lunedì 29 dicembre 2008

Il nuovo libro di Mauro Pesce e Adriana Destro

L'uomo Gesù

Tracciare un ritratto di Gesù, prima di tutto come un uomo, con le sue pratiche di vita, i suoi incontri, il suo corpo, le sue emozioni e i suoi sentimenti. Questo è lo scopo del nuovo libro di Mauro Pesce, storico del cristianesimo divenuto celebre per il libro Inchiesta su Gesù (firmato insieme a Corrado Augias) e dell’antropologa Adriana Destro, L’uomo Gesù, uscito a novembre per i tipi della Mondadori.


I due autori, la cui collaborazione si inserisce nelle correnti di rinnovamento della ricerca sul Gesù storico e sulle origini del cristianesimo, soprattutto grazie all’utilizzo di un approccio antropologico (vedi Antropologia delle origini cristiane, 1997; Come nasce una religione, 2000; Forme culturali del cristianesimo nascente, 2006), ci restituiscono un quadro sullo stile di vita di Gesù, proponendo, anche al lettore meno attrezzato, una ricostruzione della vicenda umana di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe).

Un’operazione necessaria – come ricordano Mauro Pesce e Adriana Destro – «convinti che una lettura prevalentemente teologica della vicenda di Gesù la svuoti di gran parte della sua forza e del suo significato» (p. 207).

Il libro, che si articola in sette capitoli, tenta di ridare una cornice concreta e umana alla vicenda di Gesù. Allontanandosi a poco a poco, per vedere chi e che cosa circondava il profeta di Nazaret, si riesce scorgere una visione di insieme, un ritratto umano e vicino anche agli uomini contemporanei. «Per scavare nella vicenda di Gesù – spiegano gli autori – abbiamo voluto accostare analisi tradizionali (storiche, filologiche, archeologiche) e ipotesi meno convenzionali (di tipo antropologico), proprio perché avevamo di fronte un mondo di incontri personali, di faccia a faccia, un mondo significativo proprio perché precario, esposto a pericoli, fatto di gente generalmente marginale che conosceva difficoltà concrete» (p. 207-208).

Il libro ricostruisce in modo originale – compiendo anche un opera di divulgazione delle ultime ricerche sociologiche, antropologiche e storiche su Gesù – le geografie in cui Gesù si muoveva, il significato del suo camminare per le strade della Palestina e cosa questo comportava praticamente, la gente che egli incontrava e che aveva attorno come sostenitori e discepoli, il significato profondo del mangiare insieme alla stessa tavola, il rapporto con la dimensione domestica, il suo corpo, le sue emozioni e i suoi sentimenti. «Ogni giorno, Gesù ricomincia il suo cammino, riattualizza il suo progetto, sostenuto dalla speranza in Dio. La conseguenza di questo stile di vita è di ‘desacralizzare’ luoghi, attività, materiali e ambienti. Il lavoro, la proprietà e la famiglia non sono più i valori massimi cui subordinarsi, sono relativizzati e rimessi in discussione in una successione di sfide. Le cose a cui ordinariamente si tiene di più non rappresentano il centro di interesse del suo progetto o del suo stile di vita. Sono abbandonate e private dei loro caratteri di necessità» (p. 51).

Importanti, poi, le precisazioni che restituiscono la figura di Gesù, non solo alla sua storia ma anche al suo ambiente culturale, alla sua ebraicità. Il Gesù che Mauro Pesce e Adriana Destro ci riconsegnano «non aveva intenzione di fondare una propria associazione svincolata dai luoghi e dalle forme sociali (i nuclei domestici, in particolare) in cui si svolgeva la vita della gente. Voleva rivolgersi a tutta la popolazione di Israele per prepararla a entrare nel futuro regno di Dio tramite un radicale rinnovamento della vita quotidiana delle case» (p. 95). «In questo libro – dichiarano i due autori – sosteniamo che Gesù crede nel suo Dio tradizionale e non è il fondatore di un sistema religioso diverso da quello in cui è nato. Il suo stile di vita e il suo messaggio, il movimento che egli ha creato durante la sua esistenza non erano una religione, concetto peraltro assente dal giudaismo del suo tempo. Egli invitava a mutare comportamento in funzione di un profondo rinnovamento all'interno del mondo giudaico in cui viveva. Solo quando i suoi seguaci divennero in grande maggioranza non giudei, Gesù fu del tutto sottratto alla cultura giudaica. La sua dimensione umana si perse di vista quando si cominciò a considerarlo prevalentemente come un essere divino. La sua figura si trasformò allora da quella di un autentico credente quale egli era in quella di un innovatore e riformatore critico della sua cultura. Si cominciò così a perdere il senso della sua fiducia e della sua attesa nell'intervento di Dio. È a partire da questo momento che si inserisce un cuneo tra il Gesù storico e quello delle chiese successive» (p. 16). Una considerazione questa che, partendo dai risultati dell’esegesi moderna, riconosce il passo del Vangelo di Matteo (16,18), «Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa», come un’aggiunta successiva dell’evangelista, posteriore di almeno 50 anni. Considerazione dimostrata dal fatto che la parola ekklesia non compare mai negli altri tre vangeli.

Gesù e il suo movimento sono in cammino, sempre sulla strada per incontrare le persone e per muoversi nel loro contesto di vita. Il Nazareno, dunque, non era all’interno di una istituzione, e questo non gli forniva nessuna garanzia, nessuna credenziale particolare nei confronti della gente che lo ascoltava. «Egli va considerato come un predicatore marginale, cioè privo di autorità riconosciuta, non legittimato dai poteri istituzionali, senza credenziali. Poteva trovare un riconoscimento solo attraverso la reazione diretta della gente. In alcuni suscitava attrazione, speranza di poter raggiungere, mediante lui, le proprie aspirazioni. In altri provocava, come abbiamo visto, interesse, dubbio o sospetto. In altri, infine, opposizione anche mortale» (p. 98). Un predicatore marginale che si faceva portatore di un grande sogno: «Gesù non promette solo emancipazione dal bisogno o egalitarismo. Promette una nuova era» (p. 99).

Tra i capitoli più interessanti ed efficaci del libro si trova quello dedicato a L’orizzonte della commensalità, che risulta molto utile e riesce a ricostruire un immagine viva e nitida dello stile di vita di Gesù. «La commensalità era uno dei modi preferiti da Gesù per creare un contatto profondo e intimo con la gente. Anche all'interno del suo gruppo egli sembra celebrare i momenti più alti mediante una partecipazione coinvolgente alla mensa» (p. 110). Un «simbolo» – quello della commensalità – che gli autori dei vangeli presentano come strettamente «necessario per rendere comprensibile tutta la vicenda di Gesù» (p. 115).

L’analisi della vicenda di Gesù di Nazaret e del suo ambiente di vita che ci viene presentata dai due autori, tiene fortemente conto delle più recenti acquisizioni in campo antropologico; come la tesi della antropopoiesi, formulata dell’antropologo Francesco Remotti. Un’idea che diventa la chiave di lettura per comprendere meglio l’orizzonte della commensalità del predicatore galileo. Secondo la teoria del professor Remotti, infatti, «l’individuo, nascendo in una cultura, fin dai suoi primi momenti entra in un processo di sviluppo e perfezionamento garantito dall’ambiente culturale» (nota n. 52, p. 237). Così, Gesù «nel mangiare insieme vedeva un’occasione per avvicinare e condividere la vita della gente. Si può pensare che per Gesù non ci sia una forma di aggregazione sociale altrettanto forte della riunione conviviale. Fra tutti i meccanismi partecipativi (comprese le riunioni sinagogali e del Tempio), sembra che la mensa comune sia fondamentale per la ‘costruzione degli uomini’». Il momento «principale dell’inclusione e non quello dell’esclusione, in cui devono essere inseriti i più poveri e i cosiddetti ‘peccatori’» (p. 121).

Prezioso anche il capitolo Emozioni, sentimenti, desideri che, soprattutto grazie all’utilizzo degli strumenti antropologici, avvicina il lettore all’umanità di Gesù, alla sua personalità, alle emozioni che, senz’altro, gli capitò di provare: compassione, ansia, commozione, tristezza, ira, indignazione, desiderio…

L’idea centrale del libro di Destro e Pesce ruota attorno a Gesù, che «si fa conoscere anzitutto per quello che fa. Il suo messaggio è contenuto nelle sue parole, ma non può essere ridotto a esse soltanto» (p. 109), bisogna, infatti, concentrarsi nella ricerca del contesto vitale, dell’ambiente dove egli operò e visse per comprendere appieno la sua figura.

Un libro utile che presenta nuovi spiragli nella ricerca su Gesù e che, al di là delle singole interpretazioni esegetiche su cui si può sempre discutere, pone delle domande interessanti e rigorose grazie all’analisi storica supportata dall’antropologia.

Resta il fatto che «Gesù era un giudeo che rimase estraneo alle aspirazioni e ai modi di vita introdotti dalla romanizzazione» e che «di fronte alla potenza culturale di Roma fece appello all’elemento più intimo e più forte della sua cultura, cioè all’idea del potere assoluto del Dio giudaico e alla necessità che Dio regnasse prendendo possesso di tutta la terra». Una «speranza nel regno di Dio, che avrebbe combattuto ed eliminato l’ingiustizia» (p. 208). Un regno imminente di cui era urgente l’annuncio affinché la gente cambiasse vita per acquisire il diritto ad entrarvi.
(G.G.)

• Mauro PESCE - Adriana DESTRO, L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, 2008, pagine 257, 18 euro.



Un'altra recensione si trova QUI:


Le dodici tesi del libro:

1. Il primo messaggio di Gesù è il suo stile di vita (itinerante, senza lavoro, senza famiglia, senza casa e senza possedimenti). Una novità del libro sta nel mettere in primo piano la pratica di vita di Gesù mentre altri libri si concentrano sulle parole di Gesù o su alcuni eventi isolati.

2. Gesù era contrario alla romanizzazione della Terra di Israele e contro la romanizzazione ha fatto appello agli elementi centrali della sua cultura giudaica (in particolare l’idea del regno del Dio tradizionale degli ebrei su tutta la terra). Il suo annuncio del regno di Dio è una riposta giudaica creativa alla romanizzazione. La sua risposta è stata vincente, perché alla lunga il cristianesimo si è impadronito dell’Impero Romano.

3. Gesù era un uomo di villaggio che evitava le città (che erano ellenizzate e romanizzate) e frequentava solo i piccoli centri e le strade secondarie, per spingere gli ebrei alla conversione.

