostro continente. Abbiamo partecipato insieme a molti
incontri, preoccupati di alimentare la fede delle comunità ecclesiali di
base che, oggi, fanno dell’America Latina la regione con un maggior numero
di cattolici del mondo.

Sobrino è accusato del fatto che nelle sue opere teologiche non dà un’enfasi
sufficiente alla coscienza divina del Gesù storico. Per questo gli è stato
proibito di far lezione di teologia e tutti i suoi scritti futuri dovranno
essere sottoposti ad una previa censura vaticana. Il parere di condanna
della commissione della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Santo
Uffizio) parte, evidentemente , da pregiudizi. La lettura attenta delle
opere di Sobrino rivela che egli non nega mai la divinità di Gesù. La nega
il docetismo, un’eresia già condannata dalla chiesa nei primi secoli
dell’era cristiana, basata sull’idea che Gesù di umano avesse solo
l’apparenza, infatti in tutto il resto era divino. La qual cosa farebbe
dell’incarnazione un inganno e darebbe ali alla fantasia per cui nella
Palestina del I secolo l’uomo Gesù, dotato di onniscienza , potrebbe avere
facilmente previsto l’attuale conflitto fra palestinesi ed ebrei.

I vangeli mostrano chiaramente che Gesù aveva coscienza della sua natura
divina. Al contrario del suoi contemporanei, trattava Javè in maniera molto
intima, affettuosa: Abba, “mio caro papà”, una rara espressione aramea- la
lingua parlata da Gesù - , secondo quello che consta nel testo biblico.
Tuttavia, quegli stessi vangeli dimostrano che Gesù, come tutti noi, ha
sofferto di tentazioni ha avuto paura della morte, ha pianto, ha sentito la
solitudine, ha chiesto al padre se fosse possibile allontanare da lui il
calice di sangue, è stato uguale a noi in tutto, come afferma Paolo nella
lettera ai Filippensi, tranne che nel peccato, infatti amava come solo Dio
ama.

Invece, Roma soffre ancora di un platonismo impregnato di teologia liberale
a partire da Sant’Agostino. Parla della divinità come se essa fosse
contraria all’umanità. Ma la Creazione divina è indicibile. Come dice Paolo:
“in lui (Dio) viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti degli apostoli
17,28).

Dice bene Leonardo Boff riferendosi a Gesù: “Per quanto egli era umano,
poteva solamente essere anche Dio”. La nostra umanità non è la negazione
della divinità, così come non lo era quella di Gesù. La divinità è la
pienezza dell’umanità e questa è l’annuncio di quella. “Siamo della razza
divina”, afferma Paolo agli ateniesi (Atti 17,28).

Roma, che gioca tanto con i simboli, sembra disprezzare l’America Latina
ignorando che Jon Sobrino vive in Salvador, il cui arcivescovo, Oscar A.
Romero, è stato assassinato dalle forze della destra mentre diceva messa
nella cappella di un ospedale nel 1980. Il prossimo 24 marzo si commemorano
i 27 anni del suo martirio. Sobrino vive a San Salvador, nella stessa casa
in cui, nel 1989, quattro sacerdoti gesuiti, oltre alla cuoca e a sua figlia
di 15 anni, sono stati assassinati da uno squadrone della morte.

Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la
ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo?

Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino è la visiona latinoamericana di
un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno,
negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto
nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato,
pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a
tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon
samaritano: “ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a
me” (Matteo 25,40).

venerdì 16 marzo 2007

Canto de entrada (Misa Campesina)

Vos sos el Dios de los pobres,
el Dios humano y sencillo,
el Dios que suda en la calle,
el Dios de rostro curtido,
por eso es que te hablo yo
así como habla mi pueblo,
porque sos el Dios obrero,
el Cristo trabajador.

Vos vas de la mano con mi gente,
luchas en el campo y la ciudad
haces fila allá en el campamento
para que te paguen tu jornal.

Vos comés raspado allá en el parque
con Eusebio, Pancho y Juan José,
y hasta protestás por el sirope
cuando no te le echan mucha miel.

Yo te he visto en una pulpería
instalado en un caramanchel,
te he visto vendiendo lotería
sin que te avergüence ese papel.
Yo te he visto en las gasolineras
chequeando las llantas de un camión,
y hasta petroleando carreteras
con guantes de cuero y overol.

Vos sos el Dios de los pobres,
el Dios humano y sencillo,
el Dios que suda en la calle,
el Dios de rostro curtido,
por eso es que te hablo yo
así como habla mi pueblo,
porque sos el Dios obrero,
el Cristo trabajador.

mercoledì 14 marzo 2007

Sacramentum Caritatis?

di Paolo Sales
della CdB Pinerolo - Viottoli

Oggi, 13 marzo 2007, è stata posta la pietra tombale al Concilio Vaticano II, di cui, ormai da molti anni, ne era stata scavata, documento dopo documento, la fossa.

L'esortazione post-sinodale Sacramentum Caritatis non è altro infatti che l'imprimatur di Benedetto XVI ad una nuova restaurazione. E' la fine del sogno conciliare del dialogo fra il cattolicesimo della tradizione e i diritti individuali dei cittadini, la libertà di coscienza, l'autonomia della sfera politica.
Si tratta di un documento che di caritatevole ha ben poco e, anche nell'ottica (quasi a coronamento) delle crescenti e violente ingerenze di questi ultimi mesi delle gerarchie vaticane nella vita sociale e politica del Paese, di un passaggio molto grave, quasi, considerando le indebite pressioni sui rappresentanti politici, ai limiti del reato.


Un processo di restaurazione iniziato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II attraverso la condanna e l’eliminazione di tutte le esperienze progressiste e la contemporanea benevolenza verso le frange estremiste, l'incontrollata crescita di realtà integraliste (da Comunione e Liberazione all’Opus Dei), il costante soffocamento delle istanze teologicamente più avanzate, delle battaglie sociali condotte da laici e sacerdoti, della collegialità episcopale.

Papa Ratzinger chiude così, definitivamente, quella finestra aperta da Giovanni XXIII per "far entrare l'aria fresca del mondo...". Il Concilio sanciva, tra l’altro, la distinzione tra piano spirituale e piano politico-temporale. "Niente condanne dottrinali – diceva Papa Giovanni - oggi la Chiesa preferisce piuttosto dimostrare la validità delle sue dottrine e far uso della medicina della grazia". Oggi invece l'ingerenza è la quotidianità.

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Il Vaticano, ancora una volta, non riesce a guardare con amore alla realtà sociale: in questo modo nascono e si sviluppano pregiudizi e diffidenze, non comprensione ed accoglienza. Infatti:

1) Dopo la conferma referendaria, con l'astensione pilotata di una maggioranza di cittadini, della legge sulla procreazione assistita, migliaia di coppie italiane si recano all'estero per mettere al mondo, con amore, un figlio, una figlia: la gerarchia cattolica dice che questa è una colpa morale che lo Stato deve sanzionare giuridicamente.

2) Centinaia di migliaia di coppie di fatto, etero e omosessuali, chiedono di potersi unire con un vincolo che sancisca diritti e doveri, "opponibile a terzi" e con un indubbio e necessario valore anche simbolico: la gerarchia cattolica ordina allo Stato di non tener conto di queste giuste richieste di una parte sempre più ampia della società civile, perché l'unico vincolo che merita di essere riconosciuto, in ogni circostanza a prescindere, è quello del matrimonio fra eterosessuali

3) Ci sono esseri umani la cui vita non ha più nulla di naturale, attaccati a macchine che ne prolungano un'esistenza biologico-vegetativa in condizioni di oggettiva tortura: la gerarchia cattolica dice che la vita è comunque sacra e inviolabile, che la lucida volontà del singolo non conta nulla...

4) Ci sono paesi in cui milioni di uomini, donne, bambini, si ammalano e muoiono di Aids: la gerarchia cattolica indica come unico rimedio la fedeltà coniugale e l'astinenza.

5) C'è, nella stessa Chiesa cattolica, una fuga dal sacerdozio e un proliferare di scandali sessuali: eppure la gerarchia si ostina a negare il sacerdozio femminile e ogni forma di collaborazione dei laici

6) La Chiesa cattolica è guidata da una élite di vecchi celibi, che hanno paura della vita, del mondo, di tutto... Sessuofobi e sessuomani, pretendono di tenere in vita ad ogni costo un'istituzione che lentamente, inesorabilmente li consuma giorno dopo giorno e di legare l'intera società ai fantasmi di un mondo ormai totalmente altro dalla sensibilità religiosa delle nuove generazioni e dalle questioni etiche, politiche e sociali che quasi ogni giorno si affacciano. Ai nuovi fermenti, alle speranze e alle attese, rispondono con la riproposizione di formule consunte, con la difesa disperata di ciò che ormai è morto nelle coscienze, con la volontà di sopravvivere a qualunque costo.
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I parlamentari cattolici, ordina Ratzinger, devono "dare pubblica testimonianza della propria fede" nella difesa della famiglia, del matrimonio, della vita… Al politico cattolico viene posto un ultimatum: "I valori fondamentali come il rispetto e la difesa della vita umana" hanno "un nesso obbiettivo con l'Eucarestia"; se votate leggi "sbagliate"... addio comunione.

Il papa si scaglia contro i Di.co, ribadendo che "politici e legislatori cattolici consapevoli della loro grave responsabilità sociale" non devono votare leggi che vanno contro "la natura umana". La gerarchia si arroga il diritto di stabilire i programmi politici dei governi, spogliando i deputati cattolici da ogni vincolo rispetto agli elettori e, di fatto, intruppandoli in nome non del bene comune e della salvaguardia della persona, ma di (presunte) verità di fede. La dottrina morale cattolica, secondo Ratzinger, deve essere riconosciuta come fondamento della legge dello Stato e dunque non può da questa essere disattesa.

