giovedì 11 marzo 2010

Al papa non piace Gioacchino da Fiore: nella chiesa non c'è spazio per l'utopia

Pubblichiamo l'articolo di Enzo Mazzi, tratto da il manifesto dell'11 marzo, dove si analizzano le prese di posizione di Ratzinger contro le spinte utopiche nella storia della chiesa. L'articolo, condivisibile per molti versi, mostra l'atteggiamento miope e limitato del "pastore tedesco", il quale non fa mistero di ispirarsi ad una visione filosofico-culturale figlia di certo agostinismo. Portatore di una visione ristretta della storia dell'occidente e della modernità, il Papa si pone completamente al di fuori di ogni riflessione sull'ermeneutica, di cui Gioacchino fu uno dei massimi precursori; dimostra inoltre di non condiderare - e di non (ri)conoscere - quella preziosa corrente sotterranea che ha attraversato i secoli, nutrimento fondamentale della cultura occidentale, che Henri de Lubac definì La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.


Lo scandalo del sacro
di Enzo Mazzi

Questo montante dilagare dello scandalo della pedofilia nel cuore della istituzione ecclesiastica cattolica a tutte le latitudini pone gravissimi problemi al senso di appartenenza ecclesiale in settori sempre più ampi del cattolicesimo mondiale. Il potere ecclesiastico, che per lunghi anni ha cercato colpevolmente di nascondere il fenomeno dietro una cortina di silenzio, sembra aver capito che il tempo dell'onnipotenza del mondo del sacro è ormai finito. L'abito talare, lo zuccotto rosso o la tiara papale non garantiscono più la immunità di fronte alla giustizia terrena. E il potere della informazione ha stracciato definitivamente il «velo del tempio» penetrando impudicamente nelle oscurità delle sacrestie, dei collegi cattolici, dei conventi, e perfino dei palazzi apostolici.

Di fronte a un quadro così complesso, che richiederebbe tanta saggezza, capacità di rinnovamento e lungimiranza, è sconcertante che i massimi vertici della gerarchia cattolica si attardino ancora nel riproporre i vecchi schemi della unicità-perennità della Chiesa e del centralismo-assolutismo del papato. E che continuino a guardare con sospetto a ciò che si muove alla base della Chiesa e a tentare ancora la via ormai anacronistica della repressione verso lo sviluppo del conciliarismo. «Ogni volta che nella Chiesa si affronta un periodo di declino - ha detto il papa ieri - si affaccia anche un utopismo spiritualistico», che porta alcuni a sognare la nascita di una «altra Chiesa». Una sorta di «utopismo anarchico», come quello ispirato nel Medioevo da Gioacchino da Fiore, si insinuò nel Concilio Vaticano II, ma «grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro hanno saputo difendere, con le novità del concilio, anche l'unicità della Chiesa».

Quello che il papa vede come un pericolo è da molti ormai considerato come l'unica possibilità di futuro per una fede cristiana liberata da dominio medioevale del sacro.

Gioacchino da Fiore, vissuto nella seconda metà del XII secolo, monaco del monastero cistercense di S.Giovanni in Fiore, nella Sila, si rese interprete delle attese delle classi umili del tempo. A cominciare dagli inizi del secondo millennio era avvenuta una grande trasformazione della società feudale: il declino del sistema di dipendenza della servitù della gleba e la nascita di comunità di villaggio dotate di autonomia e formate da contadini non più servi della gleba. Questo porta una nuova cultura, la cultura della cooperazione e della solidarietà. È in questo clima che il monaco cistercense Gioacchino da Fiore lancia l'annuncio della liberazione da tutti i poteri che in diversi modi dominano dall'alto e l'avvento di una società dello Spirito e dell'amore universale. Un annuncio che in diverso modo nutrirà tutte le rivoluzioni moderne, come ci dicono molti storici autorevoli. Tracce della profezia di Gioacchino da Fiore si ritrovano nel modernismo a cui guardava con simpatia papa Giovanni e nei movimenti della liberazione post-moderna come ad esempio nella riflessione di un Teillard De Chardin, nelle comunità di base e nella Teologia della liberazione.

Altro che utopismo anarchico. È il futuro che si delinea. Utopismo lontano dalla realtà appare piuttosto questa insistenza nel blindare la Chiesa nel bunker del sacro illudendosi che in tal modo essa possa sfuggire alle sfide della secolarizzazione. Gli orrori della pedofilia così come tutto il marcio che emerge dal buio degli spazi sacri non si può più affrontare con quell'assolutismo gerarchico che è la radice stessa dei mali della Chiesa. Occorre aprire porte e finestre allo Spirito che alimenta i «segni dei tempi».

giovedì 4 marzo 2010

Commento al vangelo di domenica 7 marzo

Certe verità dabbene. Giudizio di Dio o giudizio dell’uomo.

