giovedì 25 ottobre 2007

Abbozzo di una cristologia andina della liberazione

Gesù Cristo come chakana.

di José Estermann

1. Introduzione

L’“opzione preferenziale per le povere e i poveri”, definita nella II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Medellín, e ratificata nella III Conferenza

generale a Puebla, è venuta contestualizzandosi, negli ultimi venti anni, nei gruppi umani di diverso sesso, razza e appartenenza culturale. Nel contesto andino, si parla di una “opzione teologica ed ecclesiale per le indigene e gli indigeni”, una “opzione per i popoli dimenticati e emarginati”, una “opzione per le religiosità e le spiritualità autoctone”.

La fede dei popoli andini originari e indigeni è un locus theologicus – “un luogo teologico” – privilegiato per sviluppare e rielaborare i principali temi teologici, in dialogo interculturale critico con la tradizione dominante e classica dell’Occidente. La condizione di poveri ed emarginati, di “dimenticati” e stigmatizzati conferisce ai popoli indigeni della regione andina una piattaforma ermeneutica eccezionale.

La figura di Gesù di Nazareth come Taytayku (“padre nostro”) Cristo occupa nell’immaginario religioso dei popoli andini (soprattutto quechuas e aimaras) un luogo privilegiato, più visibile e incorporato nella religiosità popolare che la prima (Padre) e la terza persona (Spirito) della Trinità. Le feste religiose sono centrate sulla ierofania di santi, Vergini e Cristi (cristofanie); queste ultime seguono il corso dell’anno liturgico, con tre grandi punti fermi: Natale, Venerdì Santo (compresa Pasqua e Resurrezione) e Festa della Croce (3 maggio).

Pare che i jaqi e runa andini (“persone” in aimara e quechua, rispettivamente), abbiano preso molto alla lettera la catechesi tradizionale del credo che salta dalla nascita alla passione trascurando la predicazione e la prassi di Gesù. L’immagine che la gente andina ha di Gesù sembra essere centrata sulla sua funzione cosmica, salvifica e mediatrice e non sulla figura storica di Gesù, falegname ed ebreo di Nazareth.

2. T’unupa: Gesù travestito da mendicante

Nell’altopiano peruviano e boliviano, continua a vivere nella

popolazione quechua e aymara il mito di T’unupa (o Tonapa) che in epoca coloniale si è sovrapposto alla figura di Gesù Cristo. Secondo la testimonianza di un jaqi aimara di Juli (estremo sud del Perú):

“Mio nonno raccontava il mito di T’unupa, dicendoci che T’unupa era il figlio del dio Wiraqucha. Il dio aveva disposto la terra, il cielo, il sole, la luna, le stelle e tutte le cose. E poi aveva inviato suo figlio ad insegnare all’umanità una vita in armonia con la natura. Mentre percorreva i paesi, insegnava ai/alle contadine a trarre il maggior beneficio possibile dalla terra, senza danneggiarla; predicava contro la pigrizia e l’ubriacatezza ed sottolineava i fondamenti della solidarietà e della misericordia” (Testimonianza personale).

Il mito di T’unupa diventa particolarmente interessante per una riflessione cristologica liberatrice, per i diversi modi in cui si è manifestato. Uno di essi è interpretato come “Cristo andino”, uomo saggio, umile e predicatore di misericordia. Analogamente, la figura di T’unupa è identificata a volte con San Bartolomeo e a volte con San Tommaso. Si parla di una “proto-evangelizzazione” leggendaria delle Ande da parte dell’apostolo Tommaso (T’unupa). La parola t’unupa sembra provenire dalla lingua e dalla cultura pukina, dei signori di Tiwanaku (popolo dell’odierna Bolivia, conquistato dagli Incas).

Uno degli aspetti religiosi che ha maggiormente richiamato

l’attenzione dei primi evangelizzatori è stato la misteriosa croce [precoloniale] di Carabuco (che sarebbe diventata la cosiddetta “croce andina”), attribuita da alcuni missionari a San Tommaso o a san Bartolomeo e associata in ultima istanza al dio o eroe delle origini T’unupa (Tonapa, Tarapaca e anche figlio di Viracocha o Wiraqucha). Questo eroe leggendario fu chiamato a volte anche “Cristo andino” per i suoi miracoli, persecuzioni e liberazione finale, dopo la quale navigò sul lago e aprì il fiume Desaguadero. Ancora oggi un vulcano al nord del Salar de Uyuni porta il suo nome.

