martedì 14 ottobre 2008

Lezione di congedo di Gianni Vattimo 14/10/2008

Gianni Vattimo, maestro del pensiero debole.

Cosa capita quando un filosofo ma soprattutto un professore come Gianni Vattimo - come egli stesso vuole essere ricordato – si congeda dall’Università di Torino?
Certamente rappresenta una grande perdita. Una perdita culturale, effettiva, didattica – soprattutto per gli studenti. Vattimo ha sempre dedicato tutto se stesso all’insegnamento, ai suoi studenti; è stato un animatore effervescente del clima universitario torinese. Ci mancheranno le sue lezioni, la sua chiarezza, la sua ironia.
Alla sua lezione di congedo, tenutasi nell’aula magna del Rettorato martedì 14 ottobre 2008, una folla di studenti, discepoli, docenti… ha voluto far sentire la sua vicinanza al padre del «pensiero debole» (una forte teoria dell'indebolimento come unica via dell'emancipazione). Ma Vattimo ha subito precisato: «congedo fino ad un certo punto» e ha aggiunto «spero comunque che sia l’ultimo».
Nella sua lezione, «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto», il professore ha ripercorso il lavoro compiuto negli ultimi mesi, analizzando, a partire da Heidegger, come si costruisce la verità.
«Oggi si parla tanto di dialogo - ha detto Vattimo - un concetto in bocca a tutti i potenti, in realtà nessuno fa niente davvero per cercare di dialogare con l'altro, con il nemico. Anche Bush ha detto di aver attaccato l'Iraq perché voleva il dialogo».
Per Vattimo «bisogna rilanciare il conflitto, in luogo di un dialogo-panacea che non serve a nessuno, bisogna avere il coraggio di stare da una parte, sperando che sia quella giusta. Ed io ora, so di stare dalla parte dei poveri e di chi non ha voce».
La riflessione di Vattimo è molto significativa come chiave di lettura della modernità. L’idea che «l’essere come tale abbia – fortunatamente – il destino di dissolversi» sta alla base del pensiero debole (la kenosis), che a detta di Vattimo - ma anche nostra - rappresenta «l’unica filosofia cristiana attualmente sul mercato». E ha aggiunto, non senza un tocco di narcisismo e di ironia: «solo per questo dovrebbero farmi papa».
L’incontro non è stato privo di commozione. Alla fine della lezione è scoppiato un lungo, forte e sentito applauso. (g.g.)



Di seguito pubblichiamo il testo della lezione «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto» (comparsa su La Stampa) e la lettera di saluto al mastro di Alessandro Baricco, dove lo scrittore descrive efficacemente cosa ha voluto dire per lui – mka così è stato per tutti i suoi allievi – avere Vattimo per maestro (da la Repubblica - Torino).


Finché c'è conflitto c'è speranza

L'ultima lezione all'Università di Torino

di Gianni Vattimo

Perché «dal dialogo al conflitto»? Non è forse l’ermeneutica - quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, Gadamer, e prima Heidegger e Nietzsche, ho sempre cercato di ispirarmi - per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa, anche in base all’esperienza di dibattiti americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia «continentale» (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di larga parte della filosofia contemporanea.


Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente «diluita»; io pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno - anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, «stiano» in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente qualificati, sono «eventi».

Alla nozione di evento di Heidegger io aggiungevo - credo sempre in fedeltà al suo insegnamento - una più esplicita filosofia della storia dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto) la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità immutabile di ogni vero ha invece il «destino» di camminare indefinitamente verso il non-esser-più l’essere come tale.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della «dimostrazione», ma piuttosto orientati alla persuasione - la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più.

Ma perché, ancora, dal dialogo al conflitto?

