sabato 26 gennaio 2008

Appunti a margine di un incontro con Giovanni Franzoni

Un uomo, una storia,
una chiesa altra.

di g.g.

Chi è Giovanni Franzoni? E' difficile dirlo, non si può fare di certo in poche parole. Incontrarlo fa un certo effetto: stare faccia a faccia con un padre del Concilio Vaticano II, con una delle personalità più importanti e significative del cosiddetto dissenso cattolico, una delle figure di rilievo del movimento delle comunità di base.

Appena si scorge la sua figura, incombente, quasi possente, ma al momento stesso semplice ed essenziale si ha l'impressione di essere di fronte ad un uomo di grande autorevolezza che porta su di se l'odore della storia. Inizialmente potrebbe mettere soggezione - così al primo sguardo - subito dopo averlo sentito, dopo aver visto le sue labbra e il suo sguardo aprirsi, dopo aver notato quel suo sorriso ammiccante e quasi ingenuo; con quella sua aria dimessa che prefigura un senso di autentica semplicità, tipica degli individui che hanno avuto la forza della libertà, ti mette subito a tuo agio, e nonostante la grande differenza di età, hai l'impressione di parlare con un amico che conosci da sempre.

Franzoni ha presentato a Torino, lo scorso 25 gennaio, il volume che raccoglie alcuni suoi scritti sui beni comuni tra cui la celebre lettera pastorale "La terra è di Dio" del 1973. E' sostanzialmente un uomo che guarda al futuro, le sue riflessioni sui beni comuni lo portano ad interrogarsi sull'utilizzo dello spazio e della luna, ma al tempo stesso è fedelmente ancorato alla realtà, alla storia, alle vita concreta. Caratteristiche tipiche degli spiriti profetici.

Sentendo raccontare la sua storia, le lotte con gli operai, il sostegno al cambiamento, le sue dimissioni obbligate da abate di San Paolo fuori le Mura a causa delle sue posizioni a favore degli ultimi, la sua sospensione a divinis dopo la presa di posizione sul referendum sul divorzio, si di ripercorre la storia della Chiesa degli ultimi 40 anni. Quello che colpisce è che per Giovanni si tratta di cose normali, di poco conto per il presente perché un anelito, una profonda e santa inquietudine lo spingono a pensare al presente e all'eredità che questa generazione lascerà alla propria prole.

L'ex abate di San Paolo è semplice, umile davvero, non pecca senz'altro di pretenziosità e di saccenteria. Nei suoi occhi si scorge un barlume di complicità e di vicinanza umana che lo fa sembrare molto più giovane, come un ragazzo che si sta affacciando a vivere la vita.

Il suo impegno a favore di una chiesa altra, un impegno normale, non eroico, fatto di scelte concrete e coerenti lo porta ad interrogarsi sul futuro di questo nostro mondo, di questa nostra "Terra di Dio". Gli preme ricordare che la "Terra è di Dio" e "anche il cielo è di Dio". Il suo lavoro si spinge nella ricerca di un'elaborazione laica, di un concetto giuridico, che affermi l'intangibilità dei beni comuni, delle risorse del Pianeta a favore dei poveri e di coloro che non hanno mai potuto godere dell'eredità comune e universale di Dio.










- Giovanni FRANZONI, I beni comuni, EDUP, Roma 2006, 320 pagine, 20 euro.


Intervista a Giovanni Franzoni (da Tempi di Fraternità - 2006)

D) Quando tu contavi in seno alla struttura gerarchica della Chiesa, il tuo atteggiamento e i tuoi scritti hanno avuto grande risonanza ecclesiale e sociale, hanno portato una ventata di rinnovamento, hanno destato attesa e speranza in molte coscienze. Che cosa resta, secondo te, nel Franzoni che sei ora, di profetico? Avverti un certo fallimento o ti senti più autentico? E non ti sembra di aver pagato caro la tua autenticità?

R) Credo che non possiamo misurare i risultati calcolando i tempi, non possiamo sapere se avremo una eco. Posso dire che a oggi sono stato sconfitto, come la nostra generazione, che, dal dopoguerra agli anni 70, ha enunciato una serie di valori, convintissima che fossero vincenti e validi per le generazioni future, pur se in contrasto con le regole e le posizioni conservatrici. Invece, in questi ultimi anni, ho dovuto constatare che stiamo cadendo nella tenebra, soprattutto guardando a quello che è successo poi in Asia, in Bosnia e, in questi giorni, in Israele. La nuova generazione non ha recepito questi messaggi: noi seguitiamo a vantare M.L.King, Balducci, l'"uomo planetario", e seguiteremo a crederci, ma ho la netta sensazione che la generazione futura non li accoglierà. Per esempio oggi, dopo l'omicidio di Rabin, la maggioranza del popolo israeliano ha avuto per un attimo un risveglio di coscienza. Ma poco più di un mese fa era stata fatta un'inchiesta nelle scuole israeliane e il 70% degli studenti israeliani considerava Rabin un traditore. Da questa area così vasta, da questa base (inutile che seguitiamo a gloriarci di essere Comunità di Base!) vengono spesso risposte di questo genere, perché tende all'identità, alla sicurezza per sé e per la propria famiglia; non apprezza, non stima chi si adopera per un cambiamento aperto alla solidarietà, verso "gli altri". Guardate i gruppi di pacifisti, di manifestanti: sono perlopiù persone di mezza età. Non che manchino i giovani, ma credo che non siamo riusciti a trasmettere il convincimento che l'intelligenza politica e la forza della non-violenza possano vincere la brutalità. In questo senso è giusto essere frastornati, ma non vedo alternative se non nella direzione del confronto.

D) I tuoi ultimi scritti ci fanno ritrovare un Franzoni-uomo-cristiano senz'altro vicino alla gente qualunque, molto più di quanto non lo sarebbe stato il Franzoni-abate, quasi vescovo. Ci piacerebbe che fossero in molti a cogliere il tuo messaggio di laicità profondamente religiosa nella sua essenzialità e semplicità. Ti chiedi come sia possibile diffonderlo ancora, pur restando ai margini della Chiesa? O credi che esso sia più efficace (anche se non per i credenti tradizionali), proprio perché "marginale"?

R) La domando è corretta ma si sottrae ad una realtà importante: quella dei mass-media. Come si fa a parlare di maggiore o minore presa sulle "masse", se noi non passiamo attraverso i mass-media? Si possono esprimere anche delle idee importanti, avanzate, delicate... anche con la preoccupazione di mediare, ma hanno poca risonanza quando i mass-media passano altri messaggi. Per esempio: scrivo sul diavolo (argomento di cui mi interesso) e poi vediamo trasmissioni come "Mixer" o "Misteri" in cui la mia posizione non è rappresentata. I mass-media possono quindi presentare posizioni conservatrici e altre più libere, ma mancherà loro sempre la posizione che sconvolgerebbe i termini del problema. Parlando del diavolo, i mass-media pongono la domanda "Esiste o no?". Io supero questo problema, perché ritengo che, esista o no, all'interno dell'immaginario cristiano non è possibile pensare che Dio condanni un suo figlio ad essere dannato per l'eternità. Ciò è in contraddizione con la sua bontà. Ma su questa posizione nessuno si misura, c'è quasi un rifiuto preventivo anche solo di presentare questa posizione.

D) Come parleresti oggi della povertà di cui hai trattato ne "La terra è di Dio"?

R) Ho scritto "La terra è di Dio" nell'imminenza dell'Anno Santo 1975, precisamente nel 1973. Ora, dopo un momento di crisi, sto riflettendo sull'opportunità di scrivere un'altra lettera, questa volta personale. Dal confronto con amici della comunità è emerso che varrebbe la pena che io scrivessi nuovamente, in occasione del prossimo Anno Santo. Parlerò di nuovo dell'"anno sabbatico". Come allora mi riferii all'anno descritto nel libro del Levitico (l'anno in cui la terra deve riposare e le terre espropriate devono essere restituite a chi le ha perse) come metafora dei problemi del 1975, così ora parlerò di problemi attuali. La lettera uscirà in occasione del settecentenario della morte di papa Celestino V, colui che "fece per viltade il gran rifiuto". Questa lettera riguarderà il riposo della terra: il tema di fondo sarà quello ecologico, il nostro tipo di sviluppo scientifico e tecnologico, che incalza, creando gravi problemi all'equilibrio del pianeta, quali lo spreco di risorse, l'inquinamento,... Il titolo probabilmente sarà: "Il riposo della terra".

D) Qual è il tuo rapporto con la Comunità di Base di Roma? Ad osservare dall'esterno pare che la tua posizione non sia quella di un vero e proprio leader, come avviene presso le comunità dell'Isolotto e di Pinerolo. Forse dai esempio di spirito democratico e comunitario (orizzontale). Ma non potresti salvare tale spirito e dare allo stesso tempo impulso vitale alle Comunità di Base, che tendono ad essere un prolungamento di ciò che erano nel '68, senza riuscire ad esprimere una vera novità nella o accanto alla Chiesa?