“[...] è arrivato in queste province e in questi regni da Tawuantinsuyu un uomo con la barba, di statura media e con i capelli lunghi, e con lunghe vesti, e dicono che non era nessuno, un uomo pelle e ossa, che camminava con il bastone del pellegrino, e insegnava alla gente del posto con amore, chiamandoli tutti figli e figlie, che non veniva ascoltato né seguito, e mentre percorreva le province compiva molti miracoli visibili; solo toccando gli infermi li guariva, e senza alcun interesse personale né attrazione, il quale dicono che parlasse tutte le lingue meglio della gente del posto, e lo chiamavano Thonapa [...]”.

Secondo il mito, T’unupa, figlio del dio supremo Wiraqucha, andava vestito da mendicante di villaggio in villaggio, predicando la Buona Novella della liberazione e di una vita degna per tutte e per tutti, curando i malati e mostrando il suo amore per gli indigeni e le indigene. Tuttavia, fu rifiutato da molti, cosa che portò disastri naturali e petrificazione dei malfattori. In diverse occasioni lo accolse una vedova e si salvò dalle conseguenze fatali per gli altri.

La figura mitica di T’unupa è stata reinterpretata dalla popolazione andina, attraverso la catechesi, come la figura di Gesù Cristo, pellegrino e mendicante, guaritore e amante degli umili, liberatore di questo popolo soggiogato dall’impero incaico e in seguito dai colonizzatori spagnoli.

T’unupa-Gesù è una figura sovversiva di resistenza e di speranza che è andata fondendosi con un altro mito molto importante e di grande rilevanza fino a oggi: il mito di Inkarrí.

3. Inkarrí: Gesù risuscitato in mezzo al popolo andino

Poco tempo dopo la conquista, la popolazione andina creò un mito che ha elementi apocalittici (in senso biblico) di resistenza e di speranza e che allo stesso tempo rappresenta una lettura drammatica della situazione del popolo andino. Secondo il racconto, il dio supremo Wiraqucha aveva due figli: Inkarrí (è la forma quechuizzata delle parole spagnole “inca” e “rey”) e Españarrí (“Rey de España”); secondo altre versioni: Inka e Gesù. Tra i due fratelli si sviluppò un conflitto di vita e morte [la Conquista], così che Inkarrí fu squartato da Españarrí, e le parti del suo corpo furono sparse ai quattro venti (il Tawantinsuyu o “impero delle quattro parti”, ora però conquistato).

Sebbene la popolazione autoctona abbia identificato inizialmente Españarrí con il nuovo “dio Gesù”, molto rapidamente lo vide come incarnazione di Inkarrí che ebbe la stessa sorte di Gesù Cristo in croce, sotto un altro impero ugualmente sanguinario ed ingiusto [l’impero romano]. Così che Inkarrí-Gesù andò presto trasformandosi, per la popolazione colonizzata e soggiogata degli indigeni, in una figura di speranza di liberazione e restituzione dei diritti perduti. Secondo un’altra versione della leggenda, Inkarrí, come Gesù, fu perseguitato per aver difeso il suo popolo contro l’invasore, cosicché fuggì nella foresta (uraypacha o yunka che venne identificato dai missionari come l’“inferno”, e qui abbiamo il parallelo della “discesa agli inferi” di Gesù) e continua a vivere lì per risuscitare un giorno tra i poveri e le povere e ristabilire il grande impero incaico. Per molti, il rivoluzionario indigeno Tupac Amaru (e Tupac Katari nel caso boliviano; entrambi del 1780/1) era una incarnazione di Inkarrí.

Il mito popolare di Inkarrí-Tupac Amaru ha molti paralleli con Gesù Cristo: Tupac Amaru (come il suo equivalente boliviano Tupac Katari) fu un leader carismatico, lottò contro l’ingiustizia e lo sfruttamento degli indigeni, fu squartato dal potere coloniale, ma un giorno sarebbe resuscitato riunendo le sue membra dalle quattro regioni (tawantinsuyo) per fare giustizia. La parousia di Cristo in termini di utopia andina.

Il mito di Inkarrí è tanto un racconto della resistenza contro il potere di occupazione e contro la civiltà europea (compreso il cattolicesimo spagnolo), quanto una sorta di interpretazione indigena della resurrezione di Gesù e della sua ultima venuta (parousia), per arrivare alla fine alla atakatástasis, il riscatto totale di tutta la creazione. Così come nella resurrezione di Inkarrí sarebbe risorto il popolo indigeno andino, nella e attraverso la resurrezione di Gesù Cristo (o Cristorrí) risusciterà il nuovo popolo di Dio, per lasciare alle spalle i secoli di servitù ed esclusione.