Di fronte a un mondo politico tremante e, salvo poche eccezioni, genuflesso, la gerarchia torna a dettare norme e comportamenti seppellendo, insieme al Concilio, la grande tradizione del cattolicesimo liberale, spacca la politica italiana costringendola a dilaniarsi su questioni che in tutta Europa sono state affrontate e ampiamente superate (spesso ad opera di governi di destra), a fare la conta tra chi è più cattolico e chi meno

Ancora una volta, con pervicace ossessione, viene confermato il celibato obbligatorio (condizione non dogmatica ma storica, ridiscussa da tutte le confessioni cristiane tranne quella cattolica) e l'asssoluta castità dei preti: il celibato "è una ricchezza inestimabile"; i divorziati risposati (secondo Ratzinger "vera piaga dell'odierno contesto sociale") non possono assolutamente accostarsi all’Eucaristia; l’intercomunione con i cristiani non cattolici rimane vietata; sono raccomandate l’adorazione e la processione eucaristica, le omelie sono compito esclusivo dei presbiteri; vengono riprese le indulgenze; viene ribadito il ruolo della donna nel "suo essere sposa e madre".

Benedetto XVI auspica un ritorno al latino e al canto gregoriano: "E' bene - scrive, riferendosi ai grandi incontri internazionali - che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano". La celebrazione eucaristica sempre più si riduce così a un rito rigido e formale, distante dai fedeli, lontano dalla testimonianza evangelica, con molte norme liturgiche da osservare in contrasto con la richiesta di una maggiore libertà volta a valorizzare i suoi aspetti comunitari ed un maggiore legame con la quotidianità.

Con questo ennesimo documento, però, la gerarchia cattolica si autocondanna all'isolamento, si arrocca nella difesa della sua verità e, in un'epoca segnata da opposte tensioni (quello che da molti è definito come lo scontro di civiltà) offre di sè un'immagine speculare a quella di alcuni aspetti tanto, giustamente, stigmatizzati di parte del mondo islamico; che non a caso Ratzinger giunse pochi mesi fa a indicare come esempio di spiritualità nella sua strenua lotta al relativismo.

Diventa sempre più necessario, fuori da ogni polemica, ma con lucida consapevolezza, distinguere accuratamente tra la realtà della gerarchia e la realtà della Chiesa fatta di donne e uomini in cammino sotto lo sguardo amorevole e senza condanna di Dio. La gerarchia, in quanto struttura connotata in termini di potere, è la degenerazione del ministero, ma è la parte meno rilevante dell'esperienza comunitaria cristiana. Tanta perentorietà svela la disperazione di chi ormai non ha più altre parole e altri mezzi se non quelli del potere.

Ancora una volta, è necessario guardare oltre le condanne e le parole di morte e scegliere la vita, l 'annuncio, la speranza del Vangelo nella testimonianza di Gesù e degli uomini e donne che nella storia hanno vissuto l'azione amorevole, esigente ma accogliente di Dio. Gli idoli passano... Dio resta. Gli idoli schiacciano... Dio libera.
Per poter con serenità lasciarsi alle spalle queste parole di condanna e morte, sempre di più è importante il "lavoro" biblico, l’impegno teologico e pastorale ma anche e soprattutto sociale, politico, profondamente e convintamente laico, di uomini e donne che agiscono con libertà e coraggio, collegandosi, confrontandosi...

Dio non lascia senza profeti l’umanità, le religioni. I funzionari del potere comandano e chiudono porte e finestre, ma il Vento di Dio soffia, passa per le fessure e nessuno lo può fermare… E’ la fiducia in Dio che può sostenere il nostro cammino, di fronte a un’istituzione sempre più autoritaria ma sempre meno autorevole.

lunedì 12 marzo 2007

Credo della Misa Campesina

La “Messa contadina” nicaraguense viene composta nel 1975 a Solentiname - isoletta del Lago di Nicaragua dove p. Ernesto Cardenal aveva fondato la sua comunità cristiana - da Carlos Mejia Godoy, un giovane cantautore cattolico che partecipa alla lotta contro la dittatura di Somoza, scrivendo anche l’inno del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln). Sviluppando una precedente “Messa popolare nicaraguense”, la Misa campesina riprende tutti i ritmi tipici delle diverse regioni del paese, dalla mazurca della Segovia alla danza indigena della Costa atlantica, e utilizza il colorito linguaggio popolare. Evoca inoltre i differenti elementi dell’ambiente naturale, prima di tutto la flora e la fauna, e della cultura nazionale, quasi facendo da contraltare religioso e musicale alla pittura primitivista di Solentiname. Il suo sottofondo teologico mette in luce il legame tra la fede cristiana, la bellezza del creato, la vita quotidiana del popolo e l’impegno per la liberazione sociale, esaltando la dignità degli oppressi, il valore della comunità e l’amore per il Dio dei poveri. “La Misa campesina ricrea una cristologia profetica umanizzata nel contadino, nell’operaio e nella lavoratrice della città e della campagna, che canta il Dio della vita e della speranza mentre resiste contro l’oppressione e costruisce giorno dopo giorno la nuova comunità”, sintetizza il teologo evangelico Benjamín Cortés, che conclude: “È il canto di una comunità impaziente e intensamente amata dal Datore della vita, nei confronti del quale, con la bellezza e profondità del suo essere e nella densità e intensità della sua fede, essa esplode di gratitudine”.
Proprio per il suo messaggio “rivoluzionario” la Misa campesina viene proibita nel 1976 dalla Conferenza episcopale del Nicaragua, ma ottiene l’apprezzamento del cardinale di Madrid, Vicente Tarancón, e dalle mani del suo ausiliare, mons. Alberto Iniesta, Mejia Godoy riceve il premio “Bravo” della Commissione dei mezzi di comunicazione della Chiesa spagnola. Tuttavia nel 1989 la Congregazione per il culto divino ribadisce (riferendosi pure alla precedente Misa popular nicaraguense e alla successiva Misa popular salvadoreña) il divieto di usarla negli atti liturgici, giudicandola non conforme alle norme del canone. Obietta p. Cardenal: “Immagino che per il mondo greco e latino la Messa tradizionale sia stata tanto moderna e rivoluzionaria quanto lo è per noi oggi quella di Mejia Godoy. E quest’ultimo è tanto ortodossa quanto quella, solo appartiene alla nostra epoca e alla nostra terra”. Essa è comunque divenuta inno delle Comunità ecclesiali di base dell’America centrale, è stata tradotta in sei lingue, adottata nelle liturgie battiste, luterane, episcopaliane, anglicane, morave, greco-ortodosse e inserita nell’antologia mondiale dei canti della Chiesa metodista. Constata dom Pedro Casaldaliga, vescovo emerito di Sâo Félix do Araguaja, in Brasile: “La Misa campesina è divenuta patrimonio della Chiesa latinoamericana e fa parte di molti canzonieri e celebrazioni in tutto il continente e fuori di esso, Perché traduce alla latinoamericana la fede cristiana e l’impegno per il Regno di Dio, che è, secondo il Vangelo, ‘buona notizia per i poveri’”. E “continua a essere cantata oggi, nutrendo la speranza e l’impegno del popolo”, conclude il gesuita statunitense p. Joseph Mulligan.


CREDO MESSA CONTADINA

Credo Signore fermamente
Che dalla tua prodiga mente
tutto questo mondo nacqué
Che dalla tua mano di artista
di pittore "naif"
sia fiorita la bellezza,
le stelle e la luna,
le casette e la laguna
le barchette che navigano
sul fiume verso il mare
le immense piantagioni di caffè,
le bianche piantagioni di cotone
e i boschi mutilati
dall'ascia criminale
le immense piantagioni di caffè,
le bianche piantagioni di cotone
e i boschi mutilati
dall'ascia criminale

Credo in te,
architetto, ingegnere,
artigiano, carpentiere
fabbro e armatore
Credo in te
costruttore di pensiero
della musica e del vento,
della pace e dell'amore.

Credo in te, Cristo operaio,
luce della luce e vero
unigenito di Dio,
che, per salvare il mondo
nel ventre umile e puro
di Maria si è incarnato.
Credo che sei stato colpito
e con accanimento torturato,
sulla croce martirizzato
sotto Ponzio Pilato,
quel romano imperialista
e oppressore senz'anima
che lavandosi le mani
volle cancellare l'errore
Quel romano imperialista
e oppressore senz'anima
che lavandosi le mani
volle cancellare l'errore

Credo in te compagno,
Cristo umano, Cristo operaio,
vincitore della morte.
Col tuo sacrificio immenso
generasti l'uomo nuovo
per la liberazione.
Tu stai resuscitando
in ogni braccio che si alza
per difendere il popolo
dal dominio sfruttatore.
Perché sei vivo nella fattoria,
nella fabbrica, nella scuola
credo nella tua lotta senza tregua,
credo nella tua risurrezione.
Perché sei vivo nella fattoria,
nella fabbrica, nella scuola
credo nella tua lotta senza tregua,
credo nella tua risurrezione.

Credo in te,
architetto, ingegnere,
artigiano, carpentiere
fabbro e armatore
Credo in te
costruttore di pensiero
della musica e del vento,
della pace e dell'amore.



CREDO MISA CAMPESINA

Creo Señor firmemente
Que de tu pródiga mente
Todo este mundo nació
Que de tu mano de artista
De pintor primitivista
La belleza floreció
Las estrellas y la luna
Las casitas las lagunas
Los barquitos navegando
sobre el río rumbo al mar
Los inmensos cafetales
Los blancos algodonales
Y los bosques mutilados
por el hacha criminal
Los inmensos cafetales
Los blancos algodonales
Y los bosques mutilados
por el hacha criminal
Creo en vos
Arquitecto, ingeniero
Artesano, carpintero
Albañil y armador

Creo en vos
Constructor del pensamiento
De la música y del viento
De la paz y del amor

Creo en vos Cristo obrero
Luz de lucir verdadero
Unigénito de Dios
Que para salvar al mundo
En el vientre humilde y puro
De María se encarnó
Creo que fuiste golpeado
Con escarnio torturado
En la cruz martirizado
Siendo Pilatos pretor
El romano imperialista
Puñetero desalmado
Que lavándose las manos
Quiso borrar el error
El romano imperialista
Puñetero desalmado
Que lavándose las manos
Quiso borrar el error.