R) Questa domanda è pungente e provocatoria. Non voglio mettermi a confronto con altre persone. Oggi, per fortuna, io posso essere con voi mentre, a Roma, la Comunità di Base vive un momento importante. É infatti il centenario della comunità metodista di via XX Settembre e oggi celebriamo il culto con loro. Voi direte: "Mancava Franzoni!". Benissimo: sono profondamente lieto del fatto che non manca proprio nessuno, perché alcuni componenti della Comunità hanno steso un documento, ci siamo consultati per telefono ed è stato affidato ad un membro della Comunità il compito di leggerlo. Sono davvero lieto che la mia assenza sia irrilevante, non credo che sia importante la mia presenza autorevole nelle CdB. Anzi, vorrei stimolare tutte le comunità a fare come la nostra: la presenza di persone con una certa preparazione e storia è utile, ma non indispensabile. Mi spiace che alcune realtà appena manca il sacerdote o il leader si sciolgano. Mi sembra di capire che a questo punto sia necessario un servizio di animazione da parte di tutte le comunità. Ma il problema mi sembra un altro: è la mancanza di ascolto da parte della realtà ecclesiale e sociale italiana.

D) L'uomo-Franzoni ultimamente si è sposato. Un fatto che pare tu faccia passare in sordina, che almeno non fai risaltare come significativo per una nuova testimonianza di coppia. O ti pare che nulla di sostanziale sia cambiato nella tua vita dal punto di vista "profetico"? Sei, forse, rimasto con la mentalità del prete-monaco?

R) Ho conosciuto Yukiko (trascriviamo il nome così come è stato pronunciato, N.d.R.) durante un viaggio in Nicaragua. Lei, giapponese, non è credente, pur avendo un fondo culturale buddista, soprattutto sul piano etico (rispetto per le persone, gli animali, le piante,...). Dato che lei non è credente, non aveva senso che io pubblicizzassi la cosa. Ci siamo sposati per dare un minimo di formalità al nostro rapporto, soprattutto dal punto di vista legale, ma avremmo potuto anche semplicemente vivere insieme. Ci siamo sposati presso l'ambasciata italiana a Tokyo: non abbiamo voluto né potuto fare un "rito" in comunità... Io lo avrei anche fatto, ma lei si sarebbe sentita trascinata. Lei apprezza la comunità come modo di stare insieme (ha alle spalle esperienze simili, nell'ambito dell'insegnamento ai sordomuti), ma il nostro insistere sul tema Dio, preghiera, fede le è estraneo.

La mia percezione dei problemi umani ed etici è profondamente cambiata dopo il matrimonio. Nel monastero la convivenza e l'attrito che ne deriva sono poco avvertiti. Ciascuno ha la sua camera, gli unici contatti sono nell'eventuale lavoro in comune e nella ricreazione. Vivere con una persona, invece, porta a "pestarsi i piedi": utilizzare gli stessi locali, gli stessi strumenti in un appartamento di 45 mq è difficile. Per me tutto questo ha significato "prendere terra", scoprire come involontariamente si possa essere violenti, e si percepisca da uno sguardo, da un movimento della bocca che abbiamo ferito l'altro. Da allora sono diventato molto prudente nel dare consigli agli altri, dopo aver avuto tante certezze, dopo aver predicato... Ecco, oggi, non più per i motivi di libertà o giuridici delle CdB di 20 anni fa, ma per motivi concreti, consiglierei ai sacerdoti di non parlare di coppia, di amore, di rapporto uomo-donna, oppure, se vogliono parlarne, lo facciano per conoscenza più o meno diretta.

D) Puoi spiegarci meglio la tua posizione sul tema del male e del maligno?

R) Non nego l'esistenza del maligno come entità vivente che compie il male, ma rifiuto la concezione del diavolo legato alla dannazione eterna. Il libro "Il diavolo mio fratello" ha avuto nella sua traduzione tedesca un sottotitolo giustissimo: "L'abbandono del concetto di dannazione".

Alcuni sostengono che Lucifero, angelo prediletto di Dio, per un qualche motivo (per alcuni perché posto di fronte al fratello Gesù Cristo e alla sua incarnazione) si sia ribellato alla volontà di Dio Padre e per questo sia stato condannato per l'eternità. Altri affermano che ora avrebbe conquistato il dominio sugli uomini. Tutto questo è estremamente negativo, soprattutto perché dilaga la tendenza ad assoggettarsi a pratiche esorcistiche, specialmente in America Latina, e questo è pericoloso.

Non posso dire "Non esiste un essere perverso": questa frase non ha senso dal punto di vista epistemologico, perché gli attribuirei comunque una soggettività che io esito ad asserire, sarebbe come se dicessi "Esiste". Preferisco dire che tutto il linguaggio usato per parlare del diavolo è riconducibile, in una visione monistica, piuttosto al sogno origeniano che noi partecipiamo: non c'è nessuna creatura condannata ad essere se stessa per l'eternità, la morte non è la fine di tutto. Quindi, di fronte al mito dell'immortalità dell'anima, secondo cui una persona, al momento della morte, viene "congelata" nel suo stato di opposizione o di armonia con Dio e quindi raggiunge la dannazione o la salvezza, pongo il mito della reincarnazione (non credo neanche in questo però) che mi sembra più dolce e accettabile. Preferisco una sorta di sospensione del giudizio. Per noi, al di là di questa vita, chi ha compiuto il male è perduto. Ma non possiamo sapere che cosa ne sarà per Dio. Su questo sono d'accordo Buddismo, Islam e Chiese Protestanti. Solo noi cattolici ed alcune sette protestanti siamo rimasti al concetto di dannazione irreversibile ed eterna. Non condivido neppure la teoria di Urs von Balthasar, secondo cui, se Dio è misericordioso, l'inferno esiste, ma è vuoto. Mi è parsa una soluzione barocca, un concetto inutile e perverso, che serve solo a salvare il principio che l'inferno esiste. Preferisco la posizione islamica secondo cui l'eternità è un cavaliere che passa e sfiora con il mantello una montagna di granito robusto. Passa una volta ogni secolo e quando la montagna sarà stata totalmente erosa dal lembo del mantello, allora comincerà l'eternità. Se chiediamo a un musulmano "Allah può perdonare?", egli risponderà "Allah è grande"; noi invece nel nostro immaginario siamo più superbi.

D) Molti di noi credono nell'immortalità dell'anima e in una vita eterna che appaghi la nostra sete di felicità, di giustizia, di bellezza. Sapere che la vita non finisce con la croce, ma che c'è una resurrezione per ciascuno di noi, come persone singole da loro molta gioia. Cosa ne pensi?

R) Non userei la parola "eterno" applicandola alla creatura. Credo che si possa usare la parola "immarcescibile". La creatura non è eterna in quanto non scavalca la temporalità, ha avuto un inizio e per questo possiamo paragonarla a una semiretta. Una creatura eterna mi sembra competitiva con Dio. L'altro pericolo è pensare che tutto sia frutto della casualità. La vita è nata da un incidente e finirà per un incidente. Questa ipotesi del nulla di significato mi spaventa più che il non sapere se io personalmente sopravviverò nella mia identità o se mi immergerò nel grande respiro dell'Universo (anche se preferirei sopravvivere con la mia identità).

In tutte queste incertezze, di una cosa sono però certo: non credo a s.Tommaso quando dice che i beati si beeranno ulteriormente vedendo le sofferenze dei dannati.

D) Pensi che una grandissima parte del "male di vivere", della sofferenza umana, è dovuta all'essere umano?

R) Credo che sia dovuta alla vita. Credo abbastanza all'evoluzionismo, nel senso che anche il male è servito allo sviluppo, alla crescita. La società odierna, con tutte le sue convinzioni e valori è nata, per evoluzione, da società in cui questi diritti erano negati. La tendenza predatoria dell'essere umano porta alla sopraffazione per soddisfare i propri bisogni, per cui il mio bene è impadronirmi della mia sicurezza e il mio male è perderla. Ma c'è un'altra tendenza, che chiamo "anomalia del divino", che ci porta a guardarci intorno e a scoprire che il nostro bene si può anche condividere. Ma questa scoperta fa parte anch'essa dell'evoluzione. Pensiamo ai malformati: per centinaia di migliaia di anni i bambini malformati sono stati buttati via. Poi, una notte, una donna ha avuto un bambino malformato e ha detto al suo uomo "Perché buttarlo?". Ecco, da quel giorno la legge della selezione naturale è stata smentita. Forse loro due sono stati uccisi dalla tribù, ma qualcuno ha insistito. Se oggi siamo arrivati a chiudere i manicomi, con tutti i problemi che ne sono derivati, se siamo arrivati ad integrare gli handicappati nella società, ad enunciare i diritti del fanciullo, se stiamo addirittura "delirando", enunciando la parità di condizione della donna ed il valore della differenza sessuale, deve esserci qualche anomalia nella legge della selezione naturale. Non siamo nel prato, non siamo nella foresta...

giovedì 17 gennaio 2008

Tutto sbagliato, tutto da rifare

di Daniele Garrone
decano della Facoltà valdese di teologia di Roma

Di fronte a quello che sta succedendo a seguito dell’invito rivolto al Papa a presiedere l’apertura dell’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma, mi viene in mente solo il vecchio adagio di Gino Bartali: "Tutto sbagliato, tutto da rifare". Purtroppo, nulla si può rifare e si rimane attoniti spettatori dell’ennesimo colpo inferto, da ogni parte, alla asfittica laicità del nostro paese.