Posso confessare senza difficoltà che sono diventato sensibile a questo problema - che riassumo in questo titolo - per ragioni che non hanno anzitutto a che fare con questioni interne alla teoria, ma che sono invece fin troppo evidentemente legate a quella che con espressione dello Hegel dell’estetica chiamerei, alquanto pomposamente, la «condizione generale del mondo». Della quale prendiamo coscienza a partire dal senso di fastidio che ci suscita sempre più nettamente ogni richiamo al dialogo. Non solo nella recente politica italiana, dove i contendenti litigano rimproverandosi reciprocamente di non voler dialogare, con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese. In verità, se riflettiamo sulle ragioni dell’insofferenza per la retorica del dialogo ci rendiamo conto che stiamo solo esprimendo una rivolta ben più ampia e più filosoficamente rilevante, e cioè la rivolta contro la «neutralizzazione» ideologica che domina ormai ovunque la cultura del primo mondo, l’Occidente industrializzato. Si tratta di quello che spesso è stato chiamato il pensiero unico, il quale si identifica in ultima analisi con ciò che i politici chiamano - quando lo nominano - il Washington consensus, al di fuori del quale non c’è che il terrorismo con tutti i suoi derivati.

Il pensiero unico nel quale siamo immersi ha il merito di averci fatto capire - in molti sensi sulla nostra pelle - che l’oggettivismo metafisico, oggi declinato soprattutto come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata - e più sfuggente - del dominio di classi, gruppi, individui. Neutralizzazione e potere degli esperti di ogni tipo sono la stessa cosa. È l’esperienza che, anche nel piccolo orizzonte della società italiana, facciamo quando vediamo la scomparsa delle differenze tra destra e sinistra. Una scomparsa che del resto è generale, almeno nel mondo occidentale della razionalità capitalistica, per quanto quest’ultima sia sempre più visibilmente irrazionale e manifesti senza alcun pudore la sua essenza puramente predatoria.

Ripeto in breve i passi impliciti in quanto detto fin qui. La verità, se non è rispecchiamento di un ordine eternamente dato di essenze e strutture, è accadimento, e accadimento dialogico. Verità si dà quando ci mettiamo d’accordo. Ma il dialogo sarà davvero sempre così pacifico?

La retorica odierna del dialogo ha molti caratteri per essere sentita come una maschera del dominio - ed è così che la viviamo di fatto nella nostra insofferenza crescente verso di essa.

Heidegger ci ha insegnato che la verità di una proposizione qualunque si prova solo all’interno di un paradigma storico, il quale non è semplicemente l’articolarsi di una struttura eterna (natura dell’uomo, primi principi ecc.) ma accade, nasce, ha un’origine, il cui modello egli vede nella nascita dell’opera d’arte. La quale è un luogo di accadere della verità in quanto (pensiamo a Dante, alla Bibbia, a Shakespeare) è l’apertura di un orizzonte storico, la nascita di un linguaggio e di una nuova visione del mondo. E quel che costituisce la base della forza inaugurale dell’opera d’arte, dice Heidegger, è il fatto che essa mantiene aperto il conflitto tra «mondo» e «terra». Due termini che vanno intesi l’uno, il mondo, come l’orizzonte articolato, il paradigma, che l’opera inaugura e dentro cui ci fa «abitare»; l’altro, la terra, come quella riserva di sempre ulteriori significati che, come dice il termine stesso, sono legati alla vita - della natura e della persona - e che costituiscono sempre un alone oscuro da cui proviene la spinta a progettare, a cambiare, a divenire altro.

Ma la «terrestrità» non si lascia chiudere dentro la stabilità di un dialogo felice, che istituirebbe la verità come nascita armoniosa di un nuovo paradigma.

Non si può cercare di uscire dall’oggettivismo metafisico - apologetico, «realistico» - senza venir coinvolti in un conflitto da cui soltanto può scaturire la verità-evento. La libertà - la progettualità umana in cui soltanto si annuncia l’essere come tale - è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio).

Per questo, cercare di pensare l’essere non vuol dire altro, oggi per noi, che opporsi alla neutralizzazione, prendere partito. Con chi e per cosa non è poi una scelta tanto difficile.

Se l’essere è pensato come progettualità e libertà, si dovrà ovviamente scegliere di stare con quelli che più progettano perché meno hanno: il vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico della verità perché libero di vedere il mondo fuori delle ideologie; ma portatore dell’essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo,classe, è definito dal progetto, cioè autenticamente ex-sistente.