Yo creo en vos compañero,
Cristo humano, Cristo obrero,
de la muerte vencedor.
Con tu sacrificio inmenso
engendraste al hombre nuevo
para la liberación.
Vos estás resucitando
en cada brazo que se alza
para defender al pueblo
del dominio explotador.
Porque estás vivo en el rancho,
en la fábrica, en la escuela,
creo en tu lucha sin tregua
creo en tu resurrección,
porque estás vivo en el rancho,
en la fábrica, en la escuela,
creo en tu lucha sin tregua
creo en tu resurrección.

Creo en vos
Arquitecto ingeniero
Artesano carpintero
Albañil y armador
Creo en vos
constructor de pensamiento
De la música y el viento
De la paz y del amor.

sabato 3 marzo 2007

5/Antonietta Potente - 2 novembre 2003


2 novembre 2003 - Camaldoli - Seminario sulla Pacem in Terris
Meditazione su Efesini 2, 11-19

Antonietta Potente


Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da coloro che si dicono circoncisi (perché tali sono nella carne per mano di uomo) eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece in Cristo Gesù voi che un tempo eravate i lontani siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, Colui che ha fatto una unità che nasce dai due, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando per mezzo della sua carne la legge fatta di prescrizioni e decreti, per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio.

Di questo testo vorrei solamente sottolineare tre punti, per aiutarci ad allargare lo sguardo e a sorpassare i dualismi che fanno parte della nostra vita, che fanno parte della vita dei popoli, delle culture e anche di queste pagine.
Io non faccio una lettura esegetica. Dietro questi versetti c’è un contesto pieno di desiderio perché la realtà è ancora profondamente dualista. Noi viviamo un’ansia, non solo spiritualmente, ma anche nelle nostre vite politiche, di impegno sociale, di relazione col mistero: abbiamo sempre la preoccupazione di sapere chi siamo, per metterci di fronte a qualcuno. Due popoli, due culture: sempre questo dualismo, questa dualità.
I tre punti che vorrei riscattare sono precisamente questi:
- La prima parte del testo, la lettura storica: voi eravate lontani da questa appartenenza, da questa cittadinanza.
- Poi la parte centrale: per Cristo, o attraverso di Lui, cambia la situazione.
- E infine il terzo aspetto, che mi sembra profondamente bello, ma che dovremo ampliare: aver fatto dei due un popolo solo. Credo che questo sia il desiderio che ci accompagna: superare i dualismi della nostra vita, spirituali e storici, che ci mettono di fronte a una storia che ormai non è formata da due popoli, ma da molti popoli. Il testo ci mette di fronte alla situazione della diversità, del pluralismo, delle molteplici ritraduzioni della vita, del pensiero, delle ricerche, dei desideri di tanti uomini e di tante donne: non siamo più solo due popoli, non sono più semplicemente due culture, siamo tanti in questa storia. Questa è oggi la sfida più grande per tutte noi, per tutti noi: riconoscere che siamo tanti.

Primo punto.
Eravate lontani, eravamo lontani da questa familiarità, da questa cittadinanza. E’ già un pensiero premeditato: noi pensiamo che ci siano delle persone che stanno ‘lontane da’. Dovremmo aiutarci a capire che c’è solo una lontananza: è la non pace, è la non familiarità tra noi, tra culture differenti, tra popoli differenti. Non è la lontananza nel senso che voi eravate cattivi, noi eravamo buoni, ma è la lontananza della non pace: fino a quando non c‘è la pace, fino a quando non ci sono situazioni di vita nuova, siamo sempre lontani, tutti siamo lontani..
Nel libro della Sapienza si dice che la sapienza grida nelle strade e nelle piazze per farci risvegliare. Ecco, credo che questi primi versetti dovremmo interpretarli come un grido della parola di Dio che ci fa risvegliare non al dualismo, ma a un sogno comune di una vita differente: vivere in pace. Non siamo cittadini: siamo oppressori o siamo oppressi, non siamo persone che costruiscono la città dove imparare ad abitare.
Quindi non è in questione decidere chi sono i più vicini e chi i più lontani; non c’è ancora la pace, siamo ancora lontani. Questa è una chiave di lettura, una luce, per illuminare il cammino verso la pace.

Secondo punto.
L’autore della lettera agli Efesini dice che questo cammino per la pace si intravede a partire da Cristo. La familiarità con la vita di Cristo ci dovrebbe portare alla pace. Dico: ci dovrebbe, perché non siamo così familiari col mistero come pensiamo. Siamo familiari con la religione, con le nostre ideologie religiose, con i nostri stili, con i nostri modi di vivere la religione, ma non con il mistero.
Qui il mistero è un corpo, è il sangue: siamo stati riscattati da questo corpo, da questo sangue. Non è la proposta dell’evangelizzatore che dice: dobbiamo credere in Cristo per essere tutti salvati, se non passiamo di lì non possiamo salvarci. Sembra una proposta molto più profonda e molto più bella. Cristo qui si presenta come una storia differente, un corpo differente, come chi ci aiuta a far memoria della possibilità di una storia differente. E’ quello che dice il salmo: “Guardate a lui e sarete raggianti, luminosi”. Non è il Cristo che viene a spiazzare i signori della storia per mettersi al loro posto, è la vita di Cristo, il corpo, il sangue: questa simbologia a me sembra profondamente bella, una simbologia sottile e umana: il corpo e il sangue sono i simboli della vita, della vita più quotidiana, più semplice, più reale, affettiva, psicologica, razionale, sociale. A partire da qui possiamo intraprendere il cammino della pace.

Terzo punto.
Ha fatto dei due un popolo solo. Leggendo questi versetti a partire dai nostri contesti storici, comprendiamo che essi ci chiedono di ampliare l’orizzonte, di uscire dai ghetti dei nostri popoli, della nostra mentalità, delle nostre piccole o grandi appartenenze.
Io credo che sia importante, appartenere. Venendo a Camaldoli per questa bella strada tra gli alberi, pensavo che per meditare questi versetti dovremmo uscir fuori e guardare gli alberi e sentire che è lì che c’è un desiderio di pace. La pace non c’è, ma c’è un forte desiderio. Tutta la natura, le persone, la nostra vita, le nostre cellule cercano sempre di vivere. Adesso ci sono le foglie gialle con i colori autunnali e poi di nuovo verrà la forza, la voglia di vivere di nuovo. Tutti i tempi della natura e della nostra vita sono importanti e belli. Entrare nella dimensione di appartenere alla vita è la cosa più importante.
Poi ci sono le piccole appartenenze - o grandi, se per noi sono grandi – come l’appartenenza alle nostre tradizioni, come la tradizione camaldolese di questo luogo molto bello e molto importante per tante persone, non solo per quelle che ci vivono, ma per quelle che lo prendono come punto di riferimento.
Però le appartenenze sono importanti se sono dei punti di inizio. Perché altrimenti Paolo o i primi cristiani, i giudei convertiti, si sarebbero fermati lì. Tanta gente si ferma, anche se appartiene a belle tradizioni: pensate ai carismi di molti grandi ordini religiosi, carismi universali, che poi si fissano, se si fa dell’appartenenza un punto di arrivo.
A nessun popolo e a nessuna persona si richiede di rinnegare le sue radici, di non riconoscere da dove viene o chi l’ha fatta crescere, però sì, a tutti noi, per alimentare il sogno della pace viene chiesto di fare delle nostre appartenenze dei punti di inizio, non dei punti di arrivo. Altrimenti continueremo a parlare di due popoli, di due culture, nel dualismo che ha segnato il cristianesimo e la filosofia, facendo tanti danni.
Questi versetti sono molto aperti, perché si dice che Cristo è venuto a fare dei lontani vicini. Si riferiscono a un mondo ampio, non solo alle culture di altri popoli, ma anche alla cultura postmoderna, nella quale, piaccia o meno, gli spazi si sono allargati. La Chiesa ha paura della cultura postmoderna, e preferisce ad esempio parlare dell’inculturazione. Noi pensiamo di star facendo un cammino molto avanzato, anche nella teologia, ma non è così per la postmodernità.
Questi versetti sono un aiuto per continuare a sognare con gli occhi aperti, sapendo che è per questo cammino che dobbiamo continuare.
Dobbiamo anche aiutarci a vedere che fare un popolo solo non significa volere l’uniformità; fare un popolo solo significa creare l’ambiente della pace, con una lenta ricostruzione, mantenendo sempre le dimensioni profondamente umane, che si riferiscono a Cristo, al sangue di Cristo, al suo corpo. Queste sono anche le dimensioni della vita dei cristi, non solo di Cristo, per usare una terminologia cateriniana. I cristi sono le persone che danno il loro sangue. Noi sappiamo però che il sangue è un prezzo troppo alto. Basta!
Quindici giorni fa, per mandare via dalla Bolivia un governo falso, l’ex-presidente, quattro ministri, la moglie del presidente e i nipotini, sono morte cento persone e ci sono stati feriti, mutilati, gente che per sempre sarà segnata. Quasi tutti gli anni in Bolivia, ma anche in altri paesi latinoamericani e in altri continenti per cambiare situazioni bisogna versare del sangue. Nessuno oggi vuol essere martire. Come possiamo continuare a pensare la storia sacrificando gente? Oggi dobbiamo cambiare la teologia del sacrificio, è una teologia troppo sacerdotale nel senso negativo del termine, che fa riferimento al bisogno di offrire sempre qualcosa, altrimenti si perdono persone.
Come aiutarci a vedere che questo sangue, questo corpo, si possono dare in un altro modo? Queste sono le sfide del mondo occidentale, dei movimenti pacifisti o dei gruppi di base: come il nostro corpo può difendere il sogno della pace senza dare il sangue.
Qui si propone Cristo e il mistero, ma Cristo è oggi l’annuncio della vita, della vita umana. Credo che uno dei punti più belli della Pacem in Terris fosse quando Giovanni XXIII ci indicava i segni dei tempi. Sono categorie che ancora adesso ci fanno discutere, che ancora adesso provocano una forte riflessione per cambiare la vita: i popoli, le donne, quello che era il movimento operaio. Tutta la storia quotidiana di gente che deve lavorare per vivere, che non ha tempo da perdere, che deve lavorare anche tanto per poter appena vivere.
L’invito di questi versetti e di tutta la meditazione che state portando avanti in questi giorni è precisamente quello di ritornare a guardare la nostra storia per riscoprirci in molti: non siamo due, siamo tanti e dobbiamo imparare a vivere, perché siamo tanti.