Le critiche all’iniziativa del rettore vengono - da destra e sinistra, da cattolici militanti e da chierichetti atei - stigmatizzate come violazione della libertà di parola. Tutti - compresi gli ex fascisti e gli ex-comunisti, dunque gli eredi delle culture non liberali - diventano profeti di liberalismo.

Ritenere non opportuno un invito a tenere un discorso è cosa diversa dall’impedire a qualcuno di esprimere le proprie opinioni.

Il Papa non è un semplice accademico che sostiene tesi controverse o formula ipotesi non condivise da pochi o da molti. Il Papa parla di valori non negoziabili, non formula ipotesi; pretende di esplicitare la verità; si pronuncia non come esponente di una delle varie religioni e confessioni presenti sulla agorà, ma come esperto di umanità in grado di indicare i fondamenti dello stato e i criteri di una corretta laicità. Il Papa pretende di sapere per tutti noi come si debbano rettamente coniugare fede e ragione. Se vogliamo, il Papa è anche l’ultimo sovrano assoluto per diritto divino. Benedetto XVI bolla la ricerca del pensiero scientifico e filosofico della modernità "post-cristiana" come dittatura del relativismo. Cioè pronuncia una drastica censura nei confronti di quello che è lo spirito della ricerca libera e senza presupposti che spero presieda all’insegnamento nelle nostre università. Benedetto XVI persegue, con grande intelligenza, una strategia di rimonta nei confronti della società laica e pluralista.

Tutto questo andava ricordato nel momento in cui lo si invitava. Si doveva sapere che il Papa non viene a discutere o a confrontarsi, ma viene per essere ascoltato con reverenza ed eventualmente accolto con una genuflessione. Si doveva sapere che era legittimo dissentire dall’invito, non perché si è oscurantisti ma perché non si può né si vuole riconoscere la pretesa che egli statutariamente e quindi inevitabilmente porta con sé. Per queste ragioni io non l’avrei invitato a presiedere l’apertura dell’anno accademico. Lo inviterei però, domani stesso, a partecipare come uno dei relatori ad un dies academicus: si darebbe un bellissimo esempio di cosa può essere una università libera e laica e veramente plurale. Perché - sebbene gli italiani, in primis gli atei devoti, di destra come di sinistra, non lo sappiano - qualunque "capo religioso", persino il Papa, nella democrazia discorsiva è "uno dei relatori". Nulla di meno - e va detto con forza e io lo faccio con assoluta convinzione - ma neanche nulla di più.

Una volta che l’invito - inopportuno a mio avviso - era stato rivolto, il Papa doveva parlare. Il dissenso era legittimo; se il dissenso poneva problemi di ordine pubblico - in una università il dissenso si esprime con il dibattito delle idee e con un po’ di humour - essi dovevano essere risolti come ogni altro problema di ordine pubblico. Nessuno, tuttavia, può essere posto al riparo dal dissenso che si manifesta nelle forme legittime. Tra l’altro, giova ricordare che Gesù si espose sulla pubblica piazza, senza aver prima negoziato con l’autorità le condizioni consone alla sua visita. Anzi parlò senza essere invitato. Ci pensino quelli che nel Papa ravvisano il Vicario e che oggi vedono in lui la vittima di un sopruso.

Chi pensava che Benedetto XVI fosse meno capace di "comunicare" del suo predecessore, ha oggi una bella smentita. Non andando alla Sapienza, il Papa diventa una vittima dell’intolleranza laica, la nuova inquisizione lo sta portando al rogo. Bisogna vegliare per lui. Me lo si lasci dire, visto che i miei antenati di inquisizione ne sapevano qualcosa: quando c’è l’inquisizione non si tratta di qualche sberleffo o magari di qualche insulto in mezzo ad un folla compunta e persino adorante.

Per giorni non si parlerà d’altro. E anche senza questo incidente, ogni giorno, dalla mattina alla sera, le televisioni italiane (l’Europa e il mondo sono un’altra cosa) parlano del Papa e dei suoi moniti e dei suoi rimbrotti e dei suoi non possumus che vogliono dire "non dovete". Ora tutti faranno a gara per riparare, per scusarsi, per far vedere che - per quanto atei - si sa dare alla chiesa e al papa il dovuto riconoscimento. Per fortuna le occasioni non mancheranno: c’è una legge sulla libertà religiosa da lasciar sepolta; la 194 da rivedere; il riconoscimento delle unioni civili da non prendere neppure in considerazione; la vita da tutelare. Forse si potrebbe anche porre qualche limite alla diffusione dei contraccettivi. E poi siamo italiani, la fantasia non ci manca, sapremo come farci perdonare. D’altronde, se non abbiamo avuto Lutero, Kant e Jefferson non è colpa nostra.

( da Notizie evangeliche n.3 del 16 gennaio 2008)

sabato 5 gennaio 2008

Incontro con Antonietta Potente a Torino il 21/11/2007

Pubblichiamo la trascrizione (non rivista dall'autrice) del testo della conferenza (clicca qui) tenuta da Antonietta Potente a Torino il 21 novembre 2007.

Appunti per una spiritualità della liberazione.
di Antonietta Potente


Vi ringrazio per avermi invitato a condividere queste idee e questo tema. Ascolteremo un canto latinoamericano che parla di alcuni dei temi centrali della mia riflessione. Spero, dopo il mio intervento, in uno scambio con voi e le vostre riflessioni perché questi sono temi che possono cambiare sfumature in rapporto ai contesti storici che viviamo per cui, probabilmente, io li leggi dal punto di vista dell’esperienza e del contesto storico dove vivo, che mi ispira. Voi conoscete altri contesti e potrete ritradurre questi temi nella vostra riflessione.

Corazon libre

di Rafael Amor (cantata da Mercedes Sosa)

Te han sitiado corazón y esperan tu renuncia,
los únicos vencidos corazón, son los que no luchan.
No los dejes corazón que maten la alegría,
remienda con un sueño corazón, tus alas malheridas.

No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.

Y recuerda corazón, la infancia sin fronteras,
el tacto de la vida corazón, carne de primaveras.
Se equivocan corazón, con frágiles cadenas,
más viento que raíces corazón, destrózalas y vuela.

No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.

No los oigas corazón, que sus voces no te aturdan,
serás cómplice y esclavo corazón, si es que los escuchas.
Adelante corazón, sin miedo a la derrota,
durar, no es estar vivo corazón, vivir es otra cosa.

Traduzione italiana:

Ti hanno occupato cuore e sperano nella tua rinuncia,
Gli unici vinti, o cuore, sono quelli che non lottano.
Non lasciare, o cuore che uccidano l’allegria,
ricuci con un sogno, o cuore, le tue ali ferite,.

Non ti arrendere, cuore libero, non ti arrendere.
Non ti arrendere, o cuore libero, non ti arrendere.

E ricorda l’infanzia senza frontiera.
Il tatto della vita, pelle di primavera.
Si sbagliano, o cuore, con fragili catene,
più vento che radici, distruggili e vola.

Non ascoltarli, o cuore, perché le loro voci non ti confondano,
sarai complice e schiavo, o cuore, se li ascolti.
Avanti, o cuore, senza paura e scoraggiamento,
durare non è restare vivo, vivere è un’altra cosa.


Il tema che mi avete proposto è molto ampio e difficile da trattare in pochi minuti. Cercherò, quindi, di dire qualcosa assumendo un punto di vista, un criterio di lettura, una mia ermeneutica, una mia interpretazione. Le interpretazioni possono essere tantissime e soprattutto più ci avviciniamo ai contesti storici reali e più queste provocazioni storiche ci porteranno ad interpretare questo tema anche in modi differenti.

Vorrei riprendere questi due grandi blocchi, queste due grandi parole, che poi sono parti molto importanti della nostra storia. Il tema della spiritualità e anche il tema della liberazione. Anche se credo che questi due temi vadano compresi insieme, essi infatti non sono due temi separati, probabilmente parlando di uno scopriamo anche l’altro. Ciascuno di questi due temi coinvolge la storia, la vita, gli individui, i popoli, le culture, e anche – come vedremo – la stessa creazione.

