martedì 25 settembre 2007

Una riflessione chiave per la fede a partire dal nuovo libro di F. Barbero

Il dono dello smarrimento

di g.g.


Come avviene il passaggio da una fede imprigionata nelle strutture autoritarie, una fede confessionalistica, inconsapevole, sottomessa al potere, ad una fede matura, liberata, profondamente radicata nel quotidiano, che nasce dalla difficoltà della ricerca e che si fonda sulla fedeltà al vangelo?

Non si tratta di una domanda di facile risposta! O, meglio, potrebbero essere date molte risposte. Certo si tratta di un problema che è vivo nel cuore di chi cerca di essere fedele al vangelo. Un nodo centrale. Il passaggio dalla fede del catechismo ad una fede vissuta con consapevolezza.

Alcuni potrebbero rispondere che gli uomini non sono uguali, che i processi di maturazione della consapevolezza sono individuali e che dipendono dagli stati di coscienza finora attraversati. Che alcuni crescono e che altri restano imprigionati nell’inconsapevolezza di sé. In qualche modo tutto questo è vero. Questo ragionamento, però, non spiega tutto e potrebbe voler giustificare la superiorità di alcuni individui rispetto ad altri con le relative teorie filosofiche, antropologiche, ecc. Occorre cercare un modo nuovo per affrontare il problema, che sia fedele all’annuncio della basileia di Dio, annuncio che è rivolto a tutti, specialmente ai poveri, agli esclusi e agli oppressi.

Bisogna partire dall’analisi sociologica della struttura ecclesiastica. La chiesa cattolica è assimilabile, infatti, alle metafore sociologiche del guard(i)a-caccia e del cacciatore: da una parte cerca di salvaguardare il proprio “gregge” e i privilegi acquisiti; e dall’altra cerca di allargare la propria influenza ed accrescere i propri adepti. Tutto ciò determina una struttura verticistica e chiusa, dove ogni singolo tassello è funzionale al potere e all’organizzazione della struttura stessa. Questa formula si dimostra vincente ed efficace socialmente. Con questa organizzazione la chiesa non è funzionale al messaggio evangelico, ma al contrario, il messaggio evangelico viene utilizzato funzionalmente dalla struttura stessa per giustificarne l’esistenza.

Questo sistema strutturale, tuttavia, non esclude totalmente al suo interno la possibilità di generare individui o gruppi che mettono in discussione il sistema stesso. Capita, infatti, che avvengano dei dissensi, degli elementi che periodicamente mettano in discussione l’esistenza della struttura stessa attraverso movimenti che fanno emergere le contraddizioni interne. La struttura ecclesiastica risponde efficacemente attivando al suo interno dei meccanismi, assoluti e/o contingenti, di esclusione degli individui ritenuti pericolosi per la sopravvivenza del sistema.

Tale meccanismo è provato dall’esistenza di una serie di sanzioni disciplinari all’interno della chiesa cattolica, la scomunica per esempio, che non esistono nel mondo ebraico e nella tradizione del popolo di Israele.

Per cui avvengono due movimenti. Il movimento di chi dissente apertamente e esplicitamente, per cui subisce delle sanzioni (sospensione, scomunica, divieto di insegnamento...) che lo portano ad essere escluso dal sistema per una scelta esplicita. E il movimento di chi, per una ragione che potremmo chiamare “ontologica”, dissente semplicemente per il fatto di esistere in quanto consapevole del proprio essere se stesso (questo avviene per le persone omosessuali, le donne, ecc). Queste persone, o accettano di essere “metabolizzate” attraverso l’imposizione di un ruolo socialmente e dottrinalmente accettabile, processo che rappresenta un’alienazione del proprio io, oppure tendono ad essere escluse implicitamente attraverso un sistema giuridico/dottrinale che salvaguardia la struttura da ogni possibile crepa.

Qui avviene la rottura. Le persone, gli individui, i gruppi che subiscono i processi di esclusione, che prendono coscienza di tali strutture di repressione e che si sentono non tollerati all’interno della chiesa maturano una situazione/sentimento/coscienza che chiameremo “smarrimento”.