Come si vede, questo discorso è tutt’altro che un congedo - anche se forse qualcuno, viste le conclusioni poco «innocenti», potrebbe essere tentato di salutarlo, finalmente, come tale. C’è ancora un sacco di lavoro, non solo teorico, da fare. Dunque, piuttosto un arrivederci, forse in altre sedi, ma speriamo con la stessa importuna passione progettuale.



Grazie, caro Vattimo sei stato un maestro
di Alessandro Baricco

Caro Vattimo, troppo tardi ho scoperto che oggi salirai in cattedra per l´ultima lezione all´Università. Troppo tardi per smontare tutto e riuscire a venire lì, come mi sarebbe piaciuto fare. Peccato. A conti fatti, non se ne incrociano poi molti, di veri maestri, in una vita, e tu per me lo sei stato, un vero maestro, e in un modo che non ho mai dimenticato.


Secondo me, se hai vent´anni e ti piace lo spettacolo dell´intelligenza, finire in un´aula a sentire un vero filosofo, è il massimo. A me è successo per quattro anni, alle tue lezioni, e da lì ho contratto la convinzione che la filosofia resta l´esercizio più alto, se solo quello che cerchi è l´ordine delle idee, il rigore delle visioni, il virtuosismo dell´intelligenza: è uno sport estremo, da vette ultime, e chi c´è passato sa che non c´è nulla di paragonabile alla vista che c´è da lassù. Tutto il resto è pianura. Colline, ogni tanto.

Mi hai insegnato molte cose, ma adesso mi viene in mente la chiarezza. Tu spiegavi, e noi capivamo, non c´era santo. Io penso di aver capito anche Schelling, spiegato da te (non vorrei esagerare, ma qualcosetta riuscivi a farla capire perfino di Fichte). Eri elegante nella linea delle argomentazioni, e limpido nel nominare le cose. Quando il gioco si faceva duro, non avevi paura di usare degli exempla, e non ti faceva schifo andarli a scovare dovunque.

Credo di aver capito l´etica kantiana quando molto seriamente ci hai fatto presente che alle tre di notte, in una città deserta, davanti a un semaforo rosso, ti fermi solo se sei un fesso: o se sei Kant. Noi ascoltavamo, e intanto, senza accorgercene, capivamo che la chiarezza, nella filosofia, non era lo scopo, ma il punto di partenza, la precondizione senza cui il pensiero non si metteva in moto. Era come mettere i pezzi sulla scacchiera. La partita vera, era il casino che c´era dopo. Si rideva molto, alle tue lezioni, e anche questo era un insegnamento. Beh, molto forse no, ma considerato che il tema era il vivere per la morte di Heidegger o quell´allegrone di Adorno, tu ci infilavi un umorismo che non eravamo sicuri fosse previsto.


Sembravi credere che ogni impennata dell´intelligenza andasse accompagnata dall´antidoto dell´ironia: è una cosa che non mi sono più tolto di dosso. Ancora adesso non riesco a fare lezione senza infilarci qualche battuta e non mi riesce di scrivere un libro che non faccia, anche, ridere. Se era solo un vezzo, un lascito della tua vanità di showman, me ne frego: a me sembrava un modo di stare al mondo, o quanto meno nel mondo del pensiero: aveva l´aria di essere un modo giusto.

In quegli anni lavoravi a fondare il pensiero debole (ossimoro, lo so, lo so). Tu ci credevi, quindi noi ci credevamo. Poi, in tutto il tempo che è passato dopo, mi è successo un sacco di volte di ascoltare o leggere gente che ricordava quell´impresa teorica con sufficienza, o ironia, e perfino con immotivabile rancore. Avevano il tono di quelli che qualcuno gli aveva versato lo champagne sul tappeto. Io non so, non ho più gli strumenti per giudicare: ma vorrei dirti che per molti di noi il pensiero debole, e la pratica dell´ermenutica, sono stati una scuola a cui abbiamo imparato a pensare con violenza flessibile, e ci siamo abituati all´idea che leggere il mondo fosse un modo, forse l´unico, di scriverlo. Questo ci ha resi differenti, in qualche modo, e, credo, immensamente più adatti a ricevere le mutazioni che il pianeta aveva in serbo per noi.