Per questo è necessario scegliere un punto di vista, per far sì che questi temi non siano solo retorica. In modo da non tradire i contesti concreti della nostra vita e della vita degli altri. Da parte mia non vorrei perdere nessun dettaglio, nessuna sfumatura che questi temi ci offrono, che la storia ci offre.

Riferendomi al contesto in cui io mi muovo normalmente potrei parlare utilizzando questi due grandi termini, spiritualità e liberazione, con una metodologia o con un’ermeneutica specifica della spiritualità e della teologia della liberazione. Per affrontare la vastità di questo tema volutamente scelgo una lettura esistenziale.

Se abbiamo un diritto a parlare di spiritualità e di liberazione è perché viviamo ed è perché la storia vive, i popoli vivono, le culture vivono. In questa storia esistenziale ci stiamo tutti: c’è la storia di noi come individui, con tutte queste sottili vivenze storiche, con tutte queste vite che si intrecciano; c’è tutta la parte della nostra vita che è la vita politica, affettiva, sociale, le nostre lotte per poter continuare a vivere in questa società; e poi le esistenze dei nostri popoli, dei contesti socio-politici che senza saperlo ci segnano profondamente.

Parlare di questi temi dal punto di vista esistenziale non risolve la vastità del problema. Lascio però il problema aperto, volutamente. Mi sembra importante scoprire fin dove vogliamo parlare di queste cose, e anche scoprire perché vogliamo parlarne. Qual è il nostro interesse, le nostre inquietudini che ci provocano ancore l’interesse a parlare di spiritualità, e di spiritualità della liberazione.

Quasi sempre i grandi temi della vita non nascono dalle teorie, ma nascono dalle esperienze, da questi contatti reali con la storia, per cui se voi avete scelto queste problematiche è perché probabilmente la vostra esperienza con la storia attuale vi porta a domandarvi di queste cose. Per lasciare questa possibilità di intervento, per fa sì che ciascuno si senta invitato ad intervenire sul tema e a fare la propria ermeneutica vorrei soffermarmi su quella che è un po’ la storia di questi due elementi: spiritualità e liberazione.

La spiritualità, così come la liberazione, ha una storia, un punto di inizio. Dietro alla spiritualità c’è tutta la vitalità dello Spirito e dietro alla liberazione c’è tutto il sogno della libertà. Certamente questi due temi, spirito-spiritualità e libertà-liberazione, evocano delle inquietudini, probabilmente dovremmo dirci cosa intendiamo con essi. Questi aspetti li cogliamo dai parti storici, dalle dinamiche della vita, dell’umanità, della creazione e credo che per trattare questi temi il primo passo è uscire da tutti i pregiudizi ideologici, istituzionali; che chiudono i temi, e li confinano solo ad alcune appartenenze. Cioè si pensa che la spiritualità appartenga solo alle religioni, e la liberazione, da un punto di vista anche soteriologico, appartenga solo a questi grandi messaggi delle religioni: qui si chiude il discorso. Bisogna uscire da questi criteri puramente ideologici, dai pregiudizi, essi infatti non appartengono solo a certe categorie, questi sono temi sono terribilmente laici: appartengono ai popoli, a tutte le culture, a tutte le persone e i gruppi umani che ancora cercano e che devono affrontare la vita. Questa è una premessa importantissima. Spiritualità e liberazione non sono solo i temi dei credenti, della fede, ma sono i temi storici dove dall’esperienza di fede, dall’appartenenza ad una comunità credente può nascere una certa interpretazione, però non sono temi di proprietà privata di nessuno in questa storia. Probabilmente proprio in questo consiste la difficoltà, perché quando noi li consideriamo di proprietà privata di alcune ideologie e di alcune esperienze religiose già chiudiamo il discorso. Trattare questa problematica diventa, così, ancora più difficile.

Si tratta di inquietudini storiche che appartengono all’umanità e al cosmo, che fanno parta della storia senza distinzioni di appartenenze, appartenenze che hanno solo avuto la funzione di interpretare e di dare dei contributi su queste problematiche. Però nessuna appartenenza può dire tutto nella storia. Come non mai, nella storia attuale, postmoderna, questi due temi rivendicano la propria laicità. E in questo senso lo Spirito non evoca solo ciò che è religioso, ma evoca realmente ciò che è storico e umano oltre che cosmico. Lo Spirito evoca tutta l’inquietudine della realtà, la sfida di oggi è: come raccogliere queste inquietudini nelle nostre storie, anche personali? Sono due temi che invitano gli individui ad allargare la mentalità, ci chiedono di aprirci, di salire, di uscire dalle nostre semplici problematiche individualistiche. Proprio la spiritualità nasce come critica, o come sospetto, alla morale, come diceva anche Nietzsche, intesa come un’origine a priori della storia. La spiritualità, quando nelle società e nelle culture comincia a farsi spazio, o rivendica uno spazio, o spinge, è perché nasce come una critica alla dottrina e alla morale che si impone come unica origine del comportamento umano, come qualcosa che sta a priori e che l’essere umano deve imparare.

Se ripercorriamo la storia questo è avvenuto tantissime volte, tutte le volte che dei gruppi umani rivendicano lo spirito, non solo nelle istituzioni religiose ma anche nelle istituzioni sociali e politiche. Questo avviene perché rivendicano il diritto alla dignità. Un aspetto questo importantissimo, che abbiamo visto già in altri momenti storici, e credo che in questo momento storico stia avvenendo lo stesso. Questo bisogno di ricuperare l’interiorità intesa, non come intimismo, ma come spazio dove l’essere umano ri-crea qualcosa, e si sente a casa. Questo è tipico del nostro mondo e nasce lì dove incominciamo a sospettare un po’ di questi a priori che esistono o che ci fanno pensare che esistono prima di noi.

Se seguissimo quest’eco storico arriveremmo a riscoprire l’eco delle Scritture. Quando diciamo che noi non vogliamo appropriarci di questi temi solo come i temi delle religioni o delle fedi, in realtà affermiamo che se riuscissimo davvero a riscoprire l’umano di questi temi, l’inquietudine di questi temi nella storia, arriveremo a capire in modo differente le religioni. Per cui non è dimenticarci delle religioni, o dimenticarci dell’umano, per riscoprire la vera spiritualità, ma anzi, riscoprendo, entrando sempre di più in questo umano più quotidiano, arriviamo a reinterpretare le Scritture.

Probabilmente questa era stata la metodologia della spiritualità della liberazione in America Latina. Il contesto storico così forte portava la teologia a reinterpretare le Scritture, la tradizione e la dottrina. Un itinerario profondamente interessante che non mette la laicità contro la religione ma che mette queste due grandi sensibilità alla pari. Il problema è che noi invece, non vogliamo stare alla pari: vogliamo che la religione abbia il sopravvento sulla laicità, ma questo è falso perché se davvero la storia riuscisse a fare il percorso della laicità, dell’umanità, della creazione, come è avvenuto in altre culture o in altri momenti storici, si arriverebbe alla spiritualità più profonda, all’anima della religiosità, ma noi ci muoviamo sempre in queste grandi diffidenze o sospetti.

Dal punto di vista teologico nelle Scritture c’è stato un itinerario. Purtroppo nella dottrina, soprattutto nella teologia occidentale, siamo arrivati a personalizzare troppo lo Spirito, a ipostatizzare, a considerarlo come persona divina e abbiamo saltato tutto questo itinerario di avvicinamento e di comprensione alla realtà storica e a tutta la realtà cosmica, non solo degli esseri umani, ma di tutto il cosmo. Questo Spirito identificato come persona divina, prima di tutto era identificato come la respirazione di Dio (Esodo 15,10), o come una presenza che agitava gli alberi, che scuote e trascina il grano (Isaia), una presenza cosmica ma anche una presenza nell’antropologia umana, una aspirazione della vita, che se si perde e abbandona la storia muore (Sal 78, 104). Il principio di questo Spirito, anche nelle Scritture, sfugge. Questo aspetto è bellissimo, quando si dice che “non si sa da dove viene e dove va”, diremmo che questa qualità dello Spirito ci protegge da ogni arroganza, da ogni indottrinamento, da ogni moralismo, perché ci sfugge il principio (l’arché) e ci sospinge più lontano, probabilmente ci da il gusto della liberazione come solidarietà tra Dio e la storia.

Questa solidarietà le Scritture la identificano con il Verbo, dicendo che lo Spirito, semplicemente, abita la storia. Ed è per questo che la storia, anche nell’esperienza delle comunità cristiane, diventa avvenimento, non solo una piatta ricorrenza cronologica, ma un avvenimento.