4. Gesù non crea una chiesa: il suo gruppo si incunea all’interno delle famiglie e non dà vita un’associazione autonoma e si rivolge solo agli Ebrei.

5. Il corpo di Gesù è il luogo principale dell’incontro della gente con lui (corpo normale, ma anche corpo taumaturgico, guaritore, corpo che possiede una luce speciale che si manifesta nella trasfigurazione, corpo senza peso che cammina sull’acqua)

6. Non sappiamo nulla dell’immagine fisica di Gesù, cancellata dall’immagine del corpo degradato e crocifisso e da quella del corpo risorto

7. Gesù evita modi di comunicazione indiretta (come la scrittura). Cerca di avere solo incontri diretti con le persone faccia a faccia e soprattutto a tavola. La commensalità è per lui la manifestazione più alta della convivenza umana.

8. Gesù era un uomo solo. Certo, egli cercava sempre l’incontro della gente, ma periodicamente si isolava per momenti di solitudine, per pregare e per un contatto con Dio fatto di rivelazioni e visioni. Molto dalla sua vicenda personale è rimasta perciò ignota ai suoi discepoli e ai vangeli.

9. Gesù predicava Dio, ma gli uomini attirati dal suo messaggio e dalla sua potenza di guaritore cercavano lui. Gesù non voleva essere una guida di masse, ma le folle si coagulavano attorno a lui. Non voleva essere una guida popolare, ma lo fu contro la sua volontà.

10. Gesù non controllava gli avvenimenti provocati dalla sua azione, voleva che il regno di Dio si manifestasse mentre egli era ancora vivo, ma invece dovette accettare il destino doloroso della sua sconfitta e della sua morte, interpretandola come un volere di Dio.

11. Uno dei lasciti più importanti per la cultura dei secoli successivi era il suo modo di reagire interiormente alla sofferenza degli uomini. Gesù ha insegnato ai discepoli a provare le emozioni interiori che portano ad agire a favore degli uomini.

12. I vangeli sono documenti storicamente attendibili, e su di essi si può ricostruire con solidità la storia di Gesù. Vanno però sottoposti alla critica storica perché contengono divergenze, non sono opere di testimoni oculari e le occasioni storiche e geografiche in cui gli eventi della vita di Gesù si svolsero sono per loro in genere incerte. Non solo i vangeli canonici, ma molte opere cristiane antiche sono utili per ricostruire la vicenda storica di Gesù.


domenica 7 dicembre 2008

Commento al vangelo di domenica 7 dicembre 2008

Cominciare (e continuare) a gridare


Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.
Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,

si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». (Marco 1,1-8)


Inizia la buona notizia

«Inizio dell’euanghélion di Gesù»: con queste parole comincia il Vangelo di Marco, il racconto della vicenda storica di Gesù. Marco – che può essere considerato l’inventore del genere letterario «vangelo» – inizia la buona notizia (l’evangelo) e lo annuncia alla sua comunità.
Da una parte la buona notizia consiste nell’annuncio di Gesù, della sua vicenda storica, del suo messaggio e della sua predicazione (che è stata essenzialmente l’annuncio del Regno di Dio); dall’altra parte questa buona notizia annunciata dall’evangelista riconosce già una speranza in Gesù: egli è il «Cristo, Figlio di Dio», cioè il messia, colui che è stato unto dal Signore per una missione speciale, atteso dal popolo di Israele per «portare il lieto annunzio ai miseri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61,1-2).
Marco fa di questo appellativo, Figlio di Dio, il leitmotiv di tutto il suo vangelo. Egli è interessato a stabilire l’identità di Gesù, dall’inizio del vangelo fino al riconoscimento dell’ufficiale pagano ai piedi della croce che dice: «Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (Mc 15,39b). La parola «inizio» utilizzata da Marco richiama comunque l’idea di una realtà che incomincia e continua, al di là della vicenda storica di Gesù e della sua missione messianica.


Preparare la strada

Subito dopo il titolo, Marco fa un’ampia citazione biblica, un collage di tre passi del Primo Testamento: il verso 2 («Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada») riprende e fonde Esodo 23,20 e Malachia 3,1; il verso 3 («Voce di uno che grida nel deserto…») corrisponde a Isaia 40, 3.
Queste citazioni servono a Marco per mettere direttamente in relazione la venuta di Gesù con i momenti cruciali della storia di Israele, la storia della salvezza; i momenti in cui Dio è intervenuto in favore del suo popolo: la liberazione dalla schiavitù egiziana (Esodo), la liberazione dalla schiavitù babilonese e il ritorno in patria (Isaia), la restaurazione escatologica (Malachia).
Marco dunque ripropone queste promesse e le fa sue, e della sua comunità. Egli vede in Gesù il messia che ricapitolerà tutte queste promesse di Dio compiendo definitivamente la promessa finale, l’instaurazione del Regno di Dio.
Ma questa citazione biblica, con cui Marco inizia il suo vangelo, può essere riferita anche all’opera di Giovanni il Battista, vicenda elencata subito dopo. Egli, infatti, può essere visto come il «precursore» di Gesù, il banditore che «grida nel deserto» per «preparare la strada» al «Signore», colui che si mette alla testa di tutti gli esuli per condurli alla liberazione definitiva. In questo senso Giovanni viene visto, nella tradizione cristiana, come una figura funzionale a Gesù, che ne prepara l’avvento. L’annunciatore è in funzione dell’annunciato e così, se nella citazione di Isaia la strada che bisogna preparare è per Dio («il Signore»), in Marco colui che deve venire è Gesù.


Il Battista

Proprio per queste ragioni di identificazione tra Giovanni e il «banditore» di Isaia, egli viene presentato come colui che «battezza nel deserto» («Voce di uno che grida nel deserto…»). Un’altra identificazione che viene fatta è quella tra Giovanni ed Elia: infatti, anche Elia viene descritto come «uomo peloso e cinto ai suoi fianchi da una cintura di cuoio» (II Libro dei Re 1,8), mentre in Zaccaria (13,4) la veste tipica dei profeti era «il mantello di pelo». Dunque Giovanni è «il profeta» per antonomasia, e nello stesso tempo quell’Elia che si attendeva come precursore della venuta escatologica di Dio.
Dopo la descrizione di Giovanni, l’evangelista presenta il contenuto del suo annuncio: sta per venire il più forte con la pienezza dello Spirito. L’immagine del «più forte» evoca le speranze messianiche dell’eroe divino che salva il popolo e lo libera.
Il battesimo d’ora in poi sarà fatto con lo Spirito Santo, e non con l’acqua. Questo fa capire che il personaggio atteso appartiene ai «tempi ultimi», i tempi in cui era prevista l’effusione dello Spirito secondo le profezie (Gl 3,1 ss.; Is 44,3).


Una voce che grida…

«Voce di uno che grida…». In queste parole è contenuta una delle più belle immagini della bibbia, della profezia biblica. Due diverse interpretazioni sono state date a questa citazione riportata in Marco. Nel testo di Isaia la citazione viene riportata come:

«Una voce grida:
nel deserto preparate la via del Signore!
Raddrizzate i suoi sentieri…». (Is 40,3)

Il profeta, infatti, annuncia di preparare il rientro in Palestina dopo l’esilio babilonese, di prepararsi per un viaggio difficoltoso tra deserto, steppa e alture. Questo dunque è un grido di gioia, che deve essere sentito da tutto il popolo. Un grido di speranza.
Nella versione di Marco il testo viene citato cambiando la punteggiatura di una virgola, di due punti, e diventa:

«Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri» (1,3).

In Marco – come abbiamo già visto – il precursore, l’annunciatore messianico è colui che «grida nel deserto», Giovanni il Battista, e questo viene reso attraverso un espediente letterario tipico della cultura ebraica, fatta di citazioni e rimandi, sempre all’interno del testo e della tradizione biblica.
Ma viene da chiedersi: chi, nel deserto, può ascoltare la voce di uno che grida? Anche se grida, chi può sentirlo? Sono forse le urla di un disperato o di un pazzo? Questi interrogativi ci pongono di fronte ad un’angoscia. L’angoscia che Gesù stesso provò nel Gestémani, quando ormai aveva compreso che il suo grido era rimasto inascoltato, fino all’abbandono, al tradimento di chi, come Giuda, voleva subito il suo posto nel Regno, un tornaconto immediato; e al rinnegamento di chi, come Pietro, avrebbe dovuto essere il testimone privilegiato del suo messaggio – secondo la tradizione il fondamento della «sua» chiesa.
Tradimenti, pervertimenti, rinnegamenti che appartengono prima di tutto alle strutture chiesastiche; a chi vuole farsi portatore e difensore delle cosiddette «radici cristiane» della cultura occidentale; a chi pensa che il messaggio evangelico sia secondario rispetto alla «tradizione». Una tradizione che, invece di essere un fiume di acqua viva e fresca, è diventata un rigagnolo fetido e mortifero, inquinato da ogni sorta di nefandezza.
Sono questi tradimenti che hanno pervertito (come diceva Ivan Illich) il messaggio della fede nel Dio di Gesù. La perversione di chi per salvaguardare i propri interessi scellerati arriva ad affermare la negazione della libertà di amare, che è la libertà del samaritano. Una perversione che ha camminato lungo tutta la storia e che è giunta fino a noi: dai roghi delle streghe e degli eretici fino alla condanna degli «amori diversi» e all’alleanza con quei poteri «diabolici» che uccido uomini e donne perché gay, perché lesbiche, perché trans. Non dobbiamo pensare però che questi tradimenti appartengano soltanto alle strutture istituzionali: il rischio di tradire e pervertire il messaggio dell’evangelo è sempre vivo anche nei singoli individui.
E anche se la parola profetica resta un grido nel deserto, una voce inascoltata, non bisogna astenersi dal pronunciarla ricordando il messaggio di Gesù. Lo stesso messaggio a causa del quale fu condannato a morte, e alla morte di croce. Ed è sulla croce che, in definitiva, si ripropone il grido della profezia, un grido che tuttora resta inascoltato.


venerdì 14 novembre 2008

Gli ottant'anni di Giovanni Franzoni

Franzoni e la chiesa dei poveri

di Marco Simoni

Si chiama «Il laboratorio di religione» la riunione di Giovanni Franzoni con i bambini, la domenica prima della messa. Non c’è alcuna dottrina da imparare, piuttosto da riflettere sul significato della scelta di fede e delle responsabilità che porta con sé.