Mi sa che adesso te ne andrai in giro a far lezione ai quattro angoli del mondo, a spiegare Schelling a sudamericani o giapponesi che, come noi, di Schelling non hanno mai capito un tubo. Beati loro, beato te. Mi ricordo che avevi un gesto tutto tuo, quando iniziavi la lezione: parlando, mettevi una mano nella tasca della giacca, e rimestavi un po´ lì dentro, intanto che la spiegazione decollava. Poi c´era un momento in cui tiravi fuori la mano della tasca, e c´era sempre un gettone telefonico, delle monete, cose così: le posavi sulla cattedra, ordinate. Forse era il tuo modo di spiegare anche al più deficiente di noi quello che veramente stavi facendo in quel momento. Stavi mettendo in ordine per noi la paghetta intellettuale che poi ci saremmo spesi nel corso di una vita. Oggi è il giorno giusto per dirti che con quelle monete mi son comprato un sacco di cose, e che erano preziose, e leggere. Perfino il gettone telefonico lo era: prezioso, leggero. E allora stay hard, stay hungry, stay alive, come dice il boss (sarebbe Springsteen: non è mai stato chiaro fin dove arriva la tua cultura musicale.) E ogni fortuna, per te, maestro.


sabato 11 ottobre 2008

Incontro della Sinistra cristiana - la relazione

Cristiani
perché la sinistra ha ancora bisogno di noi.

Dalla relazione introduttiva al Convegno della Sinistra cristiana.

di Raniero La Valle

Ci sono discorsi che non si possono improvvisare, alcuni per farli ci vuole una vita. Sarebbe tempo che i politici si mettessero a scrivere i loro discorsi, per far sì che il pensiero preceda la parola. In verità parlare senza leggere è considerata una virtù del buon politico; è un ingrediente del successo in tempi di grandi comunicatori. Nella campagna elettorale americana si vedono i candidati che parlano a lungo fissando negli occhi le telecamere; in realtà leggono il gobbo, che è un modo di leggere senza farsene accorgere.

Una volta leggevo in Senato il mio discorso. Si discuteva la legge 194 sull'aborto. Era un discorso delicato, perché come cristiani della Sinistra indipendente noi non volevamo solo agitare una bandiera - quello si poteva fare anche parlando a braccio - ma volevamo fare una legge equilibrata, che non tradisse nessun principio, ma che ci facesse uscire dalla logica punitiva della legge penale. Perciò leggevo il mio discorso. E a un certo punto il presidente del Senato, Fanfani, mi interruppe e mi disse: sen. La Valle, lei fa tante citazioni, ma dovrebbe conoscere anche il regolamento del Senato, che vieta di leggere i discorsi in aula. Infatti nel regolamento c'era una norma bizzarra di questo genere, non so se ci sia ancora; forse era il residuo di un tempo in cui in Parlamento si andava solo per parlare, perché a decidere ci pensavano gli altri; un po' come si vorrebbe fare oggi offrendo qualche seggio agli esclusi come "diritto di tribuna", una tribuna fatta per i tromboni. Quella norma del regolamento era giustamente in disuso, ed era la prima volta, che io sappia, che un presidente redarguiva un senatore perché aveva preparato il suo discorso. Ma è chiaro che era un modo per prendere le distanze da quello che dicevo, non un cavillo regolamentare; anche quando si presiede il Senato si fa politica, non ci si limita a un ruolo di garanzia.

Il 2 ottobre, anniversario della nascita di Gandhi, era, indetta dalla Nazioni unite, la giornata della Satyagraha , che è la ricerca gandhiana della verità e dell'amore, altrimenti detta nonviolenza. Io ricordo la commozione di Dossetti, quando fece sosta presso la tomba di Gandhi a Nuova Delhi, durante un viaggio in India. Dossetti è uno dei maestri che sta nella nostra tradizione; e quella visita alla tomba di Gandhi non era solo un omaggio a un altro grande maestro, era stabilire una comunione, forse una preghiera in comune.