4. Gesù Cristo come chakana (ponte cosmico)

Secondo quanto emerge dalle inchieste tra i cristiani e le cristiane andine, la cristologia andina popolare afferma con la Chiesa ufficiale che Cristo è figlio di Dio fatto uomo, che è venuto sulla terra per redimerci con la morte in croce. Tuttavia, ha elementi specifici che hanno a che vedere con il sostrato del pensiero andino e delle mitologie andine (tra queste i miti di T’unupa e di Inkarrí).

In primo luogo, per i jaqi e runa andini, Gesù è spogliato quasi completamente degli aspetti storici. I due punti fermi cristologici sono la nascita (Natale) e la morte in croce (Settimana Santa), che culmina con la Pasqua di risurrezione nuovamente ricordata nella Festa della Croce (3 maggio). Né la predicazione di Gesù né i suoi miracoli raccontati nel Nuovo Testamento svolgono un ruolo importante nella religiosità andina, e la resurrezione è associata al Venerdì santo o al pachakuti (cataclisma) andino del ristabilimento cosmico dell’ordine.

In secondo luogo, Gesù è venerato soprattutto come “taytacha (piccolo padre) miracoloso”, sotto le molteplici manifestazioni sacre o cristofanie, e riceve in questo modo nomi e titoli molto diversi. In Perù per esempio è conosciuto come “Signore dei miracoli”, “Signore dei Terremoti”, “Signore di Huanta”, “Signore di Qoyllur Rit’i”, “Signore di Achajrapi”. Ogni Cristo particolare (o ogni ierofania di Cristo) manifesta un tratto determinato del Cristo universale.

Le leggende di queste cristofanie insistono sul fatto che taytacha Gesù si è rivelato prima ad un povero pastore, un contadino emarginato, e che immediatamente entrò in conflitto con il potere ecclesiastico ufficiale che pretese, in un primo momento, di esautorare l’opera miracolosa del taytacha. Il popolo autoctono adottava, senza dubbio, il Cristo miracoloso, nonostante gli avvertimenti e persino le proibizioni del clero coloniale, e lo fece suo (taytacha Gesù Cristo). Le rappresentazioni artistiche e leggendarie di queste cristofanie mostrano tratti indigeni, pelle scura e rivelazioni in quechua.

In terzo luogo, Gesù si manifesta soprattutto nel simbolo della croce. La croce rivela un aspetto importantissimo della cristologia andina, a causa della funzione che essa svolge nel pensiero andino.

La croce è per gli jaqi e i runa andini prima di tutto una chakana, un ponte tra diverse regioni cosmiche, tra sopra e sotto, sinistra e destra. I popoli indigeni delle Ande hanno conosciuto la figura e il simbolo della croce già prima dell’arrivo dei primi missionari [per esempio la croce di Carabuco]. La Croce del Sud, chiamata “chakana maggiore” (hatun o jisk’a chakana) da quechua e aimara, è sempre stata un elemento molto importante nella cosmovisione andina.

La croce andina (chakana) ha una simmetria orizzontale e verticale, in modo da rappresentare l’equilibrio cosmico in due direzioni: dall’alto in basso l’equilibrio della corrispondenza, da sinistra a destra l’equilibrio della complementarità. Inoltre è a scaletta, sottolineando la funzione mediatrice. Insieme, gli aspetti riflettevano il principio basilare della sapienza andina: il principio di relazione che è il nucleo stesso della cristologia. Cristo è sia colui che mette in relazione definitivamente sia la relazione esemplare.

La croce andina – e quindi Gesù Cristo – mette in relazione

come chakana o ponte cosmico i diversi livelli e aspetti della realtà ed è pertanto il simbolo eminente del divino. Il vuoto in mezzo rappresenta il mistero divino della chakana universale che lancia ponti tra umano e divino, tra vivo e inerte, tra femminile e maschile, tra passato e futuro, ma soprattutto tra una situazione di ingiustizia, servitù e oppressione (stato di non redenzione o di peccato) ed una situazione di armonia, di libertà e di inclusione (stato di redenzione o di grazia).

Nelle Ande, le croci di colore verde e senza corpus, segnano le vette delle montagne più alte. Questi luoghi topografici manifestano una doppia funzione. Da una parte, continuano ad essere i luoghi sacri degli achachilas o apus, cioè degli spiriti tutelari che proteggono i popoli e che incarnano la presenza degli antenati, specialmente dell’antenato mitico fondatore del popolo o del villaggio. I nomi di apu o achachila si sono trasformati in nomi onorifici per Gesù; in quechua, è usuale dire Apu Gesù o Apu Taytayku (nosro Padre Dio). In aimara, si distingue più chiaramente tra gli achachilas (spiriti tutelari) e Tata (Padre) Dio o Tata Gesù.