Risposta alle domande

Io credo che la questione del centro, della piramide, della gerarchia sia rappresentato dai nostri monologhi. Io sento che portiamo avanti dei monologhi: li portano avanti la Chiesa, gli uomini. Dove stanno le donne? Nella Pacem in Terris uno dei segni dei tempi erano i movimenti: erano uno scandalo in quel momento quei movimenti femministi. Erano le donne. Adesso io rivendico questo spazio non come donna, ma come segno della necessità di riscoprire sempre delle alternative: le donne sono alternative. E invece abbiamo una politica profondamente maschile, per non dire maschilista. Abbiamo una Chiesa profondamente maschile, per non dire maschilista, formiamo la società sempre con questi parametri unidirezionali di quello che già conosciamo.
Chi ha paura? Ce l’abbiamo noi: ce l’ha la Chiesa, ce l’ha la democrazia, un certo tipo di democrazia. Ma i poveri, questi nuovi nomadi, tutta questa gente che si sposta da un paese all’altro non ha paura; se avessero paura non si sposterebbero, non rischierebbero quello che stanno rischiando.
Io so che dovrebbero rimanere nei loro paesi, nelle loro culture, ma questi sono gli ideali delle persone che leggono i libri: se voi foste in quei paesi, vi spostereste anche voi, dopo 5 minuti.

Salvare le culture, salvare la nostra, i nostri grandi ideali democratici: ma quale democrazia? Voi vivete in democrazia per quel che riguarda la salute e gli ospedali? E’ stato citato il sistema dell’informazione, dei mezzi di comunicazione, ma anche questi sistemi così necessari, di cui abbiamo bisogno quotidianamente, non mi sembrano tanto democratici.

La gente che si sposta, questi infiniti nomadi postmoderni, sono persone che solo vogliono vivere, cercano solo il diritto minimo che hanno tutti le persone del mondo. Per cui io credo che davvero dobbiamo non fidarci tanto di quello che già sappiamo. Ci sono delle alternative, però certo, le alternative mentre ci attraggono ci fanno paura, perché sono troppo alternative.
Questo è già successo. Se si studia la storia della Chiesa o la storia in generale, si vede che certi gruppi hanno sempre avuto paura. La logica a rovescio che indica Paolo nella lettera ai Corinti è la sapienza della Croce. La sapienza della Croce non è un crocifisso, la sapienza della Croce sono le logiche di speranza che solo cercano la vita e la cercano davvero.
Noi abbiamo bisogno di riscoprire dei soggetti, quelli che Giovanni XXIII già metteva in luce e che non sono solo i soggetti del ‘63 o del ‘65 o del ‘68, sono soggetti che oggi possiamo definire meglio. Dobbiamo uscire dai nostri monologhi perché noi abbiamo degli strumenti in più per giudicare la realtà, per giudicare i fenomeni. E’ una cultura della pace, ci sono dei parti molto difficili dentro questa realtà, parti non per le guerre, non per armarsi o per versare nuovo sangue, ma dei parti nel senso che ci sforziamo di pensare in un altro modo, ascoltando altre persone.
La fantasia non è finita. Io credo che la teologalità cristiana sia precisamente questa: la possibilità di continuare ad ascoltare l’impossibile, o la possibilità che tu non vedi e l’altro vede. Io credo che davvero tutta questa gente che si muove non è solo una minaccia per l’economia, è un altro mondo, è la possibilità di creare un altro mondo.
Noi ci vantiamo tanto della democrazia, ma quante lotte anche dentro la democrazia. La democrazia non è un modello assoluto. Forse oggi è il tempo di trovare degli altri modelli, ci sono altre soluzioni. Però le soluzioni partono dal basso, non partono dai nostri monologhi o da affermazioni come: “Sempre abbiamo fatto così” o “Questa è la nostra tradizione”. In questo momento io credo che anche la Chiesa e il cristianesimo dovrebbero essere un’alternativa, ma di fatto non lo sono. La Chiesa è l’istituzione che ha più paura: delle donne, dei poveri. I poveri nella Chiesa hanno spazio solo se possono essere assistiti, quando sono intelligenti e fanno i loro cammini, i poveri non ci piacciono tanto, perché non servono più.

4/Antonietta Potente - 6 novembre 2005

6 novembre 2003

La religiosità della vita: una proposta alternativa per abitare la storia
Antonietta POTENTE


Gianni: ‘La religiosità della vita: una proposta alternativa per abitare la storia’: su questa provocazione la sera del 6 novembre 2003 Suor Antonietta Potente ha parlato a Roma, ad un incontro organizzato dal CIPAX, che con questo titolo aveva pubblicato un suo testo nel giugno del 2003. Antonietta Potente è una teologa domenicana che dal 1994 vive in Bolivia, dove insegna teologia, vive in una comunità indigena e partecipa attivamente ai movimenti popolari, all’interno dei quali intravede le nuove vie della vita consacrata.


Intervento di Antonietta Potente


Avere risposte sicure o aiutarci a non abbandonare la ricerca?
Il titolo del libro che si riferisce a una proposta alternativa per abitare la storia è forse un po’ arrogante, nel senso che io credo che non ci sia nessuno in questo momento che abbia una riposta chiara, o possa dire: “Questa è la risposta”. Credo che sia precisamente questo che dobbiamo imparare in questo momento storico: non tanto ad avere delle risposte sicure, ma a non abbandonare la scelta della ricerca.
La tentazione di avere delle risposte sicure è propria delle persone che credono di avere già scoperto tutto, o di tenere tra le mani o nella loro intelligenza la verità. E invece io credo che la proposta evangelica sia precisamente il contrario: non è tenere tra le mani la verità, ma è seguire delle piccole luci che la verità permette di vedere lungo questa camminata storica. Per cui credo che il desiderio di incontrarci per vedere se c’è una proposta di vita alternativa, non sia tanto per avere delle risposte – io oltretutto sono una persona sempre meno adatta per dare delle risposte – ma per aiutarci a non abbandonare la ricerca. Questo mi sembra un problema forte oggi, non solo nei popoli più stabili, con le tradizioni più antiche, come i popoli europei, ma in tutti i popoli, per differenti motivazioni.

Io credo che una delle proposte che non riusciamo a coltivare è precisamente questa del restare in piedi e svegli in questa ricerca. Le grandi ideologie non ricercano più, si sono fermate intorno a loro stesse. Anche le più belle, anche quelle che ci avevano dato grandi speranze. Lo stesso grande sogno evangelico resta per noi come una meta, però non riusciamo a risvegliarci intorno a questo sogno e a dire che ci mette in movimento. La Chiesa in questo momento storico non ci aiuta molto a restare svegli. Tutti cercano di darci più o meno delle sicurezze. L’ideologia che più ricerca queste risposte di false sicurezze è l’ideologia del mercato, ma sappiamo che non ci serve. Per cui quello che vorremmo fare non è tanto dire: “guardate che questa è un tipo di vita alternativa” o “bisogna scegliere tra differenti alternative”, ma piuttosto scambiarci la forza per continuare a cercare: a cercare anche quello che non conosciamo, quello che è sconosciuto. Forse questa è la parte mistica della vita delle persone.

Riscoprire l’unità di vita tra pubblico e privato
Credo che in questo momento storico le situazioni che viviamo abbiano bisogno di riscoprire una profonda unità. Il sogno che traccia questo testo o altre riflessioni che facciamo in altri contesti è precisamente quello di riscoprire una unità di vita tra quello che noi consideriamo pubblico e quello che consideriamo privato: l’idea di costruire la casa. La casa non può essere oggi solamente un luogo privato, la casa è un punto di partenza, di inizio. Il mondo quotidiano deve diventare un mondo di ispirazione per trattare con il mondo pubblico.
Io credo che la grande crisi delle ideologie, di questi grandi pensatori che hanno aperto dei cammini lungo la storia, sia stata determinata precisamente dal dimenticare che non si possono dividere la persona umana e i gruppi sociali in due pezzi, tra pubblico e privato. Le grandi sapienze storiche o religiose, mistiche, lungo la storia sempre ci hanno richiamato all’unità di vita, quella che poi nella vita quotidiana dei cristiani chiamiamo la ‘testimonianza’, cioè dire meno parole e vivere. Questa è la cosa più semplice che possiamo fare. Per cui quando accogliamo delle intuizioni sapienti, riceviamo questa chiamata a tornare a una vita più unitaria, meno dicotomica, meno dualista.
Stiamo soffrendo questo: abbiamo fatto dei grandi programmi sulla giustizia per i nostri popoli, in base alle nostre politiche sociali ed economiche, però il risultato è una giustizia tremendamente anonima. Non ci siamo resi conto che non ha volti concreti, è una giustizia che cerca falsi equilibri, anche se dettata da certe ideologie.
La vita unitaria è una vita profondamente sensibile, dove il corpo parla, l’intelligenza parla, ha il diritto di essere riconosciuta. Per questo dobbiamo pensare una giustizia attenta alla diversità, alla diversità di genere, di cultura, di religione.