Gandhi non è solo il liberatore dell'India; prima ancora è stato difensore e redentore degli immigrati, quando egli stesso era immigrato in Sudafrica, e come avvocato indiano era considerato meno che niente. Gandhi lottò non solo per sé, ma per dare dignità e parità di diritti agli immigrati: ed è proprio lì, nel ricco e bianco Sudafrica nero che egli ha cominciato ad essere quello che poi sarebbe diventato.

Per questo bisogna accogliete gli immigrati: perché in ogni immigrato che sbarca a Lampedusa o che viene dall'Est ci potrebbe essere un Gandhi, ci potrebbe essere un liberatore del suo popolo o di molti popoli. Anzi è proprio questa la nuova obiezione di coscienza da fare, contro le leggi antixenite ; e le chiamo antixenite, e non xenofobe, perché non sono affatto leggi dettate dalla paura, ma sono leggi dettate dal razzismo, dall'odio e dal rifiuto, esattamente come lo erano le norme antisemite.

Questa è la nuova obiezione. In Italia non si può fare più l'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, perché quando l'obiezione passò da concessione del potere a diritto del cittadino, per buttare l'obiezione buttarono via l'esercito di leva. Non si può fare e non si deve fare l'obiezione fiscale, perché quella l'ha fatta il governo, l'ha fatta la destra diffamando le tasse, definendo come un furto o come un borseggio ogni prelievo fiscale; lo ha fatto trasformando le elezioni in un referendum anticostituzionale sull'Ici; la destra non toglie le tasse, ma le delegittima, allo scopo di togliere allo Stato tutte le sue risorse, tutti i soldi per la spesa pubblica e così poter dire, per ragioni di cassa e non per ragioni ideologiche, che non si possono fare politiche sociali, che bisogna licenziare 87 mila insegnanti, che bisogna svuotare l'Istituto superiore per la sanità, che non ci sono i soldi per i comuni, non ci sono soldi per salvare l'Alitalia, non ci sono soldi per la cultura, per il teatro, per l'editoria e così finalmente riuscire a chiudere anche Liberazione e il Manifesto . L'attacco della destra al denaro pubblico è un attacco al cuore dello Stato. Senza denaro, e sperperando il poco denaro che si ha, non vivono le città. Senza più soldi, dopo l'amministrazione del dottore che cura Berlusconi, Catania era ridotta al buio e sepolta dalla spazzatura, anche se nessuno lo diceva e lo faceva vedere, perché non c'era da far perdere a Prodi le elezioni.

Allora l'obiezione da fare è quella contro le leggi ingiuste che vietano di dare ospitalità allo straniero. Nella nostra laicità, se c'è una cosa che diciamo "sacra", cioè che non si può toccare, è l'ospitalità: ma così è in tutte le culture, o almeno lo era. Noi dobbiamo fare obiezione ospitando e dando asilo agli stranieri come facemmo ospitando gli ebrei nelle nostre case e nelle nostre chiese quando, altrettanto come ora, l'ospitalità era un delitto. Naturalmente non serve fare un'obiezione spericolata, che rischi di provocare la confisca delle nostre case come minacciano le leggi razziali del governo. L'art. 5 del decreto legge sulla sicurezza che introduce nella legislazione sullo straniero la norma anti-ospitalità, dice che si commina la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la confisca dell'immobile a chi dà alloggio a uno straniero irregolare "a titolo oneroso al fine di trarne ingiusto profitto". Dunque per fare obiezione senza esporsi alla vendetta penale, basta ospitare lo straniero gratuitamente e senza "ingiusto" profitto, magari premunendosi col farne apposita dichiarazione presso un notaio. Così la norma finirà per colpire solo quelli che speculano sulla pelle dello straniero.