Il poeta messicano, premio nobel per la letteratura nel 1991, Octavio Paz parlava di un presente che si muove tra evoluzione, rivoluzione e rivelazione. Questa è la storia secondo lo Spirito: un processo evolutivo dove noi riconosciamo nella storia la sua autonomia, i suoi dinamismi interiori, segreti, invisibili; dove riconosciamo queste iniziative che irrompono nella storia. La rivoluzione intesa, non solo come dinamismo storico di rottura, ma come la capacità dell’umanità, dei popoli, della mente umana, nella sua inquietudine di rivoltare le cose, rivoluzionarle e darle un’altra posizione dentro la storia. Questi due elementi, l’evoluzione e la rivoluzione, che nella prospettiva dei credenti non sono dei momenti qualunque ma sono momenti rivelativi, con tutto quello che questo termine significa, che non è la chiarezza delle cose e degli avvenimenti ma è, probabilmente, una scintilla di luce che poi torna di nuovo a coprirsi nella quotidianità della storia; che porta noi esseri umani a stare attenti a questa realtà e a non tradirla, non smettere di stare in questa vigilanza costante che poi è l’atteggiamento che ci piacerebbe tanto avere: l’atteggiamento profetico, ovvero la capacità di guardare costantemente la storia, di leggerla, ed entrare in queste rivoluzioni ed evoluzioni storiche per poter vedere la storia in un altro modo, in questa dialettica tra laicità e religione, scoprendo misticamente dei lineamenti differenti del mistero.

Probabilmente quello che noi non riusciamo a fare nella storia, che la teologia non riesce a restituire all’umanità, ai popoli e alle persone comuni, è precisamente questo desiderio di ritrovare l’iniziativa e quindi di avvicinarsi, questo osare avvicinarsi alla storia con sempre più creatività. Da troppo tempo abbiamo diviso la storia dal mistero in una dicotomia così assoluta per cui il mistero segue il suo cammino e la storia segue un altro cammino e questo ci rende quasi come immaturi, o ci fa sentire tali, di fronte a tutto quello che questo mistero ci vorrebbe dire. Siamo diffidenti di fronte al mistero e non prendiamo l’iniziativa. Abbiamo paura, un certo tipo di morale, un certo tipo di dottrina ci hanno marcato e segnato con la paura, dicendoci che il mistero non si può toccare.

Questo si deve anche ad un ermeneutica particolare, perché la teologia è sempre stata fatta da delle persone con un ruolo particolare nella comunità credente. La sacerdotalità della teologia, che ha bisogno di mediatori, questo non è parte della spiritualità. La spiritualità restituisce questa iniziativa agli esseri umani, e dice loro che si possono avvicinare al mistero. Sentiamo il Vangelo così vivo spiritualmente perché i gesti di Gesù, il suo modo di vita, ci fa pensare che il mistero si è avvicinato alla storia e che quindi rimette in movimento tra i suoi contemporanei questa speranza di poter toccare il mistero. Ma poi lungo la storia, tante volte, noi ci siamo di nuovo riappropriati del mistero: la teologia, certe categorie di persone addette ai lavori nell’ambito della comunità credente, si sono appropriate di questo mistero e ancora una volta noi rimaniamo attoniti.

A volte parlando con alcune persone in America Latina ti senti dire: “tu sei suora, tu sei prete, voi siete più vicini a Dio”, questo discorso è solo un discorso di ruoli, che è stato portato avanti nella società e non solo negli ambiti semplici. C’è stata tutta una dottrina che ha costruito questo tipo di immagine secondo cui il mistero non si può toccare, eppure anche noi, in una religione come la nostra, dove il mistero dell’incarnazione aveva cercato di rompere questo schema, siamo ritornati di nuovo a questa prospettiva. Non osiamo prendere iniziativa nella storia. E se non prendiamo iniziativa con il mistero finiamo per non prendere iniziativa neanche nella storia. La passività con Dio è anche la passività etica nei momenti storici più importanti. Le istituzioni religiose e politiche fanno di tutto affinché non si prenda iniziativa. Anche in queste grandi ideologie politiche e sociali, che ci potevano dare delle ispirazioni, quando cominciano a diventare ideologie a priori, che sanno già tutto... Sartre aveva intuito che alcune ideologie fondamentali potevano aiutare la storia, però quando incominciò a vedere che anche queste ideologie davano tutto per scontato e dettavano tutto a priori e gli altri dovevano solamente obbedire, cominciò a diventare critico.

In questo momento storico c’è bisogno di riscoprire questa spiritualità della liberazione nel senso del poter, un’altra volta, allargare gli spazi. Questo noi lo possiamo fare, la teologia lo può fare, se restituisce una nuova immagine del mistero che non è lontano. Nessuno può dire che io non mi posso avvicinare o che non posso interpretare o prendere questa iniziativa nella storia, nella realtà.

Nell’ambito della prospettiva occidentale è stato fatto un danno abbastanza grave, cosa che forse nella prospettiva teologica dell’oriente cristiano è stato meno incidente, la teologia occidentale ha reso tutta la riflessione troppo antropocentrica, il Cristo antropos, specchio dell’essere umano, questo ha atrofizzato tutto il resto, l’iniziativa per poter scoprire Dio anche in un altro modo. La tradizione orientale, invece, ha lasciato più spazio al Cristo cosmico per cui la contemplazione si potrebbe dare passando per la natura, per gli elementi segreti della natura. Noi dobbiamo recuperare questo aspetto. Una volta silenziato lo Spirito si è silenziata la storia. Le possibilità alternative che le storia ha, si è silenziato il mistero perché tutte le volte che noi sappiamo tutto si chiude qualcosa per cui non possiamo continuare in questo senso restando solo tra di noi nella realtà.

Adesso credo che quello che ci insegna, o ci evoca lo Spirito lungo le comprensioni storiche e anche lungo la tradizione scritta, la tradizione biblica, credo che quello che lo spirito insegna è, come dice Paolo, la diversità, il mistero degli altri, il mistero dell’alterità. Ma ci insegna anche il segreto, il silenzio degli avvenimenti, ci insegna ad assicurare la libertà degli esseri umani, degli animali, degli elementi fisici e chimici e ci insegna la ricerca, il discernimento, le scelte, il linguaggio alternativo.

Lo Spirito ci insegna il linguaggio del genere, il linguaggio interculturale, interreligioso, l’esigenza di rendere le azioni nuove in tutti gli ambiti storici. Lo Spirito ci insegna dei tentativi di vita, ci sveglia, sono tentativi etico-mistici dove impariamo a stare nella storia. Nella tradizione ebraica un leggenda dice che nella creazione l’essere umano aveva solo un compito, doveva compiere solo una fatica: imparare a conoscere le piante e gli animali. La spiritualità è questo compito, è questa fatica: imparare a conoscere per poter imparare ad abitare nella storia. È un compito, una fatica che dura nel tempo, non è una cosa che si impara una volta per tutte, o che diventa un modo di vita dettato da certe norme. Si impara nelle relazioni, ascoltando e ricercando costantemente il mistero, nella vicinanza con l’umanità. La spiritualità della liberazione io la leggo, soprattutto in questo momento, come la rivendicazione più bella dei diritti delle persone, delle cose, del cosmo.

mercoledì 2 gennaio 2008

Dove sta andando la TdL

La teologia della liberazione in America latina
di François Houtart

(da Carta, 3 novembre 2006)


1. Sulla natura della teologia della liberazione1


Si tratta proprio di una teologia, cioè di un discorso su Dio. Il percorso però è specifico, giacché è esplicitamente contestuale. Si potrebbe dire che ogni teologia è contestuale, perché viene prodotta in una cultura e in condizioni precise. Ma la teologia della liberazione è diversa da altre correnti di pensiero perché riconosce esplicitamente che il suo percorso è legato al contesto socioculturale nel quale si esprime. Altre teologie avevano affermato lo stesso principio, per esempio la teologia di Jean-Baptiste Metz, dell’Università di Munster in Germania, o la teologia delle realtà terrestri di Gustave Tills all’Università cattolica di Lovanio.


La teologia della liberazione assume come punto di partenza la situazione degli oppressi. È quel che si definisce un «luogo teologico», cioè una prospettiva a partire dalla quale si costruisce il discorso su Dio. Un Dio d’amore non può esistere con l’ingiustizia, lo sfruttamento, la guerra. Dunque, come diceva recentemente un teologo, si tratta di una teologia che non si domanda se Dio esista, ma dove si trovi. È la realtà delle lotte sociali e l’impegno dei cristiani in favore della giustizia che formano la base di elaborazione del pensiero in questione.


Un percorso del genere esige anzitutto un’analisi sociale. Noi viviamo in una società complessa, mondializzata, difficile da capire a prima vista. Risulta dunque indispensabile usare uno strumento di analisi atto a capire i meccanismi dell’oppressione e dell’ingiustizia e quindi a superare una reazione puramente morale di fronte alla sofferenza, senza domandarsi perché esiste. La seconda necessità è quella di un’ermeneutica, cioè della ricerca del senso dei documenti di base e della storia del gruppo cristiano e delle sue tradizioni. Infatti non è possibile assumere un atteggiamento razionale, come esige ogni percorso teologico, senza porre nel loro contesto storico, semantico, culturale tutto ciò che ha costruito l’universo dei riferimenti dei credenti. La ricerca del senso degli scritti di base utilizza la semantica, l’esegesi e le scienze umane. La storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica in particolare si fonda sugli strumenti classici della disciplina. Quanto al punto di riferimento contemporaneo, le situazioni umane di ingiustizia esigono un doppio lavoro di descrizione e di spiegazione.