Superare le paure
Questo è una ricerca forte, che deve anche superare le nostre paure: non conosciamo un altro tipo di storia. Per questo credo che ci possa aiutare la vita della gente semplice che non ha paura del futuro, anzi lo ricerca.
A me impressiona sempre di più questo nuovo nomadismo che si sta generando nelle nostre società. Noi lo leggiamo come fenomeno negativo, a livello economico, sociale: la gente si muove perché sta cercando la sua sopravvivenza, economicamente, intellettualmente ecc. Io credo che in questo ci sia una sapienza che dobbiamo raccogliere e che questo nuovo nomadismo sia un po’ la chiave di lettura per scoprire come non avere paura del futuro, come cercare questo futuro attraverso nuove situazioni che la lotta per la sopravvivenza, la ricerca di vita, provoca nelle persone.
Il problema è che a noi fanno paura i nomadi, cioè tutto quello che è ricerca, cammino. La precarietà di questa ricerca a noi fa paura, soprattutto fa paura alle grandi ideologie, alle grandi tradizioni che pensavano di sapere già dove incominciare e dove finire.
Riscoprire oggi un senso mistico della vita credo sia diritto di tutti i cittadini, donne e uomini, giovani, credenti e non credenti. Perché il diritto alla mistica non è il diritto ad avere delle visioni strane o ad essere dei privilegiati in questioni di mistero, ma è il diritto ad essere persone che fanno esperienza col proprio corpo del dono della vita. Il diritto alla mistica oggi è il diritto che hanno tutte le donne e tutti gli uomini a vivere in pienezza la vita.

Una mistica per il nostro tempo
Per cui non si tratta di creare nuovi luoghi o nuovi stili di vita. Non credo che dobbiamo perdere tempo nell’inventare o fondare nel mondo della Chiesa nuove chiese - ne abbiamo già abbastanza - o nuove religioni o nuove congregazioni o nuovi gruppi. Si stanno moltiplicano molto i gruppi, non solo nel mondo religioso ma anche nel mondo laico. C’è un po’ questa tendenza perché pensiamo che rinnovare la storia è fondare, essere originali. Io non credo che in questo momento questi fatti storici ci chiedano di essere originali, per cui sempre andiamo in cerca dell’esoterico.
Questa è una malattia che sta prendendo l’Europa e i mondi ricchi: l’esoterico, sempre qualcosa di molto affascinante. Ma la cosa più affascinante è la vita, la vita con le cose reali: sapere quanto costa vivere è un’esperienza mistica delle più intense, delle più reali; è quella che ci permetterà di costruire davvero una casa differente con altre persone, dove non ci scopriamo dei privilegiati, della gente che può permettersi tutto, ma piuttosto - nella grande sapienza della tradizione cristiana - persone che hanno bisogno degli altri e quindi cercano questo contatto.
In questo senso a me sembra che i soggetti più eloquenti in questo momento storico siano le grandi masse di persone che si muovono per cercare la vita, nelle cose più essenziali. A noi fanno tanta paura, ci mettiamo d’accordo per inventare leggi sempre più pesanti nei loro confronti e invece io credo che la grande sfida per donne e uomini amanti della vita è avvicinarsi con questa passione storica a questo nuovo linguaggio di una vita che sì, ha tante contraddizioni, come già ha forti contraddizioni la post-modernità, però mi sembra un tempo profondamente bello per poter imparare a vivere.
Ricercare quindi uno stile politico, spirituale, più mistico, ricercare una mistica nella politica, ricercare una mistica nella vita di fede di una comunità cristiana o nella vita di qualsiasi persona, credente o non credente, io credo sia davvero aprirci al gusto di continuare a cercare e non stancarci in questa ricerca.

Imparare nuovi linguaggi
Dobbiamo imparare anche dei nuovi linguaggi. C’è sempre da imparare. A volte noi pensiamo che già sappiamo parlare, sappiamo scrivere, sappiamo interpretare e poi arrivano momenti nella vita che ci insegnano un’altra lingua. E non mi riferisco alle lingue grammaticali, mi riferisco a questi criteri di vita che ci portano a ripensare tutto, però a riscoprire delle cose che prima non sapevamo. Questa è l’esperienza più bella che dobbiamo accompagnarci a fare. C’è un’immagine molto bella delle beatitudini, dove la sintonia tra Gesù e la folla che stava lì per cercare qualcosa, aveva fame, sete, si dà precisamente perché hanno la stessa sete, cioè la stessa ricerca della giustizia.
Certo, se questo nomadismo storico per noi è solamente una minaccia o è un fenomeno che bisogna contenere e tollerare, questa non è la sapienza delle persone amanti della vita. Bisogna imparare un’altra volta a vivere, a vivere di nuovo in altri modi e non c’è nessuno che ha la ricetta. Nell’ambito ecclesiale purtroppo siamo troppo abituati ad avere delle ricette: tutti, quelli più chiusi, più tradizionalisti e anche quelli che pensano di essere più aperti, di aver scoperto grandi cammini. In questo momento siamo tutti apprendisti. Bisogna imparare un’altra volta a far politica, a ripensare la convivenza umana, a sognare con altra gente che ‘un altro mondo è possibile’, come si diceva a Porto Alegre, a pensare che ci sono altre forme di relazione con il mistero.
Queste cose le dobbiamo di nuovo imparare, non ce le dice nessuno, le possiamo solo imparare tra noi e con tutti.
Prima il parroco della Trasfigurazione, che ci ha accolto in questa sala, diceva che è normale che la vita religiosa sia una vita di profezia, in certi posti del mondo dove ci sono dei forti conflitti. Ma quindici giorni fa in Bolivia i protagonisti non erano i religiosi. Chi è riuscito a mandare via un presidente – dovrebbe insegnarlo a molti, visto che siete malmessi qui in Italia - è il popolo, la gente comune. Neanche i dirigenti politici dell’opposizione. Certamente è stato pagato un prezzo terribilmente alto: solo in un giorno (senza contare tutti i feriti dei giorni precedenti e seguenti) 78 persone hanno dato la vita per mandare via quattro persone.
Però io credo che oggi non possiamo leggere la storia per vedere chi sono i profeti, i protagonisti; la nostra preoccupazione è riconoscere, come la Chiesa diceva un po’ di anni fa (a volte ce ne dimentichiamo ed è bene ricordarlo), questi segni nuovi, dove i protagonisti sono sempre persone che hanno delle seti, dei desideri molto reali. Non sono teorie, sono dei bisogni concreti che ci aiutano a metterci in cammino.

Cercare sempre
E penso che a quelli che credono non resti altro che dire quello che diceva Gesù nel vangelo e che credo dicano tutti i sapienti veri, i ricercatori veri della storia, credenti e non credenti: “Ti benedico perché ci sono altri che capiscono le cose”. Noi dobbiamo solamente unirci a queste ricerche, a queste ricerche concrete di vita, con tanti bisogni concreti di dignità, di poter continuare a vivere, di uscire da situazioni di precarietà; di unirci anche con i desideri molto umili di tutti coloro che sempre nella loro vita cercano.
Io credo che anche il dialogo interreligioso e interculturale, oggi si possa vivere solo intorno alla ricerca e continuare a cercare. Là dove le persone sono troppo sicure di quello che hanno scoperto, credo che ci siano grandi difficoltà. E anche là dove si pensa che la soluzione sia per esempio il mercato, avere o non avere determinate cose, credo che ci siano difficoltà e quindi che dobbiamo incontrarci, ritrovarci per poter pensare bene cosa facciamo con le nostre cose, con quello che già abbiamo, per capire come lo possiamo condividere.
Ci sono tanti segni positivi, tanti segni di vita nella storia. Io credo che questo movimento di ricerca che si sta generando in tutti i paesi del mondo, questo movimento che supera divisioni sociali, divisioni religiose, questo sogno di un altro mondo possibile sia qualcosa di bello che noi dobbiamo coltivare. Se non lo facciamo direttamente, perlomeno alimentare questa sete dentro le persone più giovani che cercano l’iniziativa.
I partiti certamente si sentono un po’ spiazzati, le grandi ideologie si sentono spiazzate da questa irruzione, da questo entrare così forte di un desiderio di incontro che supera la religione, le utopie classiche; di conseguenza incominciamo a dire che le persone sì, si incontrano, ma molto superficialmente, non sanno perché si incontrano. Io credo che la gente abbia voglia di incontrarsi in un altro modo: ha voglia di un’altra politica, ha voglia di un’altra economia, anche se concretamente poi bisogna passare per questa politica, per questa economia - possiamo dire anche per questa Chiesa - per arrivare a un’altra cosa che nessuno conosce ma che stiamo cercando e che, proprio perché nessuno la conosce, la dobbiamo costruire insieme.

Fare casa nella storia
Quindi il discorso della casa sul quale si conclude il libretto sulla religiosità della vita non è tanto che qualcuno ha già la sua casa e ci invita, ma che la casa bisogna costruirla: bisogna rifarla tutta dalle fondamenta. Credo che questa sia la vita delle comunità politiche, sociali, umane. Ma la casa si fa con un altro materiale. Non è più il materiale delle grandi culture, così dicotomiche.
L’altro giorno a Camaldoli mi facevano commentare il capitolo 2 della lettera agli Efesini, dove Paolo dice che “di due popoli ne ha fatto uno, facendo la pace”. A me faceva molta difficoltà commentare questo testo, perché non credo che esistano solo due popoli. E’ ancora una mentalità profondamente riduttiva, quella di pensare che qui stiamo ancora discutendo tra cristiani e non cristiani, tra mussulmani e cristiani ecc. Ci sono molte più energie di vita e molti più sogni in giro in questa storia, per poter ricostruire la casa. C’è un altro materiale: non sono più queste vere e belle tradizioni, questi grandi materiali che sono importanti, che saranno forse una parte di questa costruzione, perché ce ne sono altri e dobbiamo riscoprirli.


DISCUSSIONE

Le prime due domande vertono sul nomadismo, sulla presenza-accoglienza degli immigrati, sulle regole e sul concetto di mistica.