Ma perché è così importante il rapporto con lo straniero, e non solo in Italia?
Perché il problema globale e imprescindibile di oggi è la riconciliazione di tutti i popoli che sono l'uno all'altro stranieri; il problema è che ciascuno ritrovi la sua patria, ma la trovi oltre i suoi confini, al di là del fiume, là dove sono altri uomini e donne, altri figli e figlie come lui; se questo non si farà, non ci sarà pace sulla terra, e forse un giorno non ci sarà nemmeno la terra. È stato dato già 2000 anni fa l'annunzio della caduta del muro tra giudei e greci, cittadini e barbari, romani e sciti; è venuto il momento di dare attuazione a questo annuncio. Se non fa questo, la politica è perduta. È perduta in America, è perduta in Europa, è perduta in Israele.

Un barlume di luce è venuto in questi giorni da Israele quando il primo ministro uscente, Olmert, per la prima volta ha detto che non esiste l'ipotesi del grande Israele, dal mare al Giordano; che se Israele vuole rimanere uno Stato ebraico, e non divenire uno Stato in cui gli ebrei siano una minoranza, deve contrarsi per far posto accanto a sé a uno Stato palestinese; e per questo è stato presentato alla Knesset un disegno di legge che offre forti incentivi economici ai coloni ebrei insediati nei territori occupati, perché rientrino dentro i vecchi confini di Israele del 1967. Ciò significa dire: fin qui abbiamo sbagliato. È la rottura di un tabù, riguardo alla terra - Eretz Israel - finora vissuto in Israele come un assoluto religioso. Ma se non si rompe questo tabù, non c'è alcuna soluzione per la questione palestinese (vedete fin dove arriva la laicità!); e se le religioni per prime non tolgono la copertura religiosa alle sacre are, ai sacri fiumi e ai sacri confini della Patria, ancora di più i popoli si contrapporranno gli uni agli altri, gli Stati gli uni agli altri e le culture le une alle altre, e non potrà esserci pace, e nemmeno diritto, e quindi nemmeno politica, su scala mondiale.

Perciò è importante l'obiezione di coscienza che nega obbedienza a tutto ciò che è contro la straniero, che si tratti di armi o di basi offensive, di leggi, di sanzioni o di dazi, di apartheid e di sfruttamento.
(...)

E così veniamo alla nostra iniziativa, perché è sorta e perché ha osato presentarsi con questo nome: per giustificarne l'esistenza basterebbe questo compito, che è di lottare per l'unità internazionale, politica, pacifica, della intera famiglia umana. Mai l'umanità è stata così divisa come in questi tempi di globalizzazione. E questo ci getta nel cuore della crisi di oggi, una crisi che non è solo nostra, ma di tutti, non è della nostra o di altre nazioni, ma è una crisi globale. Il Dio Mammona ci sta per tradire. Non solo c'è la crisi della speculazione finanziaria che dai santuari dell'America e dell'Inghilterra si sta diffondendo in tutto il sistema, e anche da noi. Come dice Jeremy Rifkin ci sono tre crisi: la crisi del credito, perché si tratta di ripianare venti anni di spese pazze fatte con denaro virtuale, la crisi energetica perché il petrolio è agli sgoccioli, e la crisi del riscaldamento climatico, contro cui nessuno sa cosa fare. Sono tre elefanti, dice, che si muovono tutti e tre in una piccola stanza, con effetti devastanti. Occorre una riforma radicale del sistema ( Repubblica del 30 settembre). Come riconoscono ormai anche i più accaniti fautori del mercato, è la crisi della stessa globalizzazione e dell'attuale modo di produzione e di sviluppo. Ma al di là dell'ordine economico, la crisi investe l'intero sistema delle relazioni umane. Come interpretare questo tempo della crisi? Io ricordo che proprio Dossetti, osservando lo stato del nostro Paese e del mondo, disse una volta: non c'è più la colla. Cioè non c'è più il legame sociale che fa stare insieme sistemi complessi. E infatti se noi guardiamo alle radici più profonde della crisi, noi vediamo che esse stanno in questo venir meno della capacità, della voglia e della gioia di vivere insieme, che è ciò in cui consiste la comunità politica, la polis.