Questo smarrimento nasce dall’impossibilità di accettare e di riconoscere nella propria vita le formulazioni dottrinali imposte dall’autorità ecclesiastica, che tuttavia non derivano direttamente dal messaggio evangelico. Si tratta di un periodo di crisi che può durare anche diversi anni e che può essere generato da fattori che attengono la propria differenza, il proprio orientamento sessuale, la ricerca e i cammini compiuti, la presa di coscienza delle profonde contraddizioni che caratterizzano la struttura ecclesiastica.

Dallo smarrimento possono nascere due risposte. La prima è il completo allontanamento dalla fede perché vista fortemente in relazione con la struttura-chiesa. La seconda è la travagliata ricerca di una fede liberata e consapevole che si manifesta nel profondo attaccamento alla vita nella sua quotidianità, e che non teme di mettere in discussione le certezze e le formulazioni dogmatiche.

Lo smarrimento, quindi, è il luogo teologico privilegiato per la ricerca di nuove soluzioni al disagio e all’incertezza che caratterizzano la vita sociale ed ecclesiale di molte persone.

Questo concetto chiave della fede è affrontato da Franco Barbero nella seconda edizione del suo libro Il dono dello smarrimento, Il Segno dei Gabrielli editori, 2007. «La proposta di Franco Barbero è alternativa a una visione che risponde all’incertezza con scelte di stampo dogmatico e tradizionalistico. In realtà per Barbero la “tradizione” è un oceano mosso e vitale, attraversato da mille correnti: immobilizzarla significa non riconoscere la vitalità cristiana nei secoli, la sua fioritura plurale. Questo è tanto più vero se allarghiamo il problema al confronto ecumenico e al dialogo interreligioso». (Dalla presentazione del libro).

Il dono dello smarrimento, che a prima vista potrebbe apparire un non-senso, può essere la categoria di giustificazione del passaggio da una fede catechistica e integralista ad una fede consapevole e liberata, attaccata e fedele alla vita e proiettata verso l’altro nel suo manifestarsi escluso, povero, affamato, diverso...


Il libro può essere acquistato nelle librerie, oppure può essere scaricato, nella versione della prima edizione cliccando qui.