D’altra parte, le montagne, con le loro vette, sono chakanas eminenti, cioè punti di transizione o ponti cosmici tra il mondo della vita quotidiana, chiamata kay o aka pacha (“questo strato cosmico”) e il mondo superiore, chiamato hanaq o alax pacha (“lo strato cosmico superiore”).

Con il simbolo visibile della croce, la funzione di chakana in un certo senso si potenzia: tanto le vette delle montagne quanto la croce sono chakanas molto potenti ed efficaci, e insieme hanno un immenso potere salvifico.

Nella religiosità popolare andina, la croce (chiamata anche “la santissima Croce”) non si riferisce necessariamente a Gesù Cristo, ma è considerata un santo particolare. La Festa della Croce, che inizia il 3 maggio con la “discesa” della croce dalle montagne e culmina a Pentecoste con la “salita”, continua a grandi linee la coreografia della processione di qualche santo, e obbedisce inoltre alla logica degli apus e achachilas. La croce è considerata il “Santo protettore” del popolo (che non coincide con il patrono) che vigila dalla montagna più vicino per undici mesi La Festa della Croce ha come finalità quella di assicurarsi la protezione, in cui l’Apu Taytayku si avvicina al popolo stesso, perché “viva” un certo tempo (tra discesa e salita) tra di noi (cioè nella piazza principale del villaggio nel tempio). Però la sua dimora principale è la vetta della montagna, a causa della funzione imprescindibile di chakana. Nella festa della Croce, il riferimento alla passione di Gesù non ha alcun ruolo. La croce è considerata simbolo di vita (ecco il perché del colore verde) e della relazione tra umano e divino. La croce non porta corpus (al massimo dipinti stilizzati del viso, delle mani e dei piedi) ma è adornata e “vestita” di abiti e fiori.

Un’altra presenza della croce si ha con il Venerdì santo, come memoria del “Signore sofferente”. La croce incarna tutto il dolore e la sofferenza del popolo che si “deposita” letteralmente nel legno, con lacrime, baci, abbracci e singhiozzi. Se la croce stessa non ha corpus, vi si colloca una figura di Gesù agonizzante e sanguinante. In questo si riflettono diverse cristofanie, così come il Signore della Colonna o il Signore dell’Agonia che - come la croce in generale - occupano ed esercitano le funzioni di santi particolari.

Richiama l’attenzione il fatto che le rappresentazioni andine della passione e della sofferenza di Gesù spiccano per la loro intensità della sofferenza e dell’agonia. È un simbolo dell’identificazione della sofferenza del popolo, della sua esclusione e oppressione, con il Signore agonizzante e sofferente. Molti osservatori della religiosità popolare andina non comprendono il luogo trascendentale del Venerdì santo e la sua importanza rispetto alla Pasqua di risurrezione. Non si tratta di un aspetto masochista o persino necrofilo dei popoli originari che si plasma in modo visibile nei rituali del venerdì santo. Così come le croci sulle

vette delle montagne sono simboli di vita e speranza, lo è altrettanto la croce del Venerdì Santo.

Venerdì santo e Pasqua di resurrezione sono due aspetti complementari di una sola realtà, la dialettica intrinseca tra vita e morte. Nelle Vie Crucis del venerdì santo di solito si inserisce come XV stazione la resurrezione. Per i credenti andini, Venerdì santo è più un segno di speranza che di morte. È certo che la pachamama è in lutto nei giorni della Settimana Santa, perché piange per la sorte di Gesù; per questo, è “intoccabile” in questi giorni. Ma d’altra parte, la Settimana Santa è un periodo di grande speranza, della trasformazione della sofferenza e della morte in allegria e pena, della sterilità in fertilità, in breve di liberazione del popolo.

5. Cristologia andina: ponte tra sofferenza e liberazione

Che conclusioni possiamo trarre teologicamente dalle pratiche, dalle credenze e dai rituali che gravitano intorno ai miti andini di T’unupa e Inkarrí, come anche dal posto importante che occupa la croce nella religiosità popolare nelle Ande?

In primo luogo, Gesù è visto come un compagno nel cammino dei popoli andini che condivide l’umiliazione, l’emarginazione e la spoliazione.

È “Dio travestito da mendicante”, incarnato in questo popolo sofferente, ma pieno di speranza. Gesù Cristo è il Dio solidale che sta a fianco degli uomini e delle donne oppressi, che non si unisce ai rappresentanti del potere (Españarrí), ma che soffre le conseguenze della sua opposizione all’impero, così come è il caso di Inkarrí.