E infatti non ci sono più o sono stati licenziati i grandi strumenti di aggregazione. Qualificandole come obsolete, sono state licenziate le ideologie. Come troppo invadenti sono stati licenziati i partiti. La scuola è rovesciata in azienda, per liquidare, come si dice esplicitamente, don Milani; il movimento della pace non può più nemmeno esporre in pubblico le proprie bandiere; la Chiesa si mobilita per battaglie certamente legittime, ma che non aggregano e anzi dividono; la Costituzione, fatta a pezzi, non è più la casa comune di tutti gli italiani; e sul piano internazionale il diritto è abbandonato, le convenzioni di Ginevra sono ricusate, l'Onu vilipesa, le regole non ci sono più. Deregulation è stata l'ultima e definitiva ideologia del Novecento.
(...)

Che fare invece per ridare una chance alla politica? Che fare per ristabilire il legame sociale, per ritrovare la colla, per prendere le vie della giustizia, prima di rotture irreparabili, prima che l'amore finisca? Molti tentativi di riaggregazione sono finora falliti. Proviamoci allora come cristiani, con tutti gli altri che sono per la giustizia. Sappiamo che è una cosa temeraria. Perché giustamente non si usa più mettere la religione in mezzo alle cose politiche, perché ciò appare in contrasto con la laicità, e di fatto lo è, se a farlo sono le Chiese. Ma soprattutto è una cosa temeraria perché non impunemente ci si può dire cristiani; è un nome che non ci decora, ma che ci giudica, e richiederebbe da chiunque accetti di unirsi a questo titolo una capacità superiore di indignazione e di mitezza, di coraggio e di pazienza, di intransigenza e di indulgenza, di cui non so se tutti saremo capaci.
(...)

Può darsi che ci sbagliamo. Ma questa non è la proposta di una ideologia, tanto meno è la rivendicazione di una identità; è il ricorso a un rimedio: un pharmacon, come ha detto qualcuno. Un antidoto alla frantumazione sociale, in funzione di unità, e un antidoto anche all'appropriazione strumentale della fede, di cui la destra al potere fa largo uso, lei con i suoi atei devoti. Il pharmacon per gli antichi era insieme medicina e veleno. L'antidoto reca in sé una particella della tossina che vuole combattere. Non ci vogliono certezze, ci vuole umiltà per correre questo rischio.

Si tratta di una convocazione alla giustizia, dei cristiani che come tali sono laici, e dei laici anche se non sono cristiani. Non tanto per un incontro tra loro (questo già avviene in molti altri luoghi, ad esempio nel Partito democratico) quanto per dare aiuto all'incontro degli altri, per mettersi al servizio della società tutta intera, per rimettere in funzione quella colla che si è perduta, e che il denaro non è riuscito a rimpiazzare. Se deve essere, come abbiamo detto, un "Servizio politico", questo è nella direzione di una mediazione alta, che non è né il dialogo che un giorno si fa e l'altro si nega, né l'accordo tattico che snatura i contraenti, né il compromesso deteriore; ma è lo sforzo di promuovere i modelli sociali più alti, le soluzioni più attente agli interessi e ai valori di tutti; una mediazione alta, proiettata sulle cose da fare, nella quale ogni singola parte possa trovare una ragione e crescere essa stessa.

Ciò nell'ambito della sinistra, di cui rivendichiamo la dignità, pur nelle sue divisioni, ma anche oltre la sinistra. La contraddizione tra destra e sinistra certamente non può essere oscurata. In politica non esistono cose che non sono "né di destra né di sinistra", e se ci fossero sarebbero anch'esse di destra perché pretenderebbero sottrarsi alla verifica della critica e al vaglio della giustizia. Noi assumiamo questa contraddizione, e perciò la nostra scelta di campo è a sinistra, ma la assumiamo con dolore, perché in Italia il conflitto è stato portato al parossismo da un sistema istituzionale ed elettorale che si è impiccato al bipolarismo, e che ha trasformato la dialettica tra destra e sinistra in una spaccatura verticale tra due Italie che si detestano e si odiano e rendono impossibile perfino il pensiero di un bene comune. La dialettica politica va mantenuta, ma questa lacerazione va sanata. Per questo ci vuole una mediazione alta. Ma essa non va affidata al buonismo, bensì a una riforma del sistema elettorale e politico che dia una più ricca articolazione e proporzionalità alla rappresentanza, che non cancelli le minoranze, che ristabilisca uno snodo tra governo e parlamento perché, se i governi passano, i parlamenti restino.