Da qui la questione di sapere di quale realtà si parli e quale analisi si debba usare per conoscerla. In America Latina, dove la teologia della liberazione è nata, la situazione è quella dell’oppressione sociale. In quell’epoca, cioè alla fine degli anni 60, la teoria critica principale usata per l’analisi è quella della dipendenza. Si tratta di analizzare e di spiegare i fenomeni sociali latinoamericani alla luce della situazione periferica del continente, di fronte a un capitalismo centrale, situato soprattutto negli Stati Uniti. La teologia della liberazione si basava su questa forma di analisi per costruire il proprio percorso. La povertà, la miseria, l’oppressione in America Latina non potevano venir staccate da un contesto più vasto, le cui logiche si situavano nel rapporto fra centro e periferia. Era una scelta, non arbitraria, giacché la si considerava la miglior maniera di leggere la realtà sociale per comprenderla ed esprimerla poi in termini teologici.


Per la teologia si tratta di un rovesciamento della logica del percorso abituale. Infatti, per tradizione, si tratta di una logica deduttiva, che cioè parte dalla rivelazione divina contenuta nei testi sacri per trarne poi tutte le applicazioni logiche e concrete a livello della realtà. La teologia della liberazione invece parte da un percorso induttivo, che la conduce a costruire un pensiero specificamente religioso partendo dal reale e dalla pratica sociale. Un percorso intellettuale di questo tipo introduce inevitabilmente un elemento di relatività nel discorso teologico. Non lo riduce certo allo status epistemologico delle scienze umane, ma si costruisce all’inizio di queste, implicando con ciò che la ricerca del senso religioso può cambiare orientamento secondo le situazioni e la maniera in cui le si analizza. Il discorso quindi non è più dogmatico, ma parte da una realtà empirica.
D’altra parte, questo orientamento riduce evidentemente il campo di intervento dell’autorità religiosa nell’interpretazione delle Scritture e della tradizione. La gerarchia ecclesiastica non ha più il monopolio dell’ermeneutica religiosa, perché questa prende in considerazione le realtà sociali, analizzate da un punto di vista assai specifico, quello degli oppressi, e scegliendo il tipo di analisi più adatto a questa prospettiva.


Nel cristianesimo tale scelta (prescientifica) non è arbitraria. Lo spirito del Vangelo va in questo senso, Gesù ha fatto un’opzione assai precisa in favore dei poveri e contro tutti i poteri che opprimono. È dunque possibile che un percorso teologico cristiano prenda una strada contraria, consciamente o meno? È questo il punto di partenza della teologia della liberazione.
Pur non essendo soltanto un’etica sociale, come vedremo più avanti, essa accorda a questo aspetto un posto centrale. Scegliendo infatti uno strumento d’analisi che si esprime in termini di classi e non di strati sociali, essa cambia le prospettive tradizionali della dottrina sociale della Chiesa. Quest’ultima, riflessa generalmente nel pensiero sociale delle altre confessioni cristiane e delle religioni in generale, tende implicitamente ad analizzare la società in termini di gruppi sociali sovrapposti, ma non collegati fra loro in maniera strutturale. Ne risulta che il bene comune proposto dall’insieme dei sistemi religiosi consiste nel chiedere a ognuno di contribuire, al suo posto e nella sua situazione, al benessere dell’insieme, senza mettere in questione in maniera esplicita la struttura della società, che attribuisce un posto assai preciso a ogni gruppo sociale.


Per questa ragione la teologia della liberazione adotta un’analisi strutturale della società, di cui la corrente marxista è stata uno dei principali rappresentanti, e che fa risaltare le contraddizioni sociali, spiegando così le diseguaglianze e le ingiustizie.


Ma questa teologia va molto oltre. Essa è anche una cristologia, cioè una lettura della vita di Gesù come attore sociale nella sua società, la Palestina del suo tempo, ed è un’ecclesiologia, cioè una teologia della Chiesa, analizzata anche nelle sue realtà storiche e sociali. Essa procede a una riflessione sulla liturgia e i suoi aspetti socioculturali, una teologia pastorale, che analizza i mezzi di inquadramento religioso di cui dispongono le Chiese e una spiritualità che implica la lettura sociale del reale e l’impegno dei cristiani in funzione della loro fede.


Non deve affatto sorprendere che la teologia della liberazione abbia suscitato forti opposizioni all’interno delle Chiese cristiane e soprattutto della Chiesa cattolica. Da una parte, il percorso teologico rimetteva in discussione il complesso della lettura dogmatica e dunque la posizione dell’autorità religiosa definita come unica ed esclusiva garante dell’ortodossia. Ma d’altra parte l’uso dell’analisi marxista come strumento di scoperta e di spiegazione delle società era pure oggetto di una contestazione radicale basata sull’associazione fra il marxismo come strumento di analisi e di cambiamento delle società e l’ateismo come condizione del suo utilizzo.


Secondo il cardinale Ratzinger, chiunque usi l’analisi marxista finisce inevitabilmente per adottare un atteggiamento ateo. È vero che l’adozione dell’ateismo come vera «religione di Stato» nei paesi comunisti confondeva le carte. Ma si dimenticavano due cose: da una parte che i paesi comunisti avevano abbandonato l’analisi marxista della loro stessa società con un percorso dogmatico che doveva precisamente contribuire alla loro caduta, e d’altra parte che Marx aveva rimproverato ai sostenitori dell’«ateismo radicale» di continuare a usare, nel loro percorso di filosofia sociale, un linguaggio teologico, ma rovesciato. Ne derivarono condanne ed emarginazione dei teologi della liberazione, dall’interdizione dell’insegnamento alla censura dei loro scritti, fino alla riduzione allo stato laicale e alla scomunica (nel caso di Tissa Balasuriya, dello Sri Lanka).


Un’analisi più approfondita mostra che il problema non era unicamente di ordine ecclesiastico. Era anche politico. Infatti in quel momento si assisteva a una serie di rivolte nel seno stesso della classe operaia nei paesi dell’Est, principalmente in Polonia. Ciò portò a un’alleanza di fatto fra il presidente Reagan, da una parte, che finanziava in modo aperto od occulto il movimento Solidarnosc per mezzo degli organi cattolici, e la Santa Sede dall’altra, che condannava la teologia della liberazione, posizione che non poteva non piacere ai Repubblicani americani, che avevano fissato come uno degli obiettivi della loro lotta politica la teologia della liberazione in America Latina (Charles Antoine, 1999).


2. I nuovi soggetti o «luoghi teologici»2


La ridefinizione del soggetto socio-economico

Come abbiamo visto in precedenza, in un primo momento la teologia della liberazione nella lettura del sociale era legata alla teoria della dipendenza. Questa però divenne presto oggetto di critica, soprattutto per aver messo l’accento troppo esclusivamente sul rapporto fra centro e periferia e non abbastanza sulle origini interne delle differenze sociali. Emerse progressivamente un nuovo pensiero di cui i teologi presero conoscenza e che li obbligò a precisare di nuovo alcuni punti di partenza del loro discorso specifico. Ciò non cambiava affatto l’orientamento fondamentale, ma cambiava la gerarchia delle responsabilità sul piano dell’etica sociale.


Si ebbe in seguito un periodo di silenzio, che ebbe cause diverse. In America Latina si iniziò l’era neoliberale con l’instaurazione di regimi che vennero chiamati di democrazia sorvegliata. La caduta del muro di Berlino provocò poi una crisi dei paradigmi delle scienze sociali, crisi più politica e psicologica che reale, ma che influì sul complesso della riflessione in questo campo. Dopo il Consenso di Washington, alla fine degli anni 70, sorse anche una nuova problematica, quella della mondializzazione.


Si scopriva progressivamente che in America Latina i decenni 80 e 90 avevano portato una relativa decrescita, anche se per le misurazioni si usavano i parametri del pensiero unico, mentre le diseguaglianze invece crescevano. Come ovunque, d’altra parte, una frazione ridotta della popolazione vedeva accrescersi i suoi redditi e le sue possibilità di consumo, a volte in maniera spettacolare, mentre la maggioranza ristagnava o sprofondava nella povertà e nella miseria, il tutto aggravato da un forte accrescimento demografico. Benché le statistiche ufficiali mostrassero che la povertà diminuiva in misura relativa, il numero dei poveri non faceva che aumentare. Fu così che apparvero nuovi autori, oltre a quelli che già avevano scritto negli anni precedenti (Gustavo Gutierrez, Hugo Assman, Juan Luis Segundo, Leonardo Boff, ecc.). Si tratta fra gli altri di John Sobrino, Ignacio Ellacuria, Enrique Dussel, Franz Hinkelhammert, J. Mo Sung, Ivone Gebara.