L’identificazione dei popoli andini con la sofferenza e la passione di Gesù rivela il proprio martirio e la speranza della liberazione integrale che si interpreta più in senso cosmico che storico. Nella imitatio Christi il popolo andino recupera forza per la propria liberazione; taytacha Gesù si è totalmente identificato con questo popolo che lo ha portato con sé nella morte in croce. L’identificazione è reciproca, anche se l’iniziativa di inviarci suo figlio spetta a taytacha Dio; come risposta, i runa e jaqi andini si identificano con il destino di Gesù, nelle figure di T’unupa e Inkarrí, ma anche nelle rappresentazioni del Cristo dell’agonia.

La morte di Gesù Cristo in croce rivela il significato trascendentale di questo avvenimento, perché la croce è molto di più di un legno di tortura, è il simbolo massimo della riconciliazione, del riscatto da un ordine corrotto, della mediazione definitiva. La croce è il ponte cosmico (chakana), e pertanto Gesù Cristo è chakana per eccellenza, intermediario esemplare, mediazione insuperabile.

Nella croce si uniscono il divino e l’umano, ciò che appartiene al “sopra” (hanaq o alax pacha) e ciò che appartiene al “basso” (kay o aka pacha) in modo denso (come un “simbolo reale”), un sacramento cosmico, una riconciliazione definitiva di ciò che prima era separato. La croce incarna la speranza della ricostituzione di ciò che fu spezzato (l’armonia primordiale), di un equilibrio danneggiato, di un ordine scomposto. La croce è il simbolo della sofferenza e della resurrezione, della morte e della vita.

La croce come chakana universale, rappresentata da numerose croci sulle vette delle montagne, simboleggia così uno dei theologumena più importanti della fede cristiana: Dio si fa essere umano. Cielo e terra non sono più totalmente separati, l’umano e il divino si toccano e comunicano tra loro. La croce incarna questo “ponte” e simboleggia in questo modo ciò che di più profondo è nel dogma cristologico: l’integrazione di mondi separati, l’anticipazione di una “riconciliazione” cosmica tra ciò che era diviso e disarticolato.

D’altra parte, i popoli andini hanno incorporato molto poco di ciò che storicamente la croce significa, comprese la vita e la morte di Gesù. Come nel caso dei Santi come intermediari non si conosce la vita né l’agiografia, così, nel caso di Gesù Cristo, la cosa più importante non è la sua predicazione, la sua sorte sotto il regime romano, la sua appartenenza alla comunità giudaica, o la sua dissidenza dottrinale e rituale. Ciò che conta è la sua “funzione” e il suo luogo topologico, o per meglio dire teologico. In questo senso, la cristologia andina, anche nel suo aspetto soteriologico e harmatologico, si avvicina molto di più ad una cristologia cosmica giovannea (dell’evangelista Giovanni) che ad una cristologia “dal basso” dei sinottici.

È certo che le donne e gli uomini andini praticamente non conoscono lo sfondo storico e politico del simbolo della croce. Senza dubbio, si identificano anche – sebbene in forma più inconsapevole – con il messaggio politico ed etico: l’ingiustizia, l’umiliazione, la sofferenza, l’oppressione, l’esclusione. La Buona Novella è arrivata a Abya Yala (nome autoctono dell’America Latina) con croce e spada, originariamente due strumenti di aggressione e maltrattamento. La complementarità simbolica e religiosa tra la croce cristiana e la chakana andina hanno fatto sì che questo simbolo centrale della nuova fede non fosse identificato in primo luogo con uno strumento di tortura e uno strumento di conquista – benché in verità molte volte fosse usata in questo senso – ma come simbolo di riconciliazione cosmica e di vita piena. La liberazione definitiva, anticipata nella Resurrezione di taytacha Gesù, si attende con la venuta finale (parousia) di Gesù Cristo, concepita come ristabilimento dell’armonia primordiale, persa a causa del peccato, tanto strutturale quanto personale, soprattutto a causa della rottura dell’ordine cosmico (pacha) per colpa della Conquista e delle sue conseguenze. Gesù Cristo ristabilirà – così come insegna la leggenda di Inkarrí - un giorno l’ordine e l’armonia, creando un “nuovo cielo e una nuova terra”. Per le donne e gli uomini andini, questo si realizzerà attraverso un pachakuti, un cataclisma “apocalittico” che è una “ri-voluzione” dell’ordine attuale di ingiustizia, esclusione e sofferenza.


(dal libro digitale dell'Associazione ecumenica dei teoligi e delle teologhe del terzo mondo, Deporre i poveri dalla croce)

lunedì 22 ottobre 2007

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