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». (Luca 13,1-9)

I muri scarabocchiati della casa di Alda Merini

Quei tali che si presentano da Gesù per «riferirgli il fatto dei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici» vogliono che egli si esprima su questi episodi violenti e che prenda posizione contro Pilato. Quegli uccisi erano presumibilmente membri del movimento zelota, il quale sosteneva la lotta armata contro l’occupazione romana. «Cosa pensi tu, Gesù, di questi zeloti? Sono buoni o sono cattivi?», domandano questi che gli si avvicinano. «Sono bianchi o sono neri, da che parte stanno?», sembrano chiedere «e, soprattutto, tu da che parte stai?». Gesù non risponde alle loro domande. Gesù non risponde mai alle domande con una affermazione netta, chiara. Verrebbe da dire: che uomo antipatico doveva essere! – uno che risponde ad una domanda con un’altra domanda: dà sui nervi. Probabilmente è l’atteggiamento del Sapiente che lo richiede, ma facilmente è anche la consapevolezza della complessità del mondo; l’esperire la difficoltà della strada che porta all’autenticità. Se volessimo fare una sintesi del messaggio di Gesù, forse, potremmo usare – semplicemente – questa parola: autenticità. Una parola che diventa la chiave di lettura di una vita, la vita di un poeta, di un artista.

Ecco allora che il Profeta mette in discussione quella domanda che mal posta si insinua nella mente della gente, frutto della mentalità farisaica che stabiliva una perfetta equazione tra peccato e castigo: se gli zeloti hanno fatto quella fine avranno senz’altro combinato qualcosa di male e Dio si è vendicato. E però, pensare che i farisei, o chi per loro ha posto la domanda sul delitto e sul castigo irrimediabilmente giusto, siano dei «cattivi» non è corretto, non è giusto. I farisei non sono né buoni né cattivi, anche se il testo del vangelo gioca sulle contrapposizioni. Ci saranno stati farisei buoni e farisei cattivi (quest’ultimi, viene da pesare, invero pochi). Genuinamente, Gesù risponde loro mettendoli di fronte alla contraddizione: «Pensate davvero che questi che Pilato ha fatto uccidere, o quegli altri sui quali è crollata addosso la Torre di Siloe e sono morti, siano colpevoli di qualcosa? Colpevoli più di voi? Colpevoli più di tutti?».

Ognuno, uomo o donna, vive nella sua vita una difficoltà: lo sforzo verso l’autenticità, nonostante la contraddizione, nonostante la tensione tra il detto e il non-detto, tra ciò che si è (o ciò che crediamo di essere) e ciò che gli altri percepiscono di noi. Gesù lo sa, conosce questa «rottura», questo «smarrimento». Certo, appare blasfemo parlare di uno smarrimento di Gesù, di una sua sconfitta, lui che doveva essere il Messia.

Pensate al popolo di Israele, che attende ancora il suo messia, che aspetta ancora qualcuno che venga a liberarlo dal giogo della dominazione straniera, e intanto fa la guerra in nome di un messia; pensate a quante manifestazioni del sacro la gente afferma di vedere e di conoscere, e intanto stenta ad amare; a quanti dicono di sapere come Dio agisce, chi è a lui gradito e chi no, chi sono i dannati e chi sono i salvati, e intanto non perdona. È questo l’atteggiamento dei farisei, di ieri e di oggi: «noi sappiamo chi si merita la punizione di Dio, noi siamo dalla parte del bene e del vero, noi abbiamo la verità». Ma non credete a chi vi dice di avere la verità! La verità non si scorge dietro una curva, non si riflette in uno specchio; bisogna masticare tanto per sentirne un po’ il sapore, tutti i giorni, con difficoltà.

Ladrone, part. da Antonello da Messina

Eppure i farisei, di oggi e di ieri, sono «buoni», sicché possono giudicare ed esercitare «il potere dei più buoni». Ma, per fortuna, autenticità non corrisponde a probità – non del tutto almeno – come invece sembra supporre uno dei teologi più alla moda del momento nel suo ultimo libro La vita autentica. Non basta essere «buoni», soprattutto quando questo «essere per il bene» è conseguenza di certa dabbenaggine borghese (uso questo aggettivo volutamente, nonostante molti ritengano questa parola sorpassata e inservibile) piuttosto che di una vita autentica ancorata alla difficoltà dell’esistenza. La difficoltà di chi quotidianamente si trova a dover fare i conti con la contraddizione che abita il proprio cuore, con i propri errori, le proprie debolezze.

Gesù fu messo a morte perché metteva a nudo le debolezze di ogni accusatore, di ogni inquisitore, di ogni giudice; di chi si aspetta risposte o tutte bianche o tutte nere: risposte facili. Non ci sono risposte facili, ci sono risposte autentiche. «Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai»: ci sono risposte che aprono possibilità, non sentenze definitive; ci sono atti di misericordia e di pietade (dire semplicemente pietà, ormai fa pietà), non giudizi insindacabili. Un fico sterile allora diverrà opportunità di riscatto, ché è più facile ammirare un albero in fiore che sentirsi muovere qualcosa nelle viscere per una pianta rinsecchita, incapace ormai di dare frutto.

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