Le nuove tematiche

A partire dagli anni 80 e 90 venne alla luce una serie di nuove tematiche. Senza entrare nei particolari, è interessante farvi un accenno che permetta di farsi un’idea della diversità dei temi trattati, in funzione dei cambiamenti sociali del continente e della nascita o dello sviluppo di movimenti sociali specifici.


Critica della razionalità economica

La riflessione successiva allo sviluppo neoliberale dell’economia mondiale e ai suoi effetti sull’America Latina ha originato un dato nuovo, basato sul carattere dogmatico del «pensiero unico». Da una parte, il discorso economico è trattato come un discorso religioso, basato su principi assoluti applicati poi alla realtà, riscoprendo così un metodo deduttivo degno dei peggiori dogmatismi. Pensiamo al discorso di Michel Camdessus, l’ex direttore del FMI, o più ancora a quello di Michael Novak, il teorico americano, i quali affermano che il capitalismo è la forma più adatta alla prospettiva socio-economica del cristianesimo. Da qui una serie di pubblicazioni, come quella di Franz Hinkelhammert, Le armi ideologiche della morte (1978), L’idolatria del mercato (1989); Sacrifici umani e società occidentale (1991); di J. Mo Sung, L’idolatria del capitale e la morte dei poveri (1991); di Julio de Santa Ana, La pratica economica come religione, ecc. (3).


La seconda linea di pensiero si è costruita a partire dall’egemonia del mercato. Al contrario dell’economista di Chicago Milton Friedman, che pretende che l’economia sia una disciplina neutra, diversi teologi affermano invece il carattere etico dell’economia. Infatti l’economia neoliberale afferma certi valori presentati come supremi, soprattutto la competitività e l’efficienza.

Questi conducono a una distruzione delle basi della vita, sia materiale che culturale. Si esprime in questo senso Gustavo Gutierrez, uno dei fondatori della teologia della liberazione, nella sua opera Il Dio della vita (1982). È la vita del povero che costituisce il punto di incontro fra Dio e l’economia, giacché la vita non è soltanto l’eternità, ma l’esistenza concreta di coloro che sono esclusi e oppressi dal sistema economico.


Nello stesso senso vanno i lavori di Franz Hinkelhammert, in rapporto a quel che si potrebbe definire l’emergere del soggetto. È lui che parla del grido del soggetto (El grito del sujeto). Nella sua recente opera, Il soggetto e la legge: il ritorno del soggetto represso (El sujeto y la ley), pubblicato nel 2005 e che ebbe il Premio Libertador 2006 del Venezuela, l’autore attacca vigorosamente la modernità. La sua denuncia è in funzione delle logiche che ha dispiegato e che portano alle catastrofi ecologiche e umane del mondo contemporaneo. Per lui, la post-modernità non è che una «modernità all’estremo», giacché non fa altro che prolungarla e quindi viene chiamata a torto post-moderna. Bisogna invece riflettere partendo dall’essere umano come soggetto concreto, che ha delle esigenze di relazione con il mondo naturale e sociale. Franz Hinkelhammert elabora così una base nuova di pensiero teologico, in cui il soggetto è nello stesso tempo personale e collettivo, senza trascurare peraltro le analisi strutturali della società.


Teologie indigene

Di fronte al carattere «bianco» delle teologie della liberazione, sono sorte delle reazioni all’interno delle comunità indigene del continente. Da sempre gli indigeni sono soggetti di studi ma non soggetti di storia. In occasione della celebrazione dei 500 anni della conquista delle Americhe, e come reazione al pensiero dominante che la presentava come un «incontro di civiltà», si è prodotta una rinascita culturale che si è sviluppata in tutto il continente, incentrandosi su questioni quali l’autonomia, le culture tradizionali, le religioni. Tre incontri di teologia indigena si sono svolti rispettivamente a Città del Messico nel 1991, a Panama nel 1993 e in Ecuador nel 1994 e infine ancora uno in Bolivia nel 1997.

La nuova prospettiva consiste nel considerare le culture indigene anche come luoghi teologici. Si tratta di un complesso di saggezza popolare, e dunque di una realtà storica collettiva, essa pure spazio di rivelazione dell’amore di Dio. Infatti la loro storia è traversata da lotte costanti per mantenere la propria identità. I principi della resistenza alla colonizzazione furono costruiti su una duplice base: da una parte la difesa della vita, in virtù di una concezione cosmico-ecologica che considera l’essere umano come in simbiosi con la natura e non come padrone e distruttore di essa, e d’altra parte la vita della comunità, condizione essenziale di quella dei suoi componenti, che contrasta l’individualismo del pensiero moderno.


È compito specifico della teologia accompagnare teologicamente la costruzione del soggetto indigeno come popolo e come persona, quando è minacciato dal neoliberalismo che distrugge l’ambiente, base economica della sua vita, e che impone l’uniformità culturale della modernità. In questo senso appunto si sono sviluppate una serie di riflessioni e di pubblicazioni.


La fioritura delle teologie indigene non è priva di ambiguità: alcune tendono a volte a sacralizzare la cultura, a sviluppare una concezione troppo esclusiva del rito e a rinchiudere il pensiero in un ghetto. È la deviazione culturalista, vicina a certi ambienti dell’antropologia culturale, i cui lavori sono serviti di base a certi teologi. Da qui l’importanza del legame con la teologia della liberazione, che mostra come tutto questo si inscriva nelle strutture dell’oppressione, prima con la conquista ispanica e poi oggi con il modello neoliberale.


Teologie afro-latino-americane

La resistenza dei neri si è accompagnata a una lettura religiosa della realtà. Non è una novità, e questo si trova in tutte le religioni afro-americane ad Haiti, in Brasile, a Cuba e nei Caraibi. Invece molto più recentemente questa preoccupazione è emersa nel quadro di una teologia cristiana. Nel 1994, sotto gli auspici dell’Associazione dei teologi del Terzo mondo, si è tenuto a Nova Iguaçù, in Brasile, un consulto su “Cultura nera e teologia”. I partecipanti vi hanno sviluppato nuove prospettive sui concetti di razze, classi, generi, religioni. È stato l’inizio di una critica radicale del «feticismo dei bianchi» nel senso stesso della produzione teologica e di una decostruzione di un’antropologia etnocentrica, proponendo invece di riconoscere l’alterità dei gruppi afro-americani.


Si trattava infatti di ristabilire la giustizia per una comunità considerata come “egemonizzata”. In una prospettiva teologica, nelle lotte degli schiavi e nelle manifestazioni della negritudine si ritrova la presenza liberatrice di Dio. Un pensiero di questo tipo sviluppa una visione olistica della realtà e dell’essere umano. Porta alla sovversione della «logica magica» del neoliberalismo, all’affermazione del valore della persona in sé e non anzitutto come unità di produzione, e della natura come spazio vitale e non come semplice risorsa economica. Esso affronta in maniera egualmente critica «l’imperialismo razzista» dei percorsi religiosi e teologici indigeni.


Per lo sviluppo di un pensiero teologico afro-latino-americano si pongono varie questioni metodologiche, in particolare quella dell’ermeneutica delle espressioni religiose delle popolazioni nere, per non ricadere nel culturalismo già segnalato a proposito delle teologie stesse.


Teologia femminista

La teologia della liberazione era una teologia di uomini. In una prospettiva femminista, si tratta di ritrovare il volto femminile della povertà, percorso che non appariva affatto negli scritti antecedenti gli anni 80. Eppure l’emarginazione delle donne, nello spazio sociale, politico, culturale e religioso (compreso cristiano) è una realtà. Da qui la presa di coscienza dell’esistenza del sistema patriarcale e della sua articolazione con gli altri sistemi di dominio, come meccanismo della loro riproduzione. Ciò accorda una base etica al femminismo che porta a un pensiero teologico specifico, basato su una concezione unitaria dell’essere umano, considerato anche nelle sue differenze.


Furono organizzati tre congressi di teologia femminista della liberazione: Città del Messico (1979), Buenos Aires (1985), Rio de Janeiro (1993). Questa corrente teologica si fonda sulla constatazione che le donne sono doppiamente oppresse, per l’appartenenza di genere e per la classe sociale. Esse sono dunque un soggetto di liberazione specifico. D’altra parte, viene accordata un’attenzione particolare alle donne che nella Bibbia hanno contribuito alla liberazione del popolo ebreo. Ci sono anche delle donne che hanno accompagnato Gesù nella sua vita pubblica e nella sua predicazione.