Sr. Antonietta: Io credo che tutti i mondi abbiano bisogno di regole, il problema è vedere quali regole ci diamo. Non so cosa sostenga il cardinal Biffi, perché non ero qui quando ha parlato, ma non credo che possa essere una regola decidere se una cultura è pericolosa o no. La questione della cultura oltretutto è molto complessa, le persone che vengono nel nostro paese non sono rappresentanti culturali, ma persone che vivono situazioni molto concrete. Certamente bisognerà trovare delle regole, capire anche chi le detta, cioè qual è il criterio che ci aiuta a scegliere le regole. E’ una nuova situazione e per questo io non credo - può darsi che mi sbagli, perché non vivendo questa realtà io posso non capirla bene, mentre voi la vivete molto da vicino – che la si possa affrontare con dei preconcetti. E mi sembra di capire che politicamente, e anche a livello ecclesiale, ci sono molti preconcetti. Tutto quello che è straniero ci fa paura.
Io credo che se parliamo del pensiero di un membro della Chiesa, come può essere il cardinal Biffi o altri che si esprimono su queste cose, il criterio non possa essere che quello evangelico e il criterio evangelico non ci permette di fare delle distinzioni tanto sicure sulle culture, ci chiede di ricreare una situazione. Forse questo è un miracolo. Impareremo a far dei miracoli in questa situazione nuova. Quello che io sento è che queste persone che arrivano ci disturbano, anche i più sensibili e impegnati di noi: ci disturbano, perlomeno perché non sappiamo cosa fare, non sappiamo come trattare questa nuova problematica. Quindi, ripeto, non ci sono soluzioni, c’è una metodologia: la metodologia di cercare insieme la ricostruzione di una convivenza in questa nuova situazione.

E’ qui forse che entra il discorso della mistica. Io non entro nello specifico di questo termine, che certamente indica tutta la ricchezza del mistero: qualcosa che io percepisco come presente, però non lo posso intendere tutto. Però questa sera stiamo usando questo termine per ridare significato vero alla ricostruzione di cui parlavo. Io credo che siamo in un momento di rifondazione di relazioni, di nuove strutture che sentiamo che devono essere più di base.
La mistica non è parlare dell’occulto: è parlare del corpo, dei corpi di uomini e donne concreti, e parlare della loro vita, della nostra vita. La vita è un mistero, perché non la possiamo contenere tutta nelle nostre ideologie, nei nostri ragionamenti. Aiutarci o risvegliarci per ritrovare il senso mistico della vita è, a mio avviso, ritrovare la vita quotidiana, le necessità, i bisogni più veri della persona umana, i suoi bisogni affettivi, i suoi bisogni reali di essere una persona che costruisce la sua vita. Questo fa parte del mistero per credenti e non credenti.
Oggi la problematica mistica non è privilegio di pochi illuminati, oggi la problematica mistica è davvero il desiderio di arrivare al fondo delle cose. Non servono più tante parole, tante grandi ideologie che, come dicevo, ci hanno uniformato, ci hanno tolto i nostri volti. Dobbiamo riconoscerci. E questo è un diritto che abbiamo dentro la nostra storia. Tutti vogliamo toccare davvero il punto fondamentale della vita, non perdere più tempo in cose che fanno vivere solo poche persone o addirittura non fanno vivere nessuno.
Certamente dietro il termine ‘mistica’ c’è tutta una tradizione; ma io credo che basterebbe trovare una chiave di lettura, per capire meglio anche la tradizione dei grandi mistici, delle grandi mistiche, che non è la tradizione dell’esoterico, bon è dire: “mi avvicino a queste persone perché mi diranno qualcosa sull’occulto, faranno alcune magie su di me e sulla storia”.
No, abbiamo bisogno, in questo momento, nella politica, nella Chiesa, nelle nostre vite domestiche, di donne e uomini profondamente reali e quotidiani, cioè di persone che hanno familiarità con il corpo, con la problematica del corpo, con le esigenze della persona umana, della sua affettività, superando le dicotomie tra il grande ideale politico e la vita quotidiana. C’è solo una vita, che è mistica ed è anche politica.

Domanda: I segni dei nostri tempi, così come vengono fuori dal discorso di Antonietta, sono segni pesanti da portare: la paura della diversità, del futuro, la fine delle ideologie… sono tutte cose delle quali ci siamo liberati, ma al posto delle quali i segni positivi sembrano pochi. Forse devi tornare tu dalla Bolivia per farci fino in fondo questo discorso sulla nostra povertà. Invece come segno positivo tu portavi il riferimento al bisogno, alla ricerca della vita che tu chiami ‘mistica’. E l’attenzione, l’accoglienza ai migranti al nomadismo. Forse questo dover andare è più interno a noi di quanto pensiamo.
Questa è una situazione che secondo me ci spiazza completamente e che in parte io non riesco nemmeno a vedere come positiva perché è spaesante perché apre su altre situazioni. Non posso fare a meno di pensare che uno straccio di ideologia o un ideale che, come è stato nel passato, trascini tante forze nella storia, oggi non c’è. Terracini diceva: “Noi abbiamo fatto rimettere la coppola in testa ai contadini”, nel senso che prima stavano sempre con la coppola in mano davanti al padrone. Ecco, qualcosa che ci trascini oggi non c’è; dobbiamo prenderne atto, non è che rimpiangiamo le ideologie del passato.
Quello che volevo chiedere ad Antonietta, di fronte a questa situazione che a me sembra abbastanza pesante, era un’ulteriore riflessione su quello che lei chiama ‘amare con tenerezza’. Perché in questa situazione qui in Occidente, che poi si traduce in competitività sul posto di lavoro o in tante altre difficoltà che minano le basi di una convivenza civile, mi sembra che questo ‘amare con tenerezza’ sia una risposta positiva che scalda il cuore, di fronte a questo senso di disastro che viviamo. E mi sembra anche una risposta minima.

Domanda: Hai detto che non è necessario essere protagonisti di qualche cosa, ma che questo è un tempo di costruire relazioni, piuttosto che di creare delle cose nuove. Per me è una cosa importante su cui riflettere e credo che ci passerò del tempo.
Invece una cosa su cui non mi sono sentito completamente in sintonia è il tuo discorso della mistica, perché io personalmente non riesco ad accontentarmi di amare Dio solo nel prossimo, io credo che sia necessario anche amare Dio a tu per tu. Mi pare una cosa molto bella. Se qualche momento della nostra vita sperimentiamo questo ‘lasciarci infiammare’ da un rapporto bilaterale, a tu per tu, tra l’uomo e Dio, penso che sia una cosa che arricchisce molto e che magari poi dà anche la forza, se uno è chiamato a farlo, a lavorare in mezzo agli altri. Ma in teoria è una grande vita anche quella dell’eremita che sta solo in questo fuoco tra Dio e l’immagine di Dio che porta dentro di sé e da cui si sente continuamente provocato e lacerato.

Domanda: Aggiungo a quest’ultima un’altra piccola questione: come riuscire ad amare Dio nella sua assenza, come mettere assieme la presenza di Dio e la sperimentazione quotidiana della sua assenza, per esempio, in una sofferenza senza senso?

Sr. Antonietta: Incomincio col rispondere alla prima riflessione. Io sono consapevole che ci sono vari mondi, per cui ci sono varie prospettive di lettura. In questo momento c’è gente profondamente pessimista e ci sono alcuni invece che hanno ancora un briciolo di speranza. Credo che la speranza però abbia ragion d’essere precisamente perché è molto vicina alle cose reali. Io credo che il pessimismo si dà soprattutto quando non abbiamo cose reali da pensare.
La questione del nomadismo non me la sono inventata io. Ho letto la traduzione di un libro di Toni Negri e di un altro autore inglese il cui titolo è ‘Impero’. Mi è sembrato profondamente lucido nella lettura che fa di questo grande movimento che si crea per colpa dell’Impero, per certe leggi, per certe logiche. Mi sembra un aspetto che dovremmo riprendere e ripensare, perché gli autori parlano anche di una certa possibilità di disobbedienza a questo tipo di sistema. Loro pensano che certo, sarebbe un tipo di movimento da gestire, da organizzare, che deve prendere coscienza di quello che sta vivendo; però a me ha aiutato a ripensare tante cose e a trovare anche qualcosa di positivo - anche se vivere in certi paesi, dove si vede un esodo di massa tutti i giorni, certo dà rabbia, dà sconforto. Però a me sembra anche che dobbiamo aiutarci a rileggere in positivo il fatto che la storia la faranno altre persone.
Io non credo poi che siano cadute le utopie. Sono caduti quelli che pensavano di tenere in piedi le utopie e questa è un’altra faccenda, L’utopia è un po’ la mistica dei popoli.
A proposito dell’amore con tenerezza, della mistica. Non penso neanch’io (forse mi sono spiegata male) che Dio si ama solo attraverso determinate regole o stili di vita. Io credo che la mistica può anche non parlare di Dio. A me sembra bella perché parla della esperienza delle persone. Noi abbiamo fatto della mistica una questione su Dio, invece è un desiderio umano: la mistica è il gusto dell’incontro con qualcuno, con qualcosa, sentire che tocchi il centro di una esperienza. In questo senso è un diritto di tutti e di tutte perché non è solo una questione religiosa. La storia, tutti i fenomeni storici, la creazione, tutta questa problematica ecologica di risorse naturali, ha un diritto al riconoscimento, a essere incontrata, a essere ritrovata nella sua verità. Io come ‘mistica’ percepisco questo.

La domanda su come ritrovare Dio nella sua assenza. Io credo che Dio sia sempre assente, non solo quando soffriamo, sempre. Io non l’ho mai visto e credo che questo faccia nascere di nuovo la voglia di continuare a cercare. Dio è sempre assente, anche quando siamo contenti, perché sono solo gli altri, è la storia, sono le situazioni storiche, quelle che ci portano a incontrare la vita. Per qualcuno poi questo incontro con la vita ha un nome specifico: come credenti lo riconosciamo come il Dio della vita con tutta la teologia dell’incarnazione; per altri ha solo il nome della vita. Però io non credo che la questione mistica sia solo una questione di presenza/assenza, perché - io credo che gli ebrei avevano intuito delle cose belle in questo senso - Dio è Dio, noi siamo noi. E per fortuna che è così, perché credo che l’amore non è che si coltiva solo perché vediamo delle cose, ma anche perché queste cose le inventiamo, le torniamo a ricreare in questa profonda libertà, in questo profondo sogno. Gli unici contatti che abbiamo con Dio sono i contatti con la vita.