giovedì 6 settembre 2007

Un bilancio a 40 anni dalla Populorum progressio

"Progresso dei popoli" o trionfo del papato?
di José María Castillo

Nel 1967, quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Populorum progressio, la Chiesa viveva un momento decisivo. Da poco più di un anno si era concluso il Vaticano II. Uno dei problemi più gravi che in quel momento affrontava la Chiesa era vedere se il papato avrebbe preso sul serio il Concilio o se, piuttosto, si sarebbe preoccupato di mantenere ad ogni costo il suo potere e il controllo della Curia sul Collegio dei vescovi e, mediante loro, il dominio sulla Chiesa intera. Senza entrare qui nelle questioni tecniche legate a questo tema e nella sua storia tormentata, una cosa è risultata chiara negli ultimi quarant’anni: il papato è stato più forte del Concilio. E anche più forte del Collegio episcopale e della Chiesa intera. Ha trionfato il papato. E, con esso, la Curia vaticana, i suoi monsignori e i suoi teologi. Ma è stato questo il meglio per la Chiesa e per il mondo? Questo è uno dei problemi più seri che dobbiamo affrontare a 40 anni dalla pubblicazione della Populorum progressio. Perché?
Per rispondere a questa domanda, la chiave si trova nel termine progressio, “sviluppo”. La Chiesa deve centrarsi sul progresso di se stessa o su quello dei popoli? Il compito centrale della Chiesa, cioè, è quello di difendere le proprie verità, il proprio potere, il proprio influsso sulla società, i propri diritti e le proprie prescrizioni? O, al contrario, il compito centrale della Chiesa è promuovere lo sviluppo dei popoli, alleviare la sofferenza degli ultimi di questo mondo, mettersi dalla parte di quelli che sono considerati i “nessuno” della terra? La risposta di Paolo VI a questa domanda risulta chiara nel titolo dell’enciclica: quello che ci deve preoccupare e interessare è lo sviluppo dei popoli prima che quello della Chiesa. Questa risposta del papa nel 1967 si fece più evidente nel ’68, quando Paolo VI presiedette l’apertura della Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellín (Colombia). Avvenimento che viene considerato il punto di partenza della Teologia della Liberazione. In quel momento, per come si vedevano le cose allora, sembrava che la Chiesa avesse optato non per l’esaltazione del papato ma per lo sviluppo dei popoli. E in modo molto speciale per la liberazione dei poveri e degli oppressi.
Tuttavia, quanto ho appena detto esprime una visione parziale e, pertanto, incompleta di quello che realmente succedeva nella Chiesa. Perché, come ben sappiamo, papa Montini era, secondo l’espressione che viene attribuita a Giovanni XXIII, “il nostro Amleto di Milano”. Un uomo che, come il principe danese di Shakespeare, “aveva la tendenza più a dubitare e a vacillare che a decidere” (H. Küng). Un modo d’essere che lo portò ad anteporre il progresso dei popoli agli interessi della Chiesa, ma, allo stesso tempo, a proibire che nel Concilio si ponesse il problema del celibato dei preti e, dopo la sua presenza a Medellín a sostegno della liberazione dei poveri, a pubblicare la Humanae vitae, accentuando così la crisi di credibilità che, da allora, soffre il magistero della Chiesa. Il fatto è che Paolo VI fu un papa indeciso, che non fu capace di riformare la Curia, come aveva chiesto il Concilio. Un papa che pensò molto e decise poco. E che, quando prese decisioni importanti, fu precisamente a favore delle tesi che, nel Vaticano II, aveva difeso la teologia integrista della Curia con i suoi scribi.
In ciò penso si trovi una delle chiavi che ci mostrano, a 40 anni dalla Populorum progressio, il perché la Chiesa, nel 2007, abbia parlato molto della liberazione dei poveri ma abbia promosso e potenziato in realtà il potere del papa e della Curia. I documenti sociali di Paolo VI e Giovanni Paolo II sono stati abbondanti. Ma quello che davvero cambia la Chiesa non è quello che il papa dice nelle encicliche, ma quello che il papa fa nel governo della Chiesa. E sappiamo bene che quello che il papato ha fatto, in questi 40 anni, è stato soprattutto potenziare l’immagine pubblica del papa, il suo prestigio nel mondo, il suo potere e la sua influenza di fronte ai magnati della politica e dell’economia. Questa scalata al potere da parte del papa inizia già con Paolo VI, ma raggiunge la vetta più alta con Giovanni Paolo II. Ero a Roma il giorno in cui seppellirono Giovanni XXIII, in un funerale semplice, di pomeriggio, con piazza San Pietro piena di gente semplice, di gente del popolo, che piangeva (sic) la morte di quell’uomo semplice ed umile. La splendente mattina in cui hanno seppellito Giovanni Paolo II, piazza San Pietro era occupata da più di duecento capi di Stato, i grandi della politica e del mercato, ben protetti dalla polizia e dall’esercito. L’impressionante funerale di Giovanni Paolo, uno spettacolo incredibilmente abbagliante, ha seppellito non solo papa Wojtyla ma anche la Chiesa voluta da papa Giovanni.