da Liberazione 11/10/2008


giovedì 2 ottobre 2008

Commento al vangelo di domenica 5 ottobre 2008

Diventare testata d'angolo
di g.g.

«Ascoltate un'altra parabola: C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?». Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d'angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.
(Mt 21,33-43)


Questa parabola di Gesù si inserisce in un contesto e in una situazione sociale che doveva essere ben conosciuta dai suoi contemporanei. All’epoca, la zona collinosa della Galilea era proprietà di ricchi latifondisti stranieri che affittavano i loro poderi agli agricoltori del luogo. Il fatto, dunque, appare verosimile. Infatti, secondo le leggi del tempo sull’eredità, un podere, alla morte del proprietario senza eredi, passava nelle mani del primo occupante.

Al centro dell’episodio, ricco di suggestioni veterotestamentarie, c’è il regno di Dio e il rapporto del popolo infedele (i vignaioli) con gli annunciatori e i profeti del regno (i servi e il figlio). Non solo i vignaioli disobbediscono, ma bastonano, uccidono, lapidano gli inviati di Dio e – alla fine – fanno fuori addirittura il messia, avidi di impossessarsi di una vigna (di un regno) che non è loro.

Il castigo di Dio per il popolo infedele, che non è in grado di far fruttare la vigna da cui si aspettava giustizia («si aspettava giustizia ed ecco violenza, si aspettava rettitudine ed ecco oppressione», cfr. Is 5, 1-7), consiste nella caduta in rovina della vigna e nella morte stessa dei profeti e dell’inviato di Dio. Il castigo diventa la sconfitta stessa di Dio, l’invio di un messia che si rivelerà un messia di morte.

La giustizia, il rispetto per il diritto di tutti, soprattutto dei poveri, non trova spazio. Dio non riesce a stabilire la sua volontà a causa dell’infedeltà del suo popolo. L’oppressione dei poveri viene presentata come un omicidio. I vignaioli sono omicidi non solo perché uccidono i servi e il figlio ma perché calpestano il diritto, predano il povero. Sono omicidi perché non sono in grado di far fruttare la giustizia che Dio chiede. Pertanto «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare».

Ad un certo punto Dio stesso viene sconfitto, si trova nell’impotenza. Ma Dio non è in grado di badare alla vigna, di garantire un’amministrazione equa, di inviare servi in grado di essere rispettati e ascoltati dai vignaioli? Dio non può imporre la sua volontà? Davanti a questa parabola, non possono non sorgere queste domande. Esse sono le domande della salvezza, sono le domande che ammutoliscono e angosciano il cuore dell’uomo.

Gesù promette che Dio affiderà il regno ad un popolo che lo farà fruttificare. Probabilmente questo popolo viene identificato dalla comunità del vangelo di Matteo con la chiesa stessa. Un interpretazione che, forse, viene fatta propria anche oggi dalla chiesa e da tutte quelle comunità fatte da coloro che si credono perfetti.

Bisogna purtroppo constatare che resta terribilmente difficile, a tutt’oggi, identificare quel popolo in grado di far fruttificare il regno, di cogliere dalla vigna frutti di giustizia e di rettitudine. Si può forse dire che qualunque servo, profeta o messia inviato da Dio, non può che essere condannato, umiliato, bastonato, ucciso.

I fatti, tutti i giorni ci mostrano questo massacro. L’uccisione degli uomini e delle donne che spargono sulla terra il seme del regno di Dio, che si impegnano e lottano quotidianamente per vivere, per vivere e basta. Vivere è molto