Mi viene chiesto di parlare della Bolivia
Io credo che questo sia stato un momento importante. Purtroppo ci sono dei popoli che a questi momenti importanti ci sono abituati, perché tutti gli anni c’è qualcosa di importante.
Le notizie si sanno solo quando ci sono grandi quantità di morti, però ce n’erano state anche prima. Questo signore, Sanchez de Rosada, che se n’è andato a Miami con altri quattro ministri, sua moglie e i nipotini (perché i figli già stavano là), aveva incominciato il suo nuovo governo (perché era già stato presidente) il 6 agosto dell’anno scorso e in questi pochi mesi, cioè dal 6 agosto dell’anno scorso a ottobre quando se n’è andato, il suo governo ha avuto più di cento morti per conflitti sociali. Questa volta non ha messo lo stato di assedio, come aveva fatto nel governo precedente, forse perché pensava di salvare la situazione, però c’è stata una reazione profondamente violenta.
Quando si parla di reazione violenta bisogna pensare come sono questi scontri. Da una parte c’è tutto un sistema di forze armate, di polizia che ha in dotazione strumenti per reprimere i movimenti sociali, dall’altra parte ci sono forze sociali molto quotidiane: non sono nemmeno solo i dirigenti, che in questo momento stavano all’opposizione del governo, ma donne e uomini di quartiere, persone giovani, che hanno cominciato a dire ‘basta’ prima su alcuni punti concreti, sulla questione del lavoro, poi sulla questione del gas, questa risorsa naturale di cui la Bolivia è ricca.
Dato che la Bolivia non ha sbocco sul mare, il governo stava discutendo se il gas doveva uscire dal paese, per essere venduto, passando per il Cile o per il Perù. Però la questione non era solo decidere da che parte doveva uscire - anche se forse era la più conosciuta, perché si cerca di sottolineare questo per far vedere che la gente non capisce niente, che sono così rudi da non capire che l’importante è che si venda il gas. No, il problema è precisamente: perché dobbiamo vendere il gas? Perché dobbiamo vendere tutto? Infatti da un po’ di anni si sta vendendo tutto.
Quindi il problema non è legato solo ad odi politici storici, cioè non far passare il gas per il Cile perché sono nostri nemici, ci hanno rubato il mare ecc., il problema è la questione della vendita. Quello che si sta chiedendo è che questa decisione non sia una decisione solo del governo, ma che si arrivi a un referendum, cosa che in Bolivia non si usa.
Questo si chiede per il gas e si chiede per il famoso accordo di libero commercio, l’ALCA, che è un altro inganno che ci sta piovendo sopra, così come già è piovuto in altre occasioni su altri popoli dell’America Latina. Per cui c’è un’inquietudine di protagonismo reale a livello sociale. Certamente il fatto che il governo aveva una forte opposizione, rappresentata da dirigenti politici che appartengono a differenti zone, da differenti movimenti sociali di base o indigeni, ha reso più facile che il popolo dalla base abbia potuto organizzarsi e resistere. Però non è la prima volta, avevamo già avuto la guerra per l’acqua nella zona di Cochabamba. Questa volta questa lotta è partita da La Paz, che è una città più grande, che ha suoi particolari problemi.
Quello che è importante in questo momento non riguarda solo la Bolivia, ma è quello che sta succedendo in America Latina. La Bolivia è un punto. C’è l’Argentina che in questo momento sta cercando di ricostruirsi, anche se ancora con lo stile dei partiti politici, però con nuovi protagonisti. Non so se avete ascoltato il discorso del presidente argentino all’ONU, assai critico, che ha cercato di provocare il riconoscimento della responsabilità del Fondo Monetario, della Banca Mondiale ecc. Poi c’è questa grande utopia del Brasile con Lula, che è importantissima.
Io credo che, a parte la tristezza di vedere che sempre per mandare via delle persone bisogna versare tanto sangue, c’è questa speranza non tanto di soluzioni (perché credo che nessuno abbia soluzioni), quanto di vedere che ci sono dei protagonisti sempre alternativi, dentro questa storia, a livello latinoamericano o a livello mondiale. Io credo che noi dovremmo cogliere anche questo come segno dei tempi. Anche se tutto è profondamente precario.
Adesso la situazione è che, mentre l’ex presidente scappava con i suoi ministri, contemporaneamente il vice presidente assumeva la presidenza. Questo a livello costituzionale, per cui non abbiamo avuto bisogno di colpi di stato, cose molto frequenti in queste politiche internazionali. Il vicepresidente ha formato rapidamente, in un giorno e mezzo, un nuovo gabinetto presidenziale, formato da gente che non appartiene a partiti politici, così che questa grande partitocrazia corrotta in questo momento è spiazzata, vedevi le facce tristi di questi signori che continuano a mangiare, ma che vedono un po’ il pericolo.
Di questi nuovi ministri due sono indigeni e gli altri sono intellettuali, economisti, sociologi, gente che ha una certa autorità intellettuale e morale, almeno fino ad ora, persone che non sono state coinvolte in fatti di corruzione, che è uno degli aspetti più forti nella politica e nell’economia boliviana e di altri paesi (e anche da voi). Per cui mentre l’ex-presidente scappava si faceva festa.
I movimenti di base e soprattutto il movimento dei minatori e dei contadini, che rappresenta varie fasce indigene, sono molti esigenti in questo momento, per cui danno anche dei tempi stretti: se in poco tempo queste persone non riescono a mostrare che si possono fare dei passi avanti, hanno promesso che ricominceranno a usare la stessa tattica, quella di isolare completamente tutte le province. Credo che avrete saputo di più degli ultimi dieci giorni, però erano già quindici giorni che si viveva in isolamento in alcune province, con la chiusura di alcuni aeroporti. Era interessante perché l’ex presidente non aveva neanche un aereo privato per scappare (non siamo come Fujimori del Perù), per cui è uscito dal paese con l’aereo di linea che alle dieci di sera parte sempre da Santa Cruz de la Sierra per Miami. Lo hanno coperto, nascosto. Prima il Perù alle 4 del pomeriggio ha mandato un elicottero abbastanza grande (noi non abbiamo elicotteri), forse era uno degli elicotteri che ci avevano mandato per il riscatto di alcuni turisti americani dopo una slavina. E lì s’è capito che stava succedendo qualcosa, perché il vicepresidente non s’è più presentato, non ha fatto nessun discorso alla nazione e con lui è scappato anche il ministro degli interni, una figura molto ambigua e profondamente violenta.
Una delle cose che si chiede a questo nuovo governo è che faccia rientrare queste persone per iniziare un processo, perché l’ex-presidente non ha solo 68 morti sulla coscienza, ne ha molti di più. E poi oltretutto la menzogna. Nel suo governo precedente aveva già venduto gran parte del paese, soprattutto delle miniere di cui lui è uno dei grandi azionisti, e adesso cercava di vendere anche questa nuova ricchezza che è il gas. Bisogna anche essere realisti: l’economia è quella che è, non c’è nessun popolo che possa gestirsi da solo - anche quando sono molto ricchi, come per esempio il Brasile - per cui dobbiamo essere realisti nell’aspettare che tipo di reazioni internazionali si possono avere intorno a questa nuova situazione.

Domanda: Alcuni temi che Antonietta ha affrontato credo che siano molto difficili da recepire da parte della cultura dell’Occidente e quindi vorrei che ci dicesse come possono diventare attività di ricerca.
Primo. Antonietta ha detto una cosa forte, ma che è una realtà: non saremo noi fare la storia, saranno altri popoli, altre realtà, altre culture. Questo è un dato di fatto, basta renderci conto di quanti sono gli abitanti del mondo, di come è fatto il mondo e basta rendersi conto del ruolo sempre minimo che l’Occidente ha avuto, pur avendo la totalità del dominio. E su questo tema, che è molto forte non riusciamo a togliere quelli che Antonietta giustamente ha chiamato ‘pregiudizi’, perché i nostri manuali di scuola, i nostri manuali di università, le nostre mostre, i nostri musei ecc. sono fatti in un certo modo, sono fatti per portare avanti l’idea che al di fuori dell’Occidente non esiste niente altro. E quindi siamo pronti ad accettare gli altri, anche tutti questi popoli nomadi, soltanto se accettano la nostra cultura.
Il secondo tema, che è stato molte volte toccato, riguarda il presente. Ha detto Antonietta che la nostra cultura d’Occidente guarda al passato, guarda al futuro, ma non ha presente… Anche in San Paolo c’è il kairòs, il ‘tempo opportuno’, ma il presente non c‘è. Questo è un altro tema forte, determinante, perché la nostra cultura possa in qualche modo affrontare la tematica del confronto con le diversità.

Sr. Antonietta: E’ un’affermazione, quella che ci viene proposta, soprattutto questa attenzione al presente. L’attenzione al presente credo sia una questione etica della responsabilità, dell’autenticità. Solo il presente ci può rendere autentici e solo il presente ha la capacità di legare. Questa è una sapienza di molte culture, anche un po’ di quella biblica con la quale siamo più familiarizzati. Solo il presente ha la possibilità di legare la vera tradizione, cioè quello che ci ha accompagnato fino ad oggi e che serve per vivere, con quello che sarà la ricostruzione del futuro.
Si ritorna a quello che dicevamo della mistica. Io credo che precisamente il presente ci permette di dare dei nomi concreti alle persone, alle situazioni, che per i credenti sono i veri nomi di Dio. Una politica mistica è una politica che tiene in conto questa esperienza presente, dove io non incontro delle masse che hanno bisogno di assistenza - la tentazione della Chiesa - incontro delle donne, degli uomini, con una loro cultura, le loro rabbie, le loro scoperte, i loro sogni. Sogni forse troppo piccoli, perché hanno il sogno di poter mangiare e poter lavorare per vivere un po’ di più o per mandare un po’ di soldi alle loro famiglie, però sono sogni reali. Questi sono i nomi di Dio oggi. Non c’è neanche da cercare il dialogo interreligioso, interculturale, intorno a dei libri, c’è da dialogare con delle persone concrete. Questo farà vivere i valori veri delle culture e le sapienze delle religioni, cioè le persone concrete con i loro nomi, con le loro ricerche, con le loro semplici interpretazioni. Più che incontrarci intorno a questi grandi testi che cercano di uniformare delle culture, bisogna recuperare questa vicinanza, questa familiarità con il presente, questa realtà concreta che ha dei nomi, ha un linguaggio e che è l’unica manifestazione che abbiamo di un possibile futuro. Quindi credo che sia importantissimo incontrarci ancora una volta intorno a queste cose.