Negli ultimi 40 anni, la distanza tra i più ricchi e i più poveri del mondo è diventata un abisso che opprime tutti. I maggiori responsabili di questa situazione apocalittica non sono stati quelli che erano in piazza San Pietro al funerale di Giovanni XXIII, ma i magnati che occupavano il centro della piazza la mattina in cui è stato seppellito Giovanni Paolo II. Un papa che, lasciando questo mondo, ha mostrato molto chiaramente che le encicliche sociali servono a poco, se chi le scrive mantiene le migliori relazioni possibili con i maggiori responsabili del fatto che in questo mondo vi sia tanta fame, tanta umiliazione e tanto dolore. Oggi sappiamo molto bene che Giovanni Paolo II prese molto seriamente la lotta contro il comunismo e che, a questo scopo, potenziò il sindacato Solidarnosc in Polonia. Per rafforzare Solidarnosc, Giovanni Paolo II aveva bisogno di molto denaro. E lo ottenne mediante accordi segreti con l’amministrazione Reagan, come hanno dimostrato Carl Bernstein e Marco Politi, nel loro noto libro His Holiness (“Sua Santità”) (1996).
Giovanni Paolo II fu sensibile alla minaccia reale del comunismo. Non fu ugualmente sensibile alla minaccia del capitalismo. Giovanni Paolo II trionfò il giorno in cui cadde il muro di Berlino. Ma quel papa non si rese conto che, da quel giorno, il capitalismo diventava padrone e signore esclusivo del mondo. E le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti. Il prestigioso (e moderato) economista Jeffrey Sachs, nel suo studio The End of Poverty (“La fine della povertà”) (2005), ha detto: “Attualmente, più di otto milioni di persone muoiono tutti gli anni in tutto il mondo perché sono troppo povere per sopravvivere”. Se questo si poteva dire già negli anni Novanta e, naturalmente, si può dire in questi primi anni del XXI secolo, ciò significa che, se nei Paesi comunisti (secondo il noto e ben documentato Libro nero del comunismo) sono state assassinate circa 90 milioni di persone in più di mezzo secolo, nel mondo capitalista si sono uccisi più di 130 milioni di esseri umani in poco più di 15 anni. Il capitalismo si spinge nel crudele ufficio di uccidere più in là del comunismo o del nazismo, per citare due esempi drammatici e recenti.
È evidente che la crudeltà del sistema capitalista, così come esso funziona, è ai poveri della terra che fa più male. Ma non solo ad essi. Fa male anche alla Chiesa e al papato. Perché lesiona gravemente la credibilità del magistero ecclesiastico. Chi può credere a quello che dicono le encicliche sociali della Chiesa, se i papi vengono ricevuti con tutti gli onori dai massimi responsabili del dolore a cui gli stessi papi dicono di voler porre rimedio in tali encicliche? Si è detto, con ogni verità, che “una convinzione si definisce dal fatto che orientiamo il nostro comportamento in base ad essa”. O, detto in modo più semplice, “una convinzione è una regola di comportamento” (J. Habermas). Se è così, si può pensare che i papi siano seriamente convinti di quello che dicono nelle loro encicliche sociali? Come possono essere convinti che il dolore dei poveri sia la cosa più urgente a cui porre rimedio, se poi ricevono solennemente, e così “legittimano”, i maggiori responsabili del dolore dei poveri? Queste domande ci pongono di fronte a una questione molto grave. Perché non dobbiamo mai dimenticare che la fede religiosa non è un mero sapere, ma anche (e soprattutto) una convinzione. Ma si può pensare che credano nel Vangelo quanti si comportano come i grandi e i notabili di questo mondo, come si vede che fanno i papi, parecchi cardinali e molti vescovi?
Il 6 agosto 1984, l’attuale papa, allora card. J. Ratzinger, rese pubblica l’Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione. Il verdetto dell’Istruzione era di condanna. Di questo si è già scritto molto e non lo ripeterò qui. Quello che credo vada sottolineato è che, nel caso di questa Istruzione, non è avvenuto ciò che suole avvenire con le encicliche sociali. Le encicliche restano mera dottrina. L’Istruzione, oltre che dottrina, fu espressione di una convinzione. E questa volta, senza dubbio, convinzione che, essendo autentica, sfociò in “comportamento”. Il comportamento che ha avuto il Vaticano con le Comunità di Base, con i teologi della Liberazione, dalla condanna di Leonardo Boff al documento contro la teologia di Jon Sobrino, e soprattutto nella “politica” delle nomine dei vescovi seguita negli ultimi 25 anni. Il papa e la Curia hanno la salda e decisa “convinzione” che alla Chiesa interessano più i vescovi sottomessi a Roma che i vescovi fedeli al Vangelo. Interessano più i vescovi che non causano problemi con i governi che i vescovi che lottano per difendere i poveri. E, più di ogni altra cosa, quello che veramente interessa in Vaticano è che i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose, i fedeli tutti, vivano la mistica della sottomissione a quanto dice il papa e a quanto decide il papa. E, oltre a ciò, al Vaticano interessa avere fedeli che amino il papa. Perché non dimentichiamo che, come ha detto Pierre Legendre, “l’opera maestra del potere consiste nel farsi amare”. Perché così, e solo così, si perpetua la sottomissione.
Il papato lo ha ottenuto. Il suo trionfo, in questo senso, è innegabile. Ma è stato ed è il meglio per la Chiesa? Il noto scrittore John Cornwell, riferendosi a Giovanni Paolo II, ha detto che “quando il papato cresce in importanza a scapito del popolo di Dio, la Chiesa decade in influenza morale e spirituale, a danno di tutti noi”. Si può pensare ragionevolmente che Cornwell abbia centrato il punto.
(da Adista 54 - 21 luglio 2007)