Ho un ricordo di ore veloci, passate ad ascoltare e discutere sui temi più diversi. Una volta Giovanni, come sempre l’abbiamo chiamato in comunità mentre per alcuni è sempre dom Franzoni, ci spiegava la distinzione tra profeti autentici, vicini alle persone semplici, e i profeti pagati dal principe, dal potere.

Anche da bambino, ero interessato al mio tempo e non capivo perché Dio avesse mandato profeti solo nell'antico Israele. Giovanni accolse l’obiezione e passammo alcune settimane a farci raccontare e leggere di profeti contemporanei: tra gli altri, don Milani, monsignor Romero, Martin Luther King. Giovanni Franzoni siede certamente tra loro, anche se è ben più giovane compiendo solo ottant’anni in questi giorni. Nessuno tra quelli che la conoscono avrebbe dubbi sul valore profetico della sua vita, della sua fede, del suo pensiero.

Nella Comunità di base di San Paolo a Roma, di cui è tra i fondatori, la messa è servita collettivamente. Ci sono molte voci autorevoli, ma ogni voce ha il suo spazio, anche se appena arrivata. Non c'è un pastore fisso, o una gerarchia strutturata. Chi vuole può alzarsi e condividere le sue preghiere o il suo pensiero sulle letture della Bibbia e sui fatti del tempo corrente. Naturalmente

si recita il Padre Nostro e si spezza il pane, come fanno i cristiani in tutto il mondo. La comunità, mi spiega Giovanni Franzoni, è parte della Chiesa, ma sta ai suoi margini. È appena tollerata dalla Curia romana, ma ha molti amici e fratelli sparsi in tutto il mondo.

Da quando, nel 1974, si è dimesso da abate di San Paolo fuori le mura, una carica che ha il rango di delegato diretto del Papa, la comunità si riunisce in dei locali molto semplici al 152 di via Ostiense a Roma.

La riflessione del Concilio Vaticano II, punto di partenza di questa esperienza, aveva un senso carico di valore per l'impegno politico e sociale. La chiesa dei poveri non poteva non porsi il problema delle cause che generavano marginalità e oppressione. Non bastava più la purezza dogmatica, era necessaria l’azione. Era il tempo della teologia della liberazione, dei cristiani di base, esperienze che più recentemente hanno contribuito al movimento «Noi siamo Chiesa» che chiede alle gerarchie maggiore partecipazione, apertura e tolleranza, il sacerdozio femminile.

Vivere col Vangelo in una mano e il quotidiano nell’altra, era uno dei motti tipici degli esordi. Eppure i cattolici in politica, osservo, sono associati ai conservatori, alla destra. Non è vero, mi corregge Giovanni Franzoni, Joe Biden, il vice di Obama, per esempio è un cattolico aperto e progressista. Tuttavia, insiste, è giusta una grande prudenza nell’usare la propria fede come una bandiera. Noi non vogliamo strumentalizzare l’aggettivo «cristiano» per una posizione politica.

La scelta di fede non è razionale, ma deriva da una esperienza religiosa personale. L’esperienza di fede porta all'assunzione di responsabilità, mala responsabilità politica e sociale va impiegata laicamente, anche perché il percorso sarà condiviso con persone di altri fedi o nessuna.

A ottant’anni Giovanni Franzoni continua ad essere impegnato come sempre. Sta lavorando al quarto volume della sua opera omnia, porta avanti un progetto per costruire una centrale fotovoltaica ed eolica in un ospedale di Gaza. C’è poi la comunità e il laboratorio con i bambini.

Gli chiedo di dire qualcosa alle persone che lo hanno ascoltato e letto, rimanendone ispirate e mosse. Non sono per l’amore da ricambiare, mi dice, sono per l'amore solare. Sono per l’irradiazione e non il circolo chiuso. Se qualcosa ho dato, vorrei che chi ha ricevuto trovi il modo di dare a sua volta.

Dice: bisogna rievocare le motivazioni, coltivare l’autonomia personale, e la maturazione delle proprie scelte. In questo tempo dominato dalla paura e dall’angoscia, non abbiamo bisogno di leader, ma di responsabilità. A ottant’anni si pensa a quando si verrà meno, conclude sorridendo.
Spero che ciò non abbia alcun impatto sull’impegno collettivo, il cui motore deve ormai essere indipendente da me. Come esseri umani dobbiamo cercare di costruire qualcosa di positivo, sempre ridendo, e rimanendo capaci di ascoltare la felicità della natura.

(da l'Unità di sabato 8 novembre 2008)



A Giovanni Franzoni vanno i migliori auguri della redazione di Teologia e Liberazione. Grazie a Giovanni per la sua testimonianza, la sua ironia e il suo impegno.

giovedì 6 novembre 2008

Relazione su "le omosessualità" di Norbert Reck

«Le omosessualità»
I contributi della ricerca per una teologia queer

Di seguito pubblichiamo la relazione letta dal teologo Norbert Reck, responsabile dell’edizione tedesca della rivista internazionale di teologia Concilium, al Convegno su «Concilium 1/2008: Le omosessualità. I contributi della ricerca teologica al dibattito sulle omosessualità», tenutosi a Milano il 4 ottobre 2008, (traduzione di Stefano Ventura tratta da www.gionata.org).

Copertina del libro "The Queer God",
della teologa Marcela Althaus-Reid


Quando preghiamo con la preghiera del Signore “Venga il tuo Regno”, chiediamo che il Regno della giustizia di Dio divenga realtà nella nostra vita oggi. Non chiediamo a Dio di essere portati via da questo mondo cattivo. Dopo tutto, questo mondo ha avuto inizio come creazione di Dio, e Dio ci ha messi qui per vivere come fratelli e sorelle.
Questo è quello che crediamo e certamente questo da forma al nostro modo di guardare al mondo. Le nostre domande riguardano principalmente la giustizia e cosa passiamo fare per realizzare la giustizia in questo mondo. Pertanto Concilium è sempre stato un forum per i teologi che si occupavano dei campi della teologia della liberazione, della teologia politica, e della teologia femminista.
Così è stato chiaro per noi che non volevamo pensare l’omosessualità con un atteggiamento pastorale. Non volevamo guardare alle persone omosessuali come a esseri deplorabili con problemi specifici che hanno bisogno del nostro aiuto. Non volevamo produrre un “minority report” [1].
Invece, le nostre domande erano domande circa la giustizia: volevamo sapere perché i gay e le lesbiche sono considerati così moralmente deficitari dagli insegnamenti della Chiesa, perché i gay e le lesbiche sono spesso perseguitati e addirittura uccisi, o bruciati vivi. Perché tanto odio? Perché tanta paura? Che cosa è tanto cattivo nelle persone che hanno relazioni omosessuali?
Certamente tutto ciò non ha nulla a che fare con i valori etici. L'etica riguarda il rispetto reciproco e non l'uso della violenza contro l'altro. Questo è vero per tutti gli esseri umani indipendentemente dal sesso. L'etica razionale non ci dice nulla circa l'omosessualità. E questo ci conduce alla domanda più importante, probabilmente. Perché facciamo una differenza tra le cosidette persone eterosessuali e quelle cosiddette omosessuali?
Si noti: non volevamo produrre più testi che si chiedessero se i gay e le lesbiche dovessero essere tollerati o no. Ne abbiamo avuto abbastanza di testi del genere in passato, e non hanno portato da nessuna parte. E ne avevamo avuto abbastanza di studi di biblisti, che ci dicevano che i testi biblici non dicono assolutamente nulla circa l'"omosessualità". Ma queste considerazioni non ci conducevano da nessuna parte. La Chiesa ufficiale rimaneva indifferente.
Pertanto volevamo iniziare con nuove e differenti domande. Perché facciamo differenza tra le cosiddette persone eterosessuali e quelle omosessuali? Quando tutto questo è iniziato? Perché è importante per alcune persone operare questa distinzione?
E' necessario per l'immagine di noi stessi avere un gruppo di persone che possiamo considerare "differenti"? E' necessario guardare dall'alto in basso le persone come differenti, immorali , e anormali - solo per essere in grado di vedere noi stessi come morali e normali?
Concilium è una rete internazionale di studiosi. I membri del nostro comitato editoriale vivono in ogni parte del mondo, in Europa, in Nord e Sud America, in Africa, Asia, ed in Australia e Oceania. Pertanto ci confrontiamo costantemente con visioni del mondo molto differenti tra loro.
Per questo motivo c'è molto dibattito e ragionamento tra di noi. Succede molto raramente che i membri di Concilium siano tutti d'accordo su un problema specifico. Normalmente siamo in disaccordo. Normalmente ci sono molte discussioni tra di noi. Normalmente ognuno di noi pensa di essere nel giusto e che gli altri sbaglino. E normalmente questo non è del tutto vero.
E questo è ciò che abbiamo fatto quando abbiamo iniziato ad esaminare alcuni argomenti legati alla questione. Cerchiamo di raccogliere gli articoli da tante più parti del mondo possibile. Perché abbiamo imparato che non è mai sufficiente presentare soltanto un punto di vista su una questione. Da qui il nome Concilium: un concilio è una assemblea per una consultazione, Concilium significa discussione: non violenta e rispettosa. E sì, questo implica anche una visone di come trattarci reciprocamente nella chiesa.
Così abbiamo chiesto a numerosi autori in tutto il mondo di scrivere sulle relazioni omosessuali nella loro parte del mondo e relativamente all'insegnamento della Chiesa. Abbiamo avuto una breve discussione se bisognasse chiedere soltanto a gay e lesbiche di scrivere articoli per Concilium.
Ma presto siamo concordemente arrivati alla conclusione che volevamo sia le persone gay/lesbiche che etero per scrivere circa le relazioni omosessuali. Ciò che chiamiamo “omosessualità" non è un problema per le lesbiche ed i gay soltanto, riguarda la vita di ogni persona.
Oltre a questo, era chiaro che volevamo testi non-discriminatori e rispettosi. Oltre a questo non ponevamo altre condizioni. Quello che abbiamo ricevuto, rappresenta un intero spettro di opinioni, alcune più liberali, altre più radicali, c'è stato anche il tentativo di essere rispettosi pur all'interno della cornice ortodossa del Cattolicesimo Romano ortodosso. Chiaramente, noi, gli editori di questo numero, non abbiamo ottenuto tutto quello che speravamo (per esempio ci sarebbe piaciuto vedere un articolo sull'omofobia in Africa, ma non abbiamo trovato una persona che ne volesse scrivere).
E non siamo completamente d'accordo con ciascun articolo. Ma siamo convinti che valga la pena pensare a ciò che ogni articolo dice e discuterne. La nostra speranza è che questa raccolta di articoli possa dare nuovi impulsi alla discussione che negli anni ha girato infruttuosamente a vuoto.
Non parlerò delle idee di ciascun singolo articolo. Se si è interessati all'opinione dell'America Latina, del Sud Africa o dell'Oceania, si dovrebbe acquistare una copia di Concilium, ovviamente. Quello di cui vorrei parlare è che cosa noi, gli editori, abbiamo imparato preparando questo numero. Menzionerò tre punti:


1. L' "omosessualità" non è un fenomeno sempre esistito. E' piuttosto recente

Certo il desiderio omoerotico è noto in tutte le culture ed in ogni tempo. Ma il modo in cui le persone hanno vissuto questo desiderio, differisce da epoca a epoca e da cultura a cultura. E ciò che chiamiamo "omosessualità" è un fenomeno relativamente recente - ed un fenomeno occidentale.
La sessualità in generale appare in differenti costruzioni culturali. In alcuni paesi islamici africani per esempio è considerato normale che un uomo sposi diverse mogli. In Tibet ci sono regioni in cui una donna può avere molti mariti, di solito sposando due o tre fratelli, e in Europa Occidentale si crede che sia normale sposare un solo partner, di solito un partner del sesso opposto.
Comunque, le relazioni omosessuali sono oggi possibili in Occidente, e l'idea p che due persone approssimativamente della stessa età possano vivere insieme come una coppia con gli stessi diritti e responsabilità.
Altre culture, come in alcuni paesi latinoamericani, immaginano che le relazioni omosessuali abbiamo bisogno che un partner sia più maschile e l'altro più femminile. E nei primi secoli si credeva che le relazioni tra persone dello stesso sesso fossero normali solo tra un uomo adulto e sessualmente attivo ed un adolescente imberbe e passivo.
In Oceania, in molte isole del Pacifico, esistono non due, ma tre generi. Per esempio sull'isola di Samoa, si crede che ci siano uomini, donne e fa’afafine.
I fa’afafine [2] possiedono un pene, ma non sono considerati maschi. Alcuni fa’afafine vestono come le donne, ma altri fa’afafine preferiscono abiti maschili. I fa’afafine quando svolgono qualsiasi lavoro sia necessario nella casa, come cucinare, cucire, pulire etc. ma possono anche lavorare fuori, coltivando o tagliando alberi. Alcuni fa’afafine vivono insieme ad un partner maschile, alcuni vivono con una donna ed alcuni fa’afafine credono che possono essere felici solo con un altro fa’afafine.
Ovviamente, le opinioni Samoa sui generi non hanno nulla a che fare con l'omosessualità. Si deve affermare che le relazioni sessuali a Samoa sono semplicemente differenti. I tre generi sono tradizionalmente parte della cultura di Samoa e per lungo tempo i fa’afafine sono stati rispettati come gli altri generi.
Il cambiamento avvenne, quando i missionari protestanti arrivarono sull'isola nel XIX sec. Con i loro concetti occidentali in mente, credettero che i fa’afafine fossero omosessuali. Ed iniziarono a dire alle persone che era peccaminoso essere un fa’afafine.
Dopo decenni il rispetto per il terzo genere è diminuito. Ci sono ancora fa’afafine a Samoa, ma molti di loro lasciano l'isola per trovare un posto dove possano vivere la loro vita secondo i loro sentimenti e le loro aspirazioni.
Potrei continuare a raccontarvi storie sulle costruzione della sessualità in altre culture - e ne troverete ulteriori esempi in Concilium - solo per mostrare che le relazioni tra persone dello stesso sesso non assumono necessariamente la forma dell' "omosessualità".
Ciò che nei paesi occidentali industrializzati crediamo sia la "naturale" forma del piacere tra persone dello stesso sesso è solo una possibilità tra molte. Così dovremmo chiedere: che cos'è quindi l' "omosessualità"? La mia risposta è il mio secondo punto:


2. L' "omosessualità" è un'invenzione del XIX sec

Fu Karl-Maria Benkert, uno scrittore austro-ungarico, che coniò il termine "omosessualità" nell'anno 1869. L'idea di Benkert era di sostituire il più vecchio termine "sodomia" e le sue implicazioni teologico - morali. Intendeva davvero fare qualcosa di utile per gli amanti dello stesso sesso. Ma come avere ragione delle condanne teologiche che sono cresciute durante così tanti secoli?
La soluzione nel XIX sec. sembrò a portata di mano: la medicina e la biologia erano scienze emergenti, ed era abbastanza affascinante scoprire basi biologiche per tutte le caratteristiche degli esseri umani. Così la ragione della diversità delle donne, degli ebrei o dei neri veniva rintracciata in una loro supposta condizione biologica differente.
E poiché l’alterità delle donne, degli ebrei e dei neri si credeva radicata nei loro geni ed ormoni, non si poteva fare nulla per modificarla. La loro diversità andava accettata. E non c’era alcuna base per l’uguaglianza! L’emancipazione non aveva alcun senso, perché non si può dominare il dato biologico.
Si noti: questa modalità di pensiero ha avuto implicazioni politiche sin dall’inizio. In essa possiamo rintracciare le origini del razzismo. E fu questa mentalità che Karl-Maria Benkert vide la soluzione al problema dell’attrazione per lo stesso sesso.
Come molti suoi contemporanei era convinto che il piacere omosessuale aveva le sue basi in una condizione biologica. Se era la biologia, quando un uomo amava un uomo e una donna una donna, allora non poteva essere un peccato!
Il peccato non è forse un atto volontario? Una volontaria trasgressione dei comandamenti di Dio? Allora non poteva essere un peccato, quando in alcuni casi la biologia obbligava alcuni uomini a desiderare altri uomini! Il desiderio omosessuale non era un peccato, ma una anormalità psicofisica.
Con questo in mente, Benkert aveva solo bisogno di trovare un termine che suonasse moderno e scientifico per comunicare l’idea di una disposizione innata. E la scoprì nel neologismo greco - latino “omosessualità”. “Omosessualità” non implicava più una condanna morale. Ma conteneva la nozione di una alterazione psicofisica.
Benkert - e molti altri - erano convinti che questo nuovo termine potesse essere un progresso per l'emancipazione degli uomini attratti da altri uomini e per le donne attratte da altre donne. Ora essi erano omosessuali, era una disposizione.
Non si poteva fare nulla per contrastarla - era semplicemente lì. I sodomiti erano peccatori, ma gli omosessuali erano innocenti. Essi semplicemente si conformavano ai loro geni od ormoni. Si poteva anche affermare: "Gli omosessuali sono innocenti perché sono vittime della loro biologia".
Sciami di psichiatri condividevano l'eccitazione per questo nuova invenzione. La scoperta dell'omosessualità portò loro un nuovo gruppo di clienti che potevano essere trattati con ormoni, elettroshock, ipnosi e così via. Dallo stabilire l'alterazione psicofisica degli omosessuali, al definirli come malati, il passo fu breve.
Sino al 1974 quando l'America Psychiatric Association rimosse l'"omosessualità" dal loro elenco ufficiale dei disordini psichiatrici.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità cancellò l' "omosessualità" dall'ICD (International Classification of Deseases, Classificazione Internazionale delle Malattie, NdT) soltanto nel 1992.
Così il nuovo termine di Benkert ha fatto una grande carriera. Fino ad oggi, tutti usano questo termine, addirittura il Vaticano. E quando usiamo la parola "omosessuale" oggi, intendiamo delle persone che sono in qualche modo differenti - geneticamente, ormonalmente o psicologicamente. I pensatori razzisti dicono, "sono differenti, e per questo dobbiamo combatterli". I pensatori liberali dicono "sono differenti, e per questo dobbiamo tollerarli".
E anche le persone che chiamano se stesse "omosessuali" credono di essere esse stesse diverse, in qualche modo di natura diversa, forse di specie diverse. Credono che in qualche modo devono accettare ciò che è dentro di loro, anche se non gli piace. Mi chiedo quanti suicidi di adolescenti sono dovuti a questo concetto dell' "omosessualità".
Così l' "omosessualità" iniziata come un'idea di liberazione, ha mostrato sempre di più i suoi lati repressivi. Ha implicato la nozione che il desiderio per lo stesso sesso non è una preferenza personale o una potenzialità dell'amore, ma una disposizione, un destino e un peso, che deve essere accettato.
Erwin Haeberle, un sessuologo tedesco - americano, disse una volta che dobbiamo ammettere che le grandi idee dei nostri predecessori in realtà non erano grandi, ma deludenti illusioni di un secolo razzista. La costruzione dell'omosessualità intendeva portare libertà, ma alimentò l'idea che gli omosessuali sono persone di un tipo diverso.
Questo mi porta all'ultimo punto: le scoperte trascurate della sessuologia. Noi, gli editori di Concilium, ci siamo fatti l'impressione che la discussione tra le chiese e i gruppi di emancipazione gay/lesbici non rispecchi lo stato di avanzamento delle scienze del sesso. Entrambe le fazioni, il Vaticano come i gruppi di emancipazione gay/lesbici si appoggiano ai concetti di diversità del secolo diciannovesimo.