L’esperienza della donna come luogo epistemologico proprio si esprime nel discorso teologico con elementi nuovi, quali la poetica, l’estetica, l’affettivo. Ciò permette di distruggere le categorie androcentriche che hanno escluso le donne dal discorso e dall’esperienza cristiana, mentre la storia ecclesiastica ha in genere occultato il loro ruolo. Il nuovo percorso teologico si caratterizza per una rilettura dei testi di base con una prospettiva femminile e una riformulazione dei grandi temi del cristianesimo. D’altra parte, viene messo l’accento sulla liberazione delle donne nere, indigene, contadine. Inoltre è stato prodotto un certo numero di scritti sull’«eco femminismo», riportando entro una logica comune il posto della donna nella natura e nella società. In Cile dal 1993 si pubblica una rivista che si rifà all’ecofemminismo.


Teologia dell’ecologia

Come dice Leonardo Boff, ispirandosi alla spiritualità del fondatore dell’ordine francescano, lo sfruttamento economico della natura in una prospettiva di modernità dominata oggi mondialmente dalla logica del capitalismo, porta alla distruzione del «focolare» di tutti gli esseri umani. Da qui il grido della terra. Per questo teologo, il paradigma tecnico-scientifico della modernità non è universalizzabile, né integrale. Leonardo Boff si oppone a una concezione ottimistica del progresso senza fine, mentre le risorse sono limitate, e sviluppa invece una concezione olistica dell’universo vivente e in particolare una relazione fra l’uomo e la natura che si esprime da soggetto a soggetto. La dimensione teologica di questa concezione permette di stabilire un nesso fra lo sfruttamento dei lavoratori e la distruzione della terra, che Marx aveva indicato come caratteristica del capitalismo.


Teologia del pluralismo religioso

Di fronte alla presa di coscienza del pluralismo religioso in America Latina, che non è più esclusivamente un continente cattolico, alcuni teologi hanno avviato una nuova riflessione. È in particolare il caso di José Maria Vigil (2005). Non solo i nuovi movimenti religiosi (spesso definiti sètte) si sviluppano con rapidità nell’insieme del continente, ma oggi si prende coscienza anche dell’esistenza di religioni indigene e afro-americane che escono dalla clandestinità e hanno meno bisogno delle espressioni culturali del cristianesimo per garantire la propria sopravvivenza. Oggi le religioni degli indigeni in Guatemala, Ecuador, Perù, Bolivia si affermano chiaramente come sistemi religiosi autonomi, con le loro divinità, i loro rituali e il loro ruolo specifico. Succede lo stesso con le popolazioni afro-americane, che si tratti del vudù di Haiti, della santeria o regola di Osha a Cuba o del canbomblé o umbanda in Brasile.

A tutto questo va aggiunta una presenza, certo minoritaria ma significativa, dell’islam e del buddismo. Non è più il tempo in cui i giapponesi che emigravano in Brasile erano incoraggiati dal loro stesso governo a convertirsi al cattolicesimo, per potersi integrare più facilmente nel nuovo paese.


Questo prendere atto del pluralismo religioso rappresenta un fenomeno nuovo in America Latina, mentre avveniva evidentemente fin dagli inizi in Asia, dato il carattere minoritario del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo. Da qui, nella teologia latinoamericana, un nuovo interrogativo: che cosa significa il pluralismo religioso rispetto alla liberazione? Lo sconvolgimento del campo religioso deve essere considerato come un’espressione di lotta emancipatrice, cioè una reazione contro l’oppressione, come un ritorno alla pluralità delle tradizioni oppure come un ulteriore aspetto del dominio dell’impero del Nord? Ecco le forme della nuova sfida che deve ancora trovare la sua espressione teologica.

Una rilettura del cristianesimo originario

Il teologo argentino Ruben Dri ha scritto un’opera intitolata Il movimento anti-imperiale di Gesù. Secondo lui, il progetto integrale di Gesù, radicato nella tradizione profetica ebraica radicale, prevede sia un’economia di solidarietà (dono e condivisione) sia una politica che si esprime nello stabilire relazioni di fratellanza.


Questo movimento che esprimeva contemporaneamente la tradizione profetica e la tradizione apocalittica, radunò uomini e donne di settori dominati della società palestinese. Gesù partì dalla Galilea e si diresse a Gerusalemme, dove affrontò i poteri egemonici e fu giustiziato. Fu un intervento dell’impero romano, la cui azione nella regione si vedeva minacciata. La repressione è stata esercitata quindi in funzione del carattere anti-imperiale del Movimento di Gesù. Altrimenti non sarebbe stato che un movimento fra tanti altri, all’interno di una società particolare.


Dopo la dispersione, in seguito alla conquista di Gerusalemme da parte dei Romani, prese l’avvio un’altra storia del cristianesimo. Ma prima di questo, malgrado il fatto che i racconti evangelici tendano a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù unicamente sul popolo ebraico, si trattava di una repressione dell’impero contro un movimento che ne contrastava l’egemonia.

Conclusione


La teologia della liberazione in America Latina, la cui analisi è stata influenzata in un primo tempo dalla teoria della dipendenza, ha conosciuto un notevole slancio. Si è introdotto progressivamente un cambiamento di prospettiva, con le politiche neoliberali della mondializzazione che hanno aumentato il numero dei poveri, hanno fatto dilagare la diseguaglianza e condotto ai regimi di democrazia sorvegliata. Nello stesso tempo, si producevano una restaurazione ecclesiastica e una repressione ideologica. Si stabilì di fatto un’alleanza politica fra Roma e Washington. Oggi tuttavia si assiste a una ripresa della teologia della liberazione e a un ampliamento delle prospettive.


Tuttavia l’arricchimento che ciò significa comporta anche un pericolo reale di perdita della centralità del pensiero. La dispersione dei temi rischia di farli considerare come degli in-sé, cioè di promuovere una detotalizzazione del soggetto. L’influsso del post-modernismo è stata reale per alcuni teologi, che si sono concentrati sulle «piccole narrazioni», praticando una riduzione della capacità esplicativa, parallela all’eclisse del pensiero marxista. Oggi appaiono nuove prospettive, con la ricerca di un nuovo soggetto storico della liberazione, che è nello stesso tempo pluralista, popolare, democratico e multipolare e che si esprime fondamentalmente in seno ai Forum sociali.

Non c’è dubbio che la ricchezza di queste nuove prospettive permette nuovi sviluppi. Bisogna peraltro notare un fatto sociologico importante. È l’indipendenza istituzionale del nuovo pensiero teologico. Dovendosi elaborare all’esterno dei quadri istituzionali delle Chiese principali, soprattutto della Chiesa cattolica, il nuovo pensiero teologico nelle sue diverse forme è evidentemente meno controllato. Mantiene peraltro la sua importanza, sia in funzione della pregnanza religiosa del continente sia dell’interesse politico del fatto religioso. Ciò non impedisce affatto che le ultime produzione della teologia della liberazione restino una teologia, con frontiere ben definite rispetto alla filosofia o alle scienze sociali. Si tratta dunque di una realtà ben viva, anche se non è più tanto visibile come quando veniva prodotta entro le istituzioni ed era meno pluralista nell’elaborazione dei suoi luoghi «teologici».

Note
1. La questione è trattata fra l’altro nel numero di «Alternatives Sud», la rivista del Centro Tricontinentale di Louvain-la-Neuve (vol. VII, n. 1, 2000), e in: F. Houtart, Délégitimer le capitalisme, recréer l’espérance, Bruxelles, Colophon, 2005.

2. Questa parte dell’articolo utilizza in particolare le sintesi di Juan José Tamayo Acosta, Las teologias de Abaya-Yala e Cambio de paradigma en America Latina, che contengono un’ampia bibliografia (indirizzo dell’autore: jjtamayo@telefonica.net ).

Gli scritti in lingua spagnola o portoghese sono citati nei testi di Tamayo Acosta.

Bibliografia
Alternatives Sud, Théologies de la libération, Louvain-la-Neuve, Centre Tricontinental, Parigi, l’Harmattan, 2000.

Antoine Ch., Guerre froide et Eglise catholique. L’Amérique Latine, Parigi, Ed. du Cerf, 1999.

Aquino M.P., Tamez E., Teologia feminista latinoamericana, Quito, Abya-Yala, 1998.

Primer Encuentro continental de teologias y filosofias afro, indigena y cristiana. Layambe, Ecuador, Quito, Ed. Abya-Yala, 1995.

Gebara I., Le Mal au féminin, Parigi, L’Harmattan, 2001.

Hinkelhammert F.J., El sujeto y la ley. El retorno del sujeto reprimido, Heredia (Costa Rica), Editorial Universidad Nacional, 2005.

Houtart F., Délégitimer le capitalisme, recréer l’espérance, Bruxelles, Colophon, 2005.

Gutierrez G., Théologie de la libération, Bruxelles, Lumen Vitae, 1969.

Maduro O., La théologie latino-américaine de la libération: une autocritique, “Dial”, Dossier 2874, maggio 2006.

Tamayo-Acosta J.J., Las teologias de Abaya-yala: valorizacion desde la teologia sistematica (testo inedito).
Vigil J.M., Teologia del pluralismo religioso: curso sistematico de teologia popular, Cordova, Ed. El Almendro, 2005.

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