domenica 2 settembre 2007

Una lettera di critica a Franco Barbero

Critiche? Alcune risposte.
Pubblichiamo una lettera giunta dal Giappone che critica la recensione di Franco Barbero sul libro di Ratzinger. Dopo la lettera la nostra risposta.

Martedì 7 agosto 2007

L'articolo di Franco Barbero sul libro di Ratzinger e' semplicemente ridicolo, anche sia perche' dimostra di non averlo letto, sia perche' dimostra di non sapere cosa sia il metodo critico, sia perche' confonde la cristologia (che e' competenza della dogmatica) con gli studi biblici.
Quello del signor Barbero, ex sacerdote cattolico ridotto allo stato laicale dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, e cioe', da Ratzinger, ha tutto il sapore di una acrimoniosa vendetta personale. La malafede e' tale, che dichiara di non aver letto mai il libro, ma si prodiga tanto a criticarlo in astratto.
Ad ogni modo non e' il modo di parlare di un cristiano, di qualunque orientamento sia, progressista o tradizionalista che sia.
Dovrebbe anzi ringraziare Ratzinger, che avendolo sollevato dagli obblighi clericali, puo' dedicarsi alla edificazione di una chiesa personale, come egli pensa di capire meglio il cristianesimo.
Mi dispiace comunque per voi, che siete il seguito di un cosi' cattivo maestro.
Saluti

Davide Verni (Tokyo)


Gentile Signor Davide Verni,

è con piacere che rispondo alla sua lettera. Mi consente, infatti, di chiarire alcune questioni che sono fondamentali. Inoltre lo scambio di opinioni – seppure diverse - è sempre molto positivo: il confronto, infatti, è una pratica di libertà a cui spesso preferiamo rinunciare.

Nella sua lettera mi sembra di leggere una critica che va oltre i contenuti, sfocia in sentimenti negativi e ha una forte carica emozionale. Di questo mi dispiaccio. Non è mio compito, infatti, “difendere” Franco Barbero dai giudizi che lei esprime – che toccano il personale – ma cercherò di analizzare la sua lettera nei contenuti. Per cominciare mi permetto di ricordarle l’invito che lo stesso Ratzinger ha fatto ai suoi lettori – dichiarando anche la possibilità di un contraddittorio: “Questo libro non è magisteriale. Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell'anticipo di simpatia senza il quale non c'è alcuna comprensione".

Lei afferma, ben due volte, che Barbero non ha letto il libro di Ratzinger, oltretutto utilizza la parola “ammette”. Non riesco a capire da dove nasca tale considerazione. Barbero non ha mai affermato una cosa simile. Forse lei ha in mano dei dati che giustificano tale asserzione, tuttavia posso testimoniare di persona che Franco Barbero ha letto il libro di Joseph Ratzinger Gesù di Nazaret.
Forse questa sua considerazione nasce dal travisamento che lei ha compiuto dell’incipit della recensione di Barbero pubblicata su MicroMega (4/2007): “Può essere imprudente o prematuro esprimere una valutazione complessiva della ponderosa opera di Joseph Ratzinger prima che compaia il secondo volume”. Tuttavia continua a rimanere oscura, almeno per me, la fonte della sua affermazione: “La malafede è tale, che dichiara di non aver letto mai il libro, ma si prodiga tanto a criticarlo in astratto”.