3. Le scienze del sesso raccontano una storia differente.

Occorrerebbe dire molte cose al riguardo, ma sarò quanto più breve possibile. Menzionerò solo due nomi: Sigmund Freud e Alfred Kinsey. Anche lo psicoanalista Sigmund Freud utilizzò il termine omosessualità, ma si oppose fermamente agli avvocati ottocenteschi dell'omosessualità come disposizione. La sua ricerca clinica lo portò in realtà a seguire la seguente intuizione: "La ricerca psicoanalitica si oppone in maniera piuttosto decisa a qualsiasi tentativo di separare gli omosessuali dalle altre persone come un gruppo con una peculiare disposizione.
Studiando l'eccitazione sessuale diversa da quella avvertita manifestamente, si scopre che tutti gli esseri umani sono in grado di scegliere persone dello stesso sesso come oggetti di desiderio e che lo hanno fatto inconsciamente." (Concilium edizione italiana: p.24)
Ciò che Freud ci dice dopo anni di ricerca è qualcosa che era perfettamente noto prima dell'era di Benkert: ogni essere umano è capace di provare attrazione sessuale per il proprio sesso.
Ed in effetti provano tali emozioni, sia inconsciamente che consciamente. Non esiste qualcosa come una disposizione speciale. Gli omosessuali non sono un gruppo specifico, che possa essere separato dagli altri come una specie a se stante.
Sembra che Freud fosse tanto a disagio da queste scoperte quanto la maggior parte dei suoi contemporanei. E così egli ascrisse il desiderio per lo stesso sesso, che aveva trovato in ogni individuo, ad una specifica fase dello sviluppo umano. Freud non fornì mai la prova che il desiderio per il proprio sesso fosse "nomale" in certi stadi dello sviluppo e patologico in altri.
Quando il sessuologo americano Alfred Kinsey iniziò la sua indagine sul reale comportamento sessuale degli americani, si imbatté nel fatto che solo il 5% di quel comportamento era inequivocabilmente ed esclusivamente eterosessuale. E che c'era un altro 5% che era inequivocabilmente ed esclusivamente omosessuale. Non c'era alcuna collocazione inequivocabile per il restante 90%. Questo significa che il 95% aveva avuto esperienze con il proprio sesso.
Kinsey concluse che categorie separate come "omosessuale" ed "eterosessuale" non si potevano rintracciare nella realtà dei fatti. La maggior parte delle persone conosceva entrambi i tipi di comportamento . "Soltanto la mente umana inventa categorie e tenta di forzare in fatti in caselle. Il mondo vivente è un continuum in ciascun suo aspetto" (Concilium, edizione italiana, p.23)

In accordo con queste due intuizioni, vedo due conseguenze:

1. Ciascuno conosce sentimenti e desideri per il proprio stesso sesso. E ciascuno conosce desideri ed emozioni per il sesso opposto. Potremmo non esserne sempre consapevoli, poiché siamo abituati a costruire le nostre identità sessuali lungo la stretta divisione eterosessuale/omosessuale.
Ma la scienza del sesso non ci fornisce alcuna prova che le persone con desideri per lo stesso sesso appartengano ad una specie diversa. Possono esserci persone che una tendenza più forte verso il sesso opposto. Proprio come ci sono persone che preferiscono il vino rosso ed altri che preferiscono il bianco.
Non c'è ragione di creare le due specie dei "bevitori di rosso" e dei "bevitori di bianco". Gli omosessuali non sono una minoranza. Non c'è una aberrazione. Sono parte del continuum dell'umanità.
Questo è un problema anche per la statistica: molti dei cosiddetti omosessuali hanno rapporti col sesso opposto. Alcuni di loro continuano addirittura a fare sesso con uomini e con donne. Sono davvero omosessuali?
E cosa dire delle persone che sono sposate e fanno sesso solo con la propria moglie o il proprio marito, ma tutte le loro fantasie sessuali girano attorno a trovare il piacere con qualcuno dello stesso sesso. Sono davvero eterosessuali?
Questa è la ragione per cui abbiamo discusso dando a questo numero di Concilium il titolo: le sessualità. Perché nel mondo reale, c'è sempre stata una combinazione di molte differenti attività. Ma avremmo perso il punto centrale della nostra domanda: perché soprattutto le relazioni con lo stesso sesso sono discriminate?
E così abbiamo chiamato questo numero "le omosessualità" - indicando con il plurale, che c’è molto di più di un solo "fenomeno omosessuale" nel mondo. Ed esattamente perché ci sono così tanti differenti combinazioni di desiderio sessuale tra gli esseri umani, che troviamo così tanti modi differenti di costruire le nostre vite sessuali in tempi e culture differenti.
Re David nella Bibbia non era un omosessuale quando stava insieme a Jonathan. E non era eterosessuale, quando era insieme a Betsabea. Non conosceva questi due termini restrittivi, non viveva secondo questi termini. Era parte del continuum umano.

2. Tutti abbiamo desideri per lo stesso sesso, ma viviamo in una cultura che condanna ancora tali sentimenti. Che cosa significa questo per le persone, che hanno imparato a considerarsi eterosessuali? Significa che proveranno paura ogni volta che questi desideri emergeranno al loro interno. Le radici dell'omofobia sono qui.
L'omofobia è la paura di scoprire in se stessi desideri per il proprio sesso. E in una cultura che condanna questi sentimenti, si ha bisogno di un gruppo di "altri", che possa essere chiamato queer [3], froci [4], sodomiti , peccatori e così via.
Fin quando ci sarà una minoranza da colpire per la sua diversità, potremo dire a noi stessi "sono normale".
Possiamo rintraccia qui anche le radici dell'attività discriminatoria della Chiesa Cattolica. Tutti sperimentano emozioni per il proprio sesso, e questo è vero in particolare nei seminari e nei monasteri.
In questi contesti particolari, questi sentimenti provocano paura. La paura di non essere normali. La paura di essere un peccatore. Per dimostrare alle loro comunità di essere "nomali", molti sacerdoti e monaci iniziano a discriminare i gruppi dei "diversi", accusandoli di essere "froci [5]", queer e peccatori.
Gesù ebbe un approccio differente. Lui e si suoi discepoli non hanno ma preteso di essere normali. Dichiaravano di essere degli outsider e dei perdenti: prostitute, esattori delle tasse, ubriaconi e così via. Oggi diremmo: non erano normali, erano "queer". E questo è il punto di inizio della teologia queer. Il Vangelo è la buona notizia sull'amore di Dio per tutta la gente "queer".
Per concludere, vorrei condividere un pensiero teologico: credo sia importante sapere che "eterosessualità" e "omosessualità" sono categorie create dall'uomo. Dio non ha creato "eterosessuali" e "omosessuali". Dio ci crea uguali, e Dio ci ha creati come esseri sessuali. E la sessualità è il desiderio di essere vicino a qualcuno, di toccare qualcuno, di amare qualcuno. Dio ha voluto che ci amassimo reciprocamente.
E' stato detto che viviamo in una cultura in cui non possiamo realizzare ogni nostro sentimento per tutte le persone. Parte dei nostri sentimenti sono stati repressi dalla nostra cultura, così che non possiamo apprezzare l'intero dono della creazione di Dio.
La teologia - per come la intendo - ha il dovere di dirci che il desiderio sessuale non è una disposizione, non è un fardello che debba essere accettato.
Il desiderio sessuale è una meravigliosa abilità umana per raggiungere un altro essere umano. E' una abilità che ci da la forza di lavorare per la giustizia e la solidarietà su questo pianeta. E questo pianeta ne ha davvero bisogno.

_________________

[1] Rapporto di minoranza, ovvero il rapporto scritto da una minoranza su un argomento , NdT.

[2] Scelgo di considerare questa parola maschile, evidenziando come la lingua italiana manchi di un genere neutro e sessualizzi implicitamente ogni aspetto della realtà: mi sembra che questo, qui e ora, sia un ottimo esempio di come la cultura, ed il linguaggio che ne è espressione, possa essere arricchita attraverso l'incontro con l'altro, in questo caso anche solo raccontato. NdT

[3] Letteralmente “storto” o “sbagliato” come opposto a straight – “diritto” o “giusto”. La copia di termini queer/straight connota sia omosessuale/eterosessuale che sbagliato/giusto - ovviamente giusto e diritto è il polo eterosessuale… Nel resto del testo ho scelto di no tradurlo, sia perché è ormai di uso comune sia per mantenere l’ambiguità di queer come diverso, essere fuori, sbagliato ma anche escluso. NdT.

[4] Faggot nel testo, NdT

[5] Faggot nel testo, NdT



* Norbert Reck è redattore responsabile dell’edizione tedesca della rivista Concilium, insegna teologia e filosofia presso la Katholischen Stiftungs-fachhochschule di Monaco. È autore radiofonico e referente per le attività educative di carattere religioso di alcune testate. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni teologiche.


martedì 14 ottobre 2008

Lezione di congedo di Gianni Vattimo 14/10/2008

Gianni Vattimo, maestro del pensiero debole.

Cosa capita quando un filosofo ma soprattutto un professore come Gianni Vattimo - come egli stesso vuole essere ricordato – si congeda dall’Università di Torino?
Certamente rappresenta una grande perdita. Una perdita culturale, effettiva, didattica – soprattutto per gli studenti. Vattimo ha sempre dedicato tutto se stesso all’insegnamento, ai suoi studenti; è stato un animatore effervescente del clima universitario torinese. Ci mancheranno le sue lezioni, la sua chiarezza, la sua ironia.
Alla sua lezione di congedo, tenutasi nell’aula magna del Rettorato martedì 14 ottobre 2008, una folla di studenti, discepoli, docenti… ha voluto far sentire la sua vicinanza al padre del «pensiero debole» (una forte teoria dell'indebolimento come unica via dell'emancipazione). Ma Vattimo ha subito precisato: «congedo fino ad un certo punto» e ha aggiunto «spero comunque che sia l’ultimo».
Nella sua lezione, «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto», il professore ha ripercorso il lavoro compiuto negli ultimi mesi, analizzando, a partire da Heidegger, come si costruisce la verità.
«Oggi si parla tanto di dialogo - ha detto Vattimo - un concetto in bocca a tutti i potenti, in realtà nessuno fa niente davvero per cercare di dialogare con l'altro, con il nemico. Anche Bush ha detto di aver attaccato l'Iraq perché voleva il dialogo».
Per Vattimo «bisogna rilanciare il conflitto, in luogo di un dialogo-panacea che non serve a nessuno, bisogna avere il coraggio di stare da una parte, sperando che sia quella giusta. Ed io ora, so di stare dalla parte dei poveri e di chi non ha voce».
La riflessione di Vattimo è molto significativa come chiave di lettura della modernità. L’idea che «l’essere come tale abbia – fortunatamente – il destino di dissolversi» sta alla base del pensiero debole (la kenosis), che a detta di Vattimo - ma anche nostra - rappresenta «l’unica filosofia cristiana attualmente sul mercato». E ha aggiunto, non senza un tocco di narcisismo e di ironia: «solo per questo dovrebbero farmi papa».
L’incontro non è stato privo di commozione. Alla fine della lezione è scoppiato un lungo, forte e sentito applauso. (g.g.)



Di seguito pubblichiamo il testo della lezione «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto» (comparsa su La Stampa) e la lettera di saluto al mastro di Alessandro Baricco, dove lo scrittore descrive efficacemente cosa ha voluto dire per lui – mka così è stato per tutti i suoi allievi – avere Vattimo per maestro (da la Repubblica - Torino).


Finché c'è conflitto c'è speranza

L'ultima lezione all'Università di Torino

di Gianni Vattimo

Perché «dal dialogo al conflitto»? Non è forse l’ermeneutica - quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, Gadamer, e prima Heidegger e Nietzsche, ho sempre cercato di ispirarmi - per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa, anche in base all’esperienza di dibattiti americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia «continentale» (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di larga parte della filosofia contemporanea.


Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente «diluita»; io pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno - anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, «stiano» in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente qualificati, sono «eventi».

Alla nozione di evento di Heidegger io aggiungevo - credo sempre in fedeltà al suo insegnamento - una più esplicita filosofia della storia dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto) la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità immutabile di ogni vero ha invece il «destino» di camminare indefinitamente verso il non-esser-più l’essere come tale.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della «dimostrazione», ma piuttosto orientati alla persuasione - la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più.

Ma perché, ancora, dal dialogo al conflitto?

Posso confessare senza difficoltà che sono diventato sensibile a questo problema - che riassumo in questo titolo - per ragioni che non hanno anzitutto a che fare con questioni interne alla teoria, ma che sono invece fin troppo evidentemente legate a quella che con espressione dello Hegel dell’estetica chiamerei, alquanto pomposamente, la «condizione generale del mondo». Della quale prendiamo coscienza a partire dal senso di fastidio che ci suscita sempre più nettamente ogni richiamo al dialogo. Non solo nella recente politica italiana, dove i contendenti litigano rimproverandosi reciprocamente di non voler dialogare, con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese. In verità, se riflettiamo sulle ragioni dell’insofferenza per la retorica del dialogo ci rendiamo conto che stiamo solo esprimendo una rivolta ben più ampia e più filosoficamente rilevante, e cioè la rivolta contro la «neutralizzazione» ideologica che domina ormai ovunque la cultura del primo mondo, l’Occidente industrializzato. Si tratta di quello che spesso è stato chiamato il pensiero unico, il quale si identifica in ultima analisi con ciò che i politici chiamano - quando lo nominano - il Washington consensus, al di fuori del quale non c’è che il terrorismo con tutti i suoi derivati.

Il pensiero unico nel quale siamo immersi ha il merito di averci fatto capire - in molti sensi sulla nostra pelle - che l’oggettivismo metafisico, oggi declinato soprattutto come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata - e più sfuggente - del dominio di classi, gruppi, individui. Neutralizzazione e potere degli esperti di ogni tipo sono la stessa cosa. È l’esperienza che, anche nel piccolo orizzonte della società italiana, facciamo quando vediamo la scomparsa delle differenze tra destra e sinistra. Una scomparsa che del resto è generale, almeno nel mondo occidentale della razionalità capitalistica, per quanto quest’ultima sia sempre più visibilmente irrazionale e manifesti senza alcun pudore la sua essenza puramente predatoria.

Ripeto in breve i passi impliciti in quanto detto fin qui. La verità, se non è rispecchiamento di un ordine eternamente dato di essenze e strutture, è accadimento, e accadimento dialogico. Verità si dà quando ci mettiamo d’accordo. Ma il dialogo sarà davvero sempre così pacifico?

La retorica odierna del dialogo ha molti caratteri per essere sentita come una maschera del dominio - ed è così che la viviamo di fatto nella nostra insofferenza crescente verso di essa.

Heidegger ci ha insegnato che la verità di una proposizione qualunque si prova solo all’interno di un paradigma storico, il quale non è semplicemente l’articolarsi di una struttura eterna (natura dell’uomo, primi principi ecc.) ma accade, nasce, ha un’origine, il cui modello egli vede nella nascita dell’opera d’arte. La quale è un luogo di accadere della verità in quanto (pensiamo a Dante, alla Bibbia, a Shakespeare) è l’apertura di un orizzonte storico, la nascita di un linguaggio e di una nuova visione del mondo. E quel che costituisce la base della forza inaugurale dell’opera d’arte, dice Heidegger, è il fatto che essa mantiene aperto il conflitto tra «mondo» e «terra». Due termini che vanno intesi l’uno, il mondo, come l’orizzonte articolato, il paradigma, che l’opera inaugura e dentro cui ci fa «abitare»; l’altro, la terra, come quella riserva di sempre ulteriori significati che, come dice il termine stesso, sono legati alla vita - della natura e della persona - e che costituiscono sempre un alone oscuro da cui proviene la spinta a progettare, a cambiare, a divenire altro.

Ma la «terrestrità» non si lascia chiudere dentro la stabilità di un dialogo felice, che istituirebbe la verità come nascita armoniosa di un nuovo paradigma.

Non si può cercare di uscire dall’oggettivismo metafisico - apologetico, «realistico» - senza venir coinvolti in un conflitto da cui soltanto può scaturire la verità-evento. La libertà - la progettualità umana in cui soltanto si annuncia l’essere come tale - è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio).

Per questo, cercare di pensare l’essere non vuol dire altro, oggi per noi, che opporsi alla neutralizzazione, prendere partito. Con chi e per cosa non è poi una scelta tanto difficile.

Se l’essere è pensato come progettualità e libertà, si dovrà ovviamente scegliere di stare con quelli che più progettano perché meno hanno: il vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico della verità perché libero di vedere il mondo fuori delle ideologie; ma portatore dell’essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo,classe, è definito dal progetto, cioè autenticamente ex-sistente.

Come si vede, questo discorso è tutt’altro che un congedo - anche se forse qualcuno, viste le conclusioni poco «innocenti», potrebbe essere tentato di salutarlo, finalmente, come tale. C’è ancora un sacco di lavoro, non solo teorico, da fare. Dunque, piuttosto un arrivederci, forse in altre sedi, ma speriamo con la stessa importuna passione progettuale.



Grazie, caro Vattimo sei stato un maestro
di Alessandro Baricco

Caro Vattimo, troppo tardi ho scoperto che oggi salirai in cattedra per l´ultima lezione all´Università. Troppo tardi per smontare tutto e riuscire a venire lì, come mi sarebbe piaciuto fare. Peccato. A conti fatti, non se ne incrociano poi molti, di veri maestri, in una vita, e tu per me lo sei stato, un vero maestro, e in un modo che non ho mai dimenticato.


Secondo me, se hai vent´anni e ti piace lo spettacolo dell´intelligenza, finire in un´aula a sentire un vero filosofo, è il massimo. A me è successo per quattro anni, alle tue lezioni, e da lì ho contratto la convinzione che la filosofia resta l´esercizio più alto, se solo quello che cerchi è l´ordine delle idee, il rigore delle visioni, il virtuosismo dell´intelligenza: è uno sport estremo, da vette ultime, e chi c´è passato sa che non c´è nulla di paragonabile alla vista che c´è da lassù. Tutto il resto è pianura. Colline, ogni tanto.

Mi hai insegnato molte cose, ma adesso mi viene in mente la chiarezza. Tu spiegavi, e noi capivamo, non c´era santo. Io penso di aver capito anche Schelling, spiegato da te (non vorrei esagerare, ma qualcosetta riuscivi a farla capire perfino di Fichte). Eri elegante nella linea delle argomentazioni, e limpido nel nominare le cose. Quando il gioco si faceva duro, non avevi paura di usare degli exempla, e non ti faceva schifo andarli a scovare dovunque.

Credo di aver capito l´etica kantiana quando molto seriamente ci hai fatto presente che alle tre di notte, in una città deserta, davanti a un semaforo rosso, ti fermi solo se sei un fesso: o se sei Kant. Noi ascoltavamo, e intanto, senza accorgercene, capivamo che la chiarezza, nella filosofia, non era lo scopo, ma il punto di partenza, la precondizione senza cui il pensiero non si metteva in moto. Era come mettere i pezzi sulla scacchiera. La partita vera, era il casino che c´era dopo. Si rideva molto, alle tue lezioni, e anche questo era un insegnamento. Beh, molto forse no, ma considerato che il tema era il vivere per la morte di Heidegger o quell´allegrone di Adorno, tu ci infilavi un umorismo che non eravamo sicuri fosse previsto.


Sembravi credere che ogni impennata dell´intelligenza andasse accompagnata dall´antidoto dell´ironia: è una cosa che non mi sono più tolto di dosso. Ancora adesso non riesco a fare lezione senza infilarci qualche battuta e non mi riesce di scrivere un libro che non faccia, anche, ridere. Se era solo un vezzo, un lascito della tua vanità di showman, me ne frego: a me sembrava un modo di stare al mondo, o quanto meno nel mondo del pensiero: aveva l´aria di essere un modo giusto.

In quegli anni lavoravi a fondare il pensiero debole (ossimoro, lo so, lo so). Tu ci credevi, quindi noi ci credevamo. Poi, in tutto il tempo che è passato dopo, mi è successo un sacco di volte di ascoltare o leggere gente che ricordava quell´impresa teorica con sufficienza, o ironia, e perfino con immotivabile rancore. Avevano il tono di quelli che qualcuno gli aveva versato lo champagne sul tappeto. Io non so, non ho più gli strumenti per giudicare: ma vorrei dirti che per molti di noi il pensiero debole, e la pratica dell´ermenutica, sono stati una scuola a cui abbiamo imparato a pensare con violenza flessibile, e ci siamo abituati all´idea che leggere il mondo fosse un modo, forse l´unico, di scriverlo. Questo ci ha resi differenti, in qualche modo, e, credo, immensamente più adatti a ricevere le mutazioni che il pianeta aveva in serbo per noi.

Mi sa che adesso te ne andrai in giro a far lezione ai quattro angoli del mondo, a spiegare Schelling a sudamericani o giapponesi che, come noi, di Schelling non hanno mai capito un tubo. Beati loro, beato te. Mi ricordo che avevi un gesto tutto tuo, quando iniziavi la lezione: parlando, mettevi una mano nella tasca della giacca, e rimestavi un po´ lì dentro, intanto che la spiegazione decollava. Poi c´era un momento in cui tiravi fuori la mano della tasca, e c´era sempre un gettone telefonico, delle monete, cose così: le posavi sulla cattedra, ordinate. Forse era il tuo modo di spiegare anche al più deficiente di noi quello che veramente stavi facendo in quel momento. Stavi mettendo in ordine per noi la paghetta intellettuale che poi ci saremmo spesi nel corso di una vita. Oggi è il giorno giusto per dirti che con quelle monete mi son comprato un sacco di cose, e che erano preziose, e leggere. Perfino il gettone telefonico lo era: prezioso, leggero. E allora stay hard, stay hungry, stay alive, come dice il boss (sarebbe Springsteen: non è mai stato chiaro fin dove arriva la tua cultura musicale.) E ogni fortuna, per te, maestro.


sabato 11 ottobre 2008

Incontro della Sinistra cristiana - la relazione

Cristiani
perché la sinistra ha ancora bisogno di noi.