Una questione che forse non abbiamo trattato. Io credo che i credenti in questo momento devono guardare un po’ la loro Chiesa. Invece di predicare tanto e fare i profeti nei cortili degli altri, facciamolo nella nostra Chiesa, che ne ha un bisogno immenso. E essere profeti oggi non è denunciare Berlusconi, perché è facile: quello che dobbiamo denunciare è che ci stiamo abituando ad una Chiesa inautentica, profondamente attaccata a delle strutture, con una facciata molto importante, forte, però inautentica. Per cui credo che per i credenti oggi è un momento importante di dire le cose come stanno e di cercare nel presente questa autenticità. Il Concilio Vaticano II ha chiuso e ha aperto un’epoca, però sono passati più di 40 anni, per cui dobbiamo rivedere il senso della nostra fede oggi in queste comunità che si stanno nascondendo dietro cose che non servono e che poi finiranno per parlare da sole.

Antonietta risponde poi ad una domanda relativa alle modalità di accoglienza di questi nomadismi in mezzo a noi.

Sr. Antonietta: E’ un fenomeno che non nasce oggi, ce lo dovevamo aspettare. Noi arriviamo sempre in ritardo, anche se abbiamo dei criteri scientifici di calcolo.
Io credo comunque che ci sia anche qualcosa di più. Anch’io prima pensavo che l’Occidente dovesse chiedersi con urgenza di pensare come frenare, come fare che questa gente non abbandoni le sue culture, la sua terra. Ma il fenomeno si sta manifestando sempre di più, anche popoli che non conoscevano molti esodi adesso li conoscono. Allora adesso mi domando se forse non solo dobbiamo pensare come non fare uscire queste persone, ma come davvero trovare in questo fenomeno il punto di rinascita. Questo fenomeno accade e credo che continuerà ad accadere con sempre più urgenza e forza, non solo in America. Nessuno giustamente sa quanti e come, però c’è un dato di fatto. Questo dato di fatto è che dobbiamo incominciare a pensare insieme. Perché sempre, anche quando abbiamo pensato di creare delle soluzioni alternative per non far uscire i popoli dalle loro terre, le abbiamo pensate noi. Invece adesso qui siamo obbligati a pensarle insieme, non solo quelli che stanno da altre parti del mondo, ma qui.
Io credo che questa è la novità e questo è anche quello che ci costa di più. Perché stavolta noi non siamo davvero più i protagonisti, non solo numericamente – voi pensate a livello di religione: prima pensavamo di essere figli unici, adesso non lo siamo più. Però oggi c’è questa nuova urgenza, che non è solo pensare dei modelli di sviluppo per fermare questo esodo, ma pensare con questo esodo in atto nuovi modelli di vita, non solo di sviluppo. Perché bisognerà poi chiederci se questo sviluppo è tanto sviluppante o no.
Io credo che questa sia la sfida più grande. Non abbiamo ancora delle risposte, solo possiamo intravedere la possibilità di incominciare a parlare un’altra lingua, di avere un’altra logica nelle relazioni con la diversità, che non ci chiede solo assistenza.

Cesare Frassineti, in un appassionato intervento che riassumiamo per brevità, fa presente che ci non è vero che non ci siano soluzioni, perché ci sono già persone e movimenti che cercano di dimostrare che un mondo diverso è possibile.

Sr. Antonietta: Però, Cesare, queste non sono le nostre soluzioni. Cioè quando io dico che non ci sono soluzioni non penso al movimento di Porto Alegre o ad altri movimenti, penso alle nostre soluzioni classiche, quelle che sono state le nostre bandiere per tanti anni, sia politiche che religiose. E non sono tanto passate, altrimenti non saremmo tutti depressi. Voglio dire precisamente questo: non sono sempre le stesse soluzioni, hanno un nuovo linguaggio. I nuovi movimenti hanno un altro linguaggio che ci dà un po’ fastidio, lo dobbiamo imparare. Tu sei uno che da tanti anni cerca di imparare questo linguaggio, però non credere che tutti quelli della tua età l’abbiano imparato e così quelli della mia età o altre persone più giovani. La Chiesa ha delle grandi difficoltà. Sempre le ha avute e in tutte le epoche storiche per imparare dei linguaggi nuovi. Per fortuna sempre ci sono stati dei figli e delle figlie della Chiesa che hanno cominciato a mettersi lì a imparare questi nuovi linguaggi, però non mi dire che le istituzioni sono così aperte. Anzi, precisamente qui in Italia c’è una grande diffidenza davanti a questi nuovi linguaggi dei movimenti che sfuggono alle comprensioni politiche utopiche dei vecchi partiti.

Una suora comboniana interviene per far presente come questa ricerca porti spesso a scontri con l’autorità e pone il problema del rapporto tra la profezia e la comunione.

Sr. Antonietta: Se uno non vuole rompere la comunione non la rompe. Se la rompono gli altri, fatti loro. Io credo che ci siano delle ricerche, dei disordini nonviolenti, per cui dobbiamo educarci a vivere senza violenza. Nelle istituzioni religiose, nelle istituzioni politiche. Io credo che noi che sogniamo un mondo differente non sogniamo un mondo rotto o dei piccoli mondi. A volte purtroppo nella storia sono successi questi fatti, che per riformare il mondo grande si devono creare dei piccoli satelliti. Io credo che in questo momento - per questo dicevo che qui non si tratta di fare i fondatori, le fondatrici, non c‘è bisogno di questo - c’è bisogno di gente che non molta pazienza continua a costruire delle relazioni nuove e nonviolente in questo ambito.
Può darsi che l’altra parte ti dica che non hanno bisogno di te. Però il punto di partenza per noi dentro la Chiesa - qui ci sono molte persone religiose che dentro la Chiesa rappresentano anche un certo tipo di storia, di istituzione – è che non dobbiamo muoverci preoccupandoci di cosa avverrà dopo, se si rompe qualcosa. Noi non vogliamo rompere niente, dobbiamo educarci a non rompere niente, ad essere persone profondamente pazienti.
E’ una crescita importante, altrimenti ricadiamo sempre nella stessa schizofrenia, nello stesso dualismo: quello che consideriamo personale e quello che consideriamo istituzionale. Se io cresco con l’idea che il bene comune non è contrario al bene dell’individuo, vedrete che io non vado ad ammazzare nessuno e nemmeno mi metto a fare polemica. Poi se gli altri ti provocano alla polemica o alla divisione, dobbiamo imparare una metodologia: noi non dobbiamo accettare nessun tipo di divisione, perché sennò sarebbe vano continuare a parlare dei poveri e degli stranieri.
Quello che dobbiamo fare è essere persone profondamente autentiche. Per essere autentici c’è bisogno di poche cose. Questo era un po’ l’esempio della prima parte del libretto su queste grandi tradizioni, che non erano perfette, però ci hanno insegnato, ci hanno messo dentro la nostalgia di essere persone che per vivere hanno bisogno di poche cose. E invece ci risvegliamo oggi con tanti bisogni, per essere istituzione, per essere in un certo modo, perché ci riconoscano, per mantenere le nostre appartenenze… tutte cose molto belle, che sono semplicemente dei punti di inizio. Anche le grandi tradizioni della nostre famiglie religiose sono dei punti di inizio per allargare lo sguardo, la capacità. Però sì, dobbiamo educarci ad essere delle persone profondamente nonviolente.
Il problema poi non è la comunione con l’autorità, il problema è la comunione con tutti. Perché oltretutto noi abbiamo la nostalgia di una comunione dell’ecclesìa, come si diceva nelle prime comunità cristiane, dove il problema non è solo che esistono delle autorità, esiste la comunità. Per cui il problema è come ci aiutiamo a coltivare questi desideri di comunità. Non solo devo stare attenta a non offendere quello che rappresenta la comunità, io devo stare attenta a non offendere nessuno, nel senso più bello, più caldo del termine, cioè a tenere in conto che stiamo ricostruendo qualcosa di nuovo.
Per cui per me in questo momento storico non è un problema restare uniti. E’ necessario restare uniti e devo tenere in conto che ci sono varie presenze e che tutte hanno bisogno dello stesso rispetto, hanno la stessa autorità. La parola non ce l’ha solo l’autorità, questo è anti-evangelico: la parola ce l’ha la comunità. Per cui noi dobbiamo aiutarci ad essere delle persone nonviolente.
E le persone nonviolente sono persone comunitarie. A volte ci dimentichiamo, diventiamo un po’ violenti, ci sono a volte delle questioni che ci fanno indignare profondamente, ma poi recuperiamo. Anche queste sono invenzioni di stile nuovo. Noi sempre ci muoviamo con questa grande paura dei modelli precedenti, perché abbiamo degli esempi storici: sì, questa persona era molto profetica, però poi cos’è successo? Le divisioni, queste riforme laceranti, ecc. Anche su questo punto, come dicevamo per la politica, per il rapporto con gli immigrati, perché non cerchiamo di partire da zero e inventare un nuovo modo di essere profetici? Credo che le donne in questo ci possano insegnare. Noi abbiamo dei modelli profetici tremendamente maschili, per non dire maschilisti. Bisogna dare fiducia a delle alternative, come diceva Cesare, a questa positività, riconoscendo che c’è qualcosa che si sta creando. Io credo che la vita religiosa questo lo deve imparare, deve lasciare tutte le sue paure ed essere profondamente autentica. E lì scopriamo che in questa autenticità si può vivere con poche cose, anche ideologicamente.

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