In un’altra critica, peraltro non argomentata, lei afferma che Barbero “dimostra di non sapere cosa sia il metodo critico, perché confonde la cristologia (che è competenza della dogmatica) con gli studi biblici”. Non credo che Barbero faccia tale confusione. Piuttosto è Ratzinger a far dipendere la ricerca storico-critica dalle affermazioni dogmatiche, affermando in tal modo la sudditanza della ricerca storica ed esegetica al dogma. Si tratta di ambiti scientifici separati e con finalità totalmente diverse. Una delle critiche più gravi che Barbero rivolge a Ratzinger riguarda la totale (voluta) indifferenza rispetto alla ricerca scientifica sul Gesù storico. Fa pensare che l’unico autore italiano citato nel libro sia Vittorio Messori, autore che certo non può essere considerato un esegeta, uno storico, un teologo, se non piuttosto un divulgatore molto mediocre (se non altro “non scientifico”).

Secondo lei quella di Barbero sarebbe una “acrimoniosa vendetta personale”. Tuttavia Barbero riconosce “la passione sincera e profonda di Joseph Ratzinger. Mi piace riconoscerlo senza mezzi termini all’inizio di questa recensione critica”. Ma questa frase a lei non basta e, credendo alla malafede di Barbero, non esita a sferrare un attacco personale. Parla di Barbero usando l’appellativo “signor”, credendo in questo modo di diminuirne la dignità ecclesiale e di sottolinearne la perdita dello stato clericale. Lei dovrebbe sapere meglio di me che quella che lei così usa è una figura retorica alquanto bizzarra. Infatti l’appellativo “don”, che tradizionalmente viene rivolto ai preti secolari, è una contrazione dal latino del termine dominus che significa – pensi un po’ – nient’altro che “signore”. Se crede di fare uno smacco al nome di Barbero, usando la parola “signor”, lei non fa altro, invece, che affermare la stessa cosa che non vorrebbe affermare, traducendola dal latino al volgare.

Le sue imprecisioni non finiscono. Io credo che quando si affrontano determinati temi occorra precisione. Le parole, infatti, non sono semplici contenitori, l’utilizzo di un termine al posto di un altro non rappresenta soltanto una questione formale. Lei afferma di Barbero che egli sia un “ex sacerdote cattolico ridotto allo stato laicale”. Due errori.
1) Non è corretta l’affermazione “ex sacerdote”. Le risparmio qui le argomentazioni teologiche sul sacerdozio universale e sull’unico sacerdozio di Cristo. Mi basta qui citarle il canone 290 del Codice di diritto canonico (CIC): “Dopo essere stato validamente ricevuto, l’ordine sacro non può mai essere reso invalido”.
2) Per ciò che riguarda la terminologia “ridotto allo stato laicale” posso dirle che non si parla mai nella chiesa di “riduzione allo stato laicale”, non ne troverà mai cenno nel CIC, si parla piuttosto di “dimissione dallo stato clericale”. I motivi di questo distinguo li lascio indovinare a lei.

Lei utilizza il termine “cristiano” come equivalente di "cattolico": questo potrebbe anche passare se non fosse che lei afferma, in questo modo, un’identità che crede condivisa; ma lei conosce forse “il modo di parlare dei cristiani” ortodossi, valdesi, anglicani, ecc..? Inoltre non mi sembra che Barbero utilizzi categorie dialettiche che non potrebbero essere utilizzate dai cristiani. (cfr., in questo senso, il commento al libro di Ratzinger del teologo valdese Garrone). Lei forse vede nelle parole di Barbero odio e rancore, ma io – e mi scusi se mi permetto – questi sentimenti li vedo piuttosto nelle sue parole.

Definisce Barbero come costruttore di una sua “chiesa personale”. Quella di Barbero non è una chiesa personale, egli fa parte della chiesa di Cristo come ne facciamo parte lei ed io. La comunità di Barbero – di cui peraltro egli è solo il presbitero – è parte del vasto e complesso movimento delle Comunità di base e delle innumerevoli reti di persone e di gruppi che all’interno (seppure ai margini) della chiesa lavorano in silenzio manifestando il dissenso in forma profetica.

Un'ultima considerazione. Noi non siamo al seguito del “cattivo maestro” Barbero. C’è soltanto un Maestro e questo dovrebbe saperlo. Tutto il resto (persone, profeti, comunità, movimenti e chiese) è soltanto strumento e mezzo per camminare sulla strada di Gesù di Nazaret verso il regno di Dio.

Saluti fraterni
g.g.

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