Dalla relazione introduttiva al Convegno della Sinistra cristiana.

di Raniero La Valle

Ci sono discorsi che non si possono improvvisare, alcuni per farli ci vuole una vita. Sarebbe tempo che i politici si mettessero a scrivere i loro discorsi, per far sì che il pensiero preceda la parola. In verità parlare senza leggere è considerata una virtù del buon politico; è un ingrediente del successo in tempi di grandi comunicatori. Nella campagna elettorale americana si vedono i candidati che parlano a lungo fissando negli occhi le telecamere; in realtà leggono il gobbo, che è un modo di leggere senza farsene accorgere.

Una volta leggevo in Senato il mio discorso. Si discuteva la legge 194 sull'aborto. Era un discorso delicato, perché come cristiani della Sinistra indipendente noi non volevamo solo agitare una bandiera - quello si poteva fare anche parlando a braccio - ma volevamo fare una legge equilibrata, che non tradisse nessun principio, ma che ci facesse uscire dalla logica punitiva della legge penale. Perciò leggevo il mio discorso. E a un certo punto il presidente del Senato, Fanfani, mi interruppe e mi disse: sen. La Valle, lei fa tante citazioni, ma dovrebbe conoscere anche il regolamento del Senato, che vieta di leggere i discorsi in aula. Infatti nel regolamento c'era una norma bizzarra di questo genere, non so se ci sia ancora; forse era il residuo di un tempo in cui in Parlamento si andava solo per parlare, perché a decidere ci pensavano gli altri; un po' come si vorrebbe fare oggi offrendo qualche seggio agli esclusi come "diritto di tribuna", una tribuna fatta per i tromboni. Quella norma del regolamento era giustamente in disuso, ed era la prima volta, che io sappia, che un presidente redarguiva un senatore perché aveva preparato il suo discorso. Ma è chiaro che era un modo per prendere le distanze da quello che dicevo, non un cavillo regolamentare; anche quando si presiede il Senato si fa politica, non ci si limita a un ruolo di garanzia.

Il 2 ottobre, anniversario della nascita di Gandhi, era, indetta dalla Nazioni unite, la giornata della Satyagraha , che è la ricerca gandhiana della verità e dell'amore, altrimenti detta nonviolenza. Io ricordo la commozione di Dossetti, quando fece sosta presso la tomba di Gandhi a Nuova Delhi, durante un viaggio in India. Dossetti è uno dei maestri che sta nella nostra tradizione; e quella visita alla tomba di Gandhi non era solo un omaggio a un altro grande maestro, era stabilire una comunione, forse una preghiera in comune.

Gandhi non è solo il liberatore dell'India; prima ancora è stato difensore e redentore degli immigrati, quando egli stesso era immigrato in Sudafrica, e come avvocato indiano era considerato meno che niente. Gandhi lottò non solo per sé, ma per dare dignità e parità di diritti agli immigrati: ed è proprio lì, nel ricco e bianco Sudafrica nero che egli ha cominciato ad essere quello che poi sarebbe diventato.

Per questo bisogna accogliete gli immigrati: perché in ogni immigrato che sbarca a Lampedusa o che viene dall'Est ci potrebbe essere un Gandhi, ci potrebbe essere un liberatore del suo popolo o di molti popoli. Anzi è proprio questa la nuova obiezione di coscienza da fare, contro le leggi antixenite ; e le chiamo antixenite, e non xenofobe, perché non sono affatto leggi dettate dalla paura, ma sono leggi dettate dal razzismo, dall'odio e dal rifiuto, esattamente come lo erano le norme antisemite.

Questa è la nuova obiezione. In Italia non si può fare più l'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, perché quando l'obiezione passò da concessione del potere a diritto del cittadino, per buttare l'obiezione buttarono via l'esercito di leva. Non si può fare e non si deve fare l'obiezione fiscale, perché quella l'ha fatta il governo, l'ha fatta la destra diffamando le tasse, definendo come un furto o come un borseggio ogni prelievo fiscale; lo ha fatto trasformando le elezioni in un referendum anticostituzionale sull'Ici; la destra non toglie le tasse, ma le delegittima, allo scopo di togliere allo Stato tutte le sue risorse, tutti i soldi per la spesa pubblica e così poter dire, per ragioni di cassa e non per ragioni ideologiche, che non si possono fare politiche sociali, che bisogna licenziare 87 mila insegnanti, che bisogna svuotare l'Istituto superiore per la sanità, che non ci sono i soldi per i comuni, non ci sono soldi per salvare l'Alitalia, non ci sono soldi per la cultura, per il teatro, per l'editoria e così finalmente riuscire a chiudere anche Liberazione e il Manifesto . L'attacco della destra al denaro pubblico è un attacco al cuore dello Stato. Senza denaro, e sperperando il poco denaro che si ha, non vivono le città. Senza più soldi, dopo l'amministrazione del dottore che cura Berlusconi, Catania era ridotta al buio e sepolta dalla spazzatura, anche se nessuno lo diceva e lo faceva vedere, perché non c'era da far perdere a Prodi le elezioni.

Allora l'obiezione da fare è quella contro le leggi ingiuste che vietano di dare ospitalità allo straniero. Nella nostra laicità, se c'è una cosa che diciamo "sacra", cioè che non si può toccare, è l'ospitalità: ma così è in tutte le culture, o almeno lo era. Noi dobbiamo fare obiezione ospitando e dando asilo agli stranieri come facemmo ospitando gli ebrei nelle nostre case e nelle nostre chiese quando, altrettanto come ora, l'ospitalità era un delitto. Naturalmente non serve fare un'obiezione spericolata, che rischi di provocare la confisca delle nostre case come minacciano le leggi razziali del governo. L'art. 5 del decreto legge sulla sicurezza che introduce nella legislazione sullo straniero la norma anti-ospitalità, dice che si commina la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la confisca dell'immobile a chi dà alloggio a uno straniero irregolare "a titolo oneroso al fine di trarne ingiusto profitto". Dunque per fare obiezione senza esporsi alla vendetta penale, basta ospitare lo straniero gratuitamente e senza "ingiusto" profitto, magari premunendosi col farne apposita dichiarazione presso un notaio. Così la norma finirà per colpire solo quelli che speculano sulla pelle dello straniero.

Ma perché è così importante il rapporto con lo straniero, e non solo in Italia?
Perché il problema globale e imprescindibile di oggi è la riconciliazione di tutti i popoli che sono l'uno all'altro stranieri; il problema è che ciascuno ritrovi la sua patria, ma la trovi oltre i suoi confini, al di là del fiume, là dove sono altri uomini e donne, altri figli e figlie come lui; se questo non si farà, non ci sarà pace sulla terra, e forse un giorno non ci sarà nemmeno la terra. È stato dato già 2000 anni fa l'annunzio della caduta del muro tra giudei e greci, cittadini e barbari, romani e sciti; è venuto il momento di dare attuazione a questo annuncio. Se non fa questo, la politica è perduta. È perduta in America, è perduta in Europa, è perduta in Israele.

Un barlume di luce è venuto in questi giorni da Israele quando il primo ministro uscente, Olmert, per la prima volta ha detto che non esiste l'ipotesi del grande Israele, dal mare al Giordano; che se Israele vuole rimanere uno Stato ebraico, e non divenire uno Stato in cui gli ebrei siano una minoranza, deve contrarsi per far posto accanto a sé a uno Stato palestinese; e per questo è stato presentato alla Knesset un disegno di legge che offre forti incentivi economici ai coloni ebrei insediati nei territori occupati, perché rientrino dentro i vecchi confini di Israele del 1967. Ciò significa dire: fin qui abbiamo sbagliato. È la rottura di un tabù, riguardo alla terra - Eretz Israel - finora vissuto in Israele come un assoluto religioso. Ma se non si rompe questo tabù, non c'è alcuna soluzione per la questione palestinese (vedete fin dove arriva la laicità!); e se le religioni per prime non tolgono la copertura religiosa alle sacre are, ai sacri fiumi e ai sacri confini della Patria, ancora di più i popoli si contrapporranno gli uni agli altri, gli Stati gli uni agli altri e le culture le une alle altre, e non potrà esserci pace, e nemmeno diritto, e quindi nemmeno politica, su scala mondiale.

Perciò è importante l'obiezione di coscienza che nega obbedienza a tutto ciò che è contro la straniero, che si tratti di armi o di basi offensive, di leggi, di sanzioni o di dazi, di apartheid e di sfruttamento.
(...)

E così veniamo alla nostra iniziativa, perché è sorta e perché ha osato presentarsi con questo nome: per giustificarne l'esistenza basterebbe questo compito, che è di lottare per l'unità internazionale, politica, pacifica, della intera famiglia umana. Mai l'umanità è stata così divisa come in questi tempi di globalizzazione. E questo ci getta nel cuore della crisi di oggi, una crisi che non è solo nostra, ma di tutti, non è della nostra o di altre nazioni, ma è una crisi globale. Il Dio Mammona ci sta per tradire. Non solo c'è la crisi della speculazione finanziaria che dai santuari dell'America e dell'Inghilterra si sta diffondendo in tutto il sistema, e anche da noi. Come dice Jeremy Rifkin ci sono tre crisi: la crisi del credito, perché si tratta di ripianare venti anni di spese pazze fatte con denaro virtuale, la crisi energetica perché il petrolio è agli sgoccioli, e la crisi del riscaldamento climatico, contro cui nessuno sa cosa fare. Sono tre elefanti, dice, che si muovono tutti e tre in una piccola stanza, con effetti devastanti. Occorre una riforma radicale del sistema ( Repubblica del 30 settembre). Come riconoscono ormai anche i più accaniti fautori del mercato, è la crisi della stessa globalizzazione e dell'attuale modo di produzione e di sviluppo. Ma al di là dell'ordine economico, la crisi investe l'intero sistema delle relazioni umane. Come interpretare questo tempo della crisi? Io ricordo che proprio Dossetti, osservando lo stato del nostro Paese e del mondo, disse una volta: non c'è più la colla. Cioè non c'è più il legame sociale che fa stare insieme sistemi complessi. E infatti se noi guardiamo alle radici più profonde della crisi, noi vediamo che esse stanno in questo venir meno della capacità, della voglia e della gioia di vivere insieme, che è ciò in cui consiste la comunità politica, la polis.

E infatti non ci sono più o sono stati licenziati i grandi strumenti di aggregazione. Qualificandole come obsolete, sono state licenziate le ideologie. Come troppo invadenti sono stati licenziati i partiti. La scuola è rovesciata in azienda, per liquidare, come si dice esplicitamente, don Milani; il movimento della pace non può più nemmeno esporre in pubblico le proprie bandiere; la Chiesa si mobilita per battaglie certamente legittime, ma che non aggregano e anzi dividono; la Costituzione, fatta a pezzi, non è più la casa comune di tutti gli italiani; e sul piano internazionale il diritto è abbandonato, le convenzioni di Ginevra sono ricusate, l'Onu vilipesa, le regole non ci sono più. Deregulation è stata l'ultima e definitiva ideologia del Novecento.
(...)

Che fare invece per ridare una chance alla politica? Che fare per ristabilire il legame sociale, per ritrovare la colla, per prendere le vie della giustizia, prima di rotture irreparabili, prima che l'amore finisca? Molti tentativi di riaggregazione sono finora falliti. Proviamoci allora come cristiani, con tutti gli altri che sono per la giustizia. Sappiamo che è una cosa temeraria. Perché giustamente non si usa più mettere la religione in mezzo alle cose politiche, perché ciò appare in contrasto con la laicità, e di fatto lo è, se a farlo sono le Chiese. Ma soprattutto è una cosa temeraria perché non impunemente ci si può dire cristiani; è un nome che non ci decora, ma che ci giudica, e richiederebbe da chiunque accetti di unirsi a questo titolo una capacità superiore di indignazione e di mitezza, di coraggio e di pazienza, di intransigenza e di indulgenza, di cui non so se tutti saremo capaci.
(...)

Può darsi che ci sbagliamo. Ma questa non è la proposta di una ideologia, tanto meno è la rivendicazione di una identità; è il ricorso a un rimedio: un pharmacon, come ha detto qualcuno. Un antidoto alla frantumazione sociale, in funzione di unità, e un antidoto anche all'appropriazione strumentale della fede, di cui la destra al potere fa largo uso, lei con i suoi atei devoti. Il pharmacon per gli antichi era insieme medicina e veleno. L'antidoto reca in sé una particella della tossina che vuole combattere. Non ci vogliono certezze, ci vuole umiltà per correre questo rischio.

Si tratta di una convocazione alla giustizia, dei cristiani che come tali sono laici, e dei laici anche se non sono cristiani. Non tanto per un incontro tra loro (questo già avviene in molti altri luoghi, ad esempio nel Partito democratico) quanto per dare aiuto all'incontro degli altri, per mettersi al servizio della società tutta intera, per rimettere in funzione quella colla che si è perduta, e che il denaro non è riuscito a rimpiazzare. Se deve essere, come abbiamo detto, un "Servizio politico", questo è nella direzione di una mediazione alta, che non è né il dialogo che un giorno si fa e l'altro si nega, né l'accordo tattico che snatura i contraenti, né il compromesso deteriore; ma è lo sforzo di promuovere i modelli sociali più alti, le soluzioni più attente agli interessi e ai valori di tutti; una mediazione alta, proiettata sulle cose da fare, nella quale ogni singola parte possa trovare una ragione e crescere essa stessa.

Ciò nell'ambito della sinistra, di cui rivendichiamo la dignità, pur nelle sue divisioni, ma anche oltre la sinistra. La contraddizione tra destra e sinistra certamente non può essere oscurata. In politica non esistono cose che non sono "né di destra né di sinistra", e se ci fossero sarebbero anch'esse di destra perché pretenderebbero sottrarsi alla verifica della critica e al vaglio della giustizia. Noi assumiamo questa contraddizione, e perciò la nostra scelta di campo è a sinistra, ma la assumiamo con dolore, perché in Italia il conflitto è stato portato al parossismo da un sistema istituzionale ed elettorale che si è impiccato al bipolarismo, e che ha trasformato la dialettica tra destra e sinistra in una spaccatura verticale tra due Italie che si detestano e si odiano e rendono impossibile perfino il pensiero di un bene comune. La dialettica politica va mantenuta, ma questa lacerazione va sanata. Per questo ci vuole una mediazione alta. Ma essa non va affidata al buonismo, bensì a una riforma del sistema elettorale e politico che dia una più ricca articolazione e proporzionalità alla rappresentanza, che non cancelli le minoranze, che ristabilisca uno snodo tra governo e parlamento perché, se i governi passano, i parlamenti restino.

da Liberazione 11/10/2008


giovedì 2 ottobre 2008

Commento al vangelo di domenica 5 ottobre 2008

Diventare testata d'angolo
di g.g.

«Ascoltate un'altra parabola: C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?». Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d'angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.
(Mt 21,33-43)


Questa parabola di Gesù si inserisce in un contesto e in una situazione sociale che doveva essere ben conosciuta dai suoi contemporanei. All’epoca, la zona collinosa della Galilea era proprietà di ricchi latifondisti stranieri che affittavano i loro poderi agli agricoltori del luogo. Il fatto, dunque, appare verosimile. Infatti, secondo le leggi del tempo sull’eredità, un podere, alla morte del proprietario senza eredi, passava nelle mani del primo occupante.

Al centro dell’episodio, ricco di suggestioni veterotestamentarie, c’è il regno di Dio e il rapporto del popolo infedele (i vignaioli) con gli annunciatori e i profeti del regno (i servi e il figlio). Non solo i vignaioli disobbediscono, ma bastonano, uccidono, lapidano gli inviati di Dio e – alla fine – fanno fuori addirittura il messia, avidi di impossessarsi di una vigna (di un regno) che non è loro.

Il castigo di Dio per il popolo infedele, che non è in grado di far fruttare la vigna da cui si aspettava giustizia («si aspettava giustizia ed ecco violenza, si aspettava rettitudine ed ecco oppressione», cfr. Is 5, 1-7), consiste nella caduta in rovina della vigna e nella morte stessa dei profeti e dell’inviato di Dio. Il castigo diventa la sconfitta stessa di Dio, l’invio di un messia che si rivelerà un messia di morte.

La giustizia, il rispetto per il diritto di tutti, soprattutto dei poveri, non trova spazio. Dio non riesce a stabilire la sua volontà a causa dell’infedeltà del suo popolo. L’oppressione dei poveri viene presentata come un omicidio. I vignaioli sono omicidi non solo perché uccidono i servi e il figlio ma perché calpestano il diritto, predano il povero. Sono omicidi perché non sono in grado di far fruttare la giustizia che Dio chiede. Pertanto «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare».

Ad un certo punto Dio stesso viene sconfitto, si trova nell’impotenza. Ma Dio non è in grado di badare alla vigna, di garantire un’amministrazione equa, di inviare servi in grado di essere rispettati e ascoltati dai vignaioli? Dio non può imporre la sua volontà? Davanti a questa parabola, non possono non sorgere queste domande. Esse sono le domande della salvezza, sono le domande che ammutoliscono e angosciano il cuore dell’uomo.

Gesù promette che Dio affiderà il regno ad un popolo che lo farà fruttificare. Probabilmente questo popolo viene identificato dalla comunità del vangelo di Matteo con la chiesa stessa. Un interpretazione che, forse, viene fatta propria anche oggi dalla chiesa e da tutte quelle comunità fatte da coloro che si credono perfetti.

Bisogna purtroppo constatare che resta terribilmente difficile, a tutt’oggi, identificare quel popolo in grado di far fruttificare il regno, di cogliere dalla vigna frutti di giustizia e di rettitudine. Si può forse dire che qualunque servo, profeta o messia inviato da Dio, non può che essere condannato, umiliato, bastonato, ucciso.

I fatti, tutti i giorni ci mostrano questo massacro. L’uccisione degli uomini e delle donne che spargono sulla terra il seme del regno di Dio, che si impegnano e lottano quotidianamente per vivere, per vivere e basta. Vivere è molto più difficile e molto meno banale di quanto si possa pensare. La vita è un parto che si compie ogni giorno nelle piccole cose. Un parto doloroso, come tutti i parti delle donne e della Terra. Vivere non è facile perché ogni giorno incontriamo almeno un vignaiolo omicida che intende rubarci la giustizia di Dio e che ci picchia, ci uccide fuori e dentro, nella mente e nel cuore.

Non è banale perché se sei donna devi conquistarti ogni giorno il rispetto dei “maschi” che pensano di essere il centro e il metro del mondo, della realtà e delle cose. Non è facile perché se sei gay, lesbica, trans, devi avere tutti i giorni il coraggio di essere quello che sei, e non quello che gli altri, i “normali”, pensano che tu debba essere perché la “natura è così e basta”. Non è banale perché se sei rom, immigrato, clandestino; se sei giallo, nero o rosso, tutti i giorni devi avere il coraggio di camminare sotto gli sguardi taglienti e giudicanti dei “bianchi”, della gente per bene. Non è facile perché se sei povero – sia che tu viva nel Nord o nel Sud di questo mondo – devi tutti i giorni combattete per dare da mangiare ai tuoi figli e alle tue figlie.

E allora «speriamo di riuscire ad essere almeno questo miserabile resto di vinti, di soli, di stanchi, di eunuchi, di pazzi, di moribondi», come diceva Sergio Quinzio, perché «se non è bastata la croce di Dio perché irrompesse la consolazione e la gloria, mi sgomenta pensare dove si dovrà scendere. Forse si dovrà arrivare al punto in cui non si potrà avere più neppure la forza di parlare, tanto si sentirà vano tutto, tutti i nostri arzigogoli per argomentare circa la salvezza mai ancora venuta, da millenni» (S. QUINZIO, Dalla gola del leone, Milano 1980, pp. 37, 46).
In tutto questo sta lo scandalo della pietra scartata dai costruttori che è divenuta testata d’angolo.

Io non morirò, anzi vivrò,
e racconterò le opere del Signore.
Certo, il Signore mi ha castigato,
ma non mi ha dato in balìa della morte.
Apritemi le porte della giustizia;
io vi entrerò, e celebrerò il Signore.
Questa è la porta del Signore;
i giusti entreranno per essa.
Ti celebrerò perché mi hai risposto
e sei stato la mia salvezza.
La pietra che i costruttori avevano disprezzata
è divenuta la pietra angolare.
Questa è opera del Signore,
è cosa meravigliosa agli occhi nostri.
Questo è il giorno che il Signore ci ha preparato;
festeggiamo e rallegriamoci in esso.
O Signore, dacci la salvezza!
O Signore, facci prosperare!

(Salmo 118, 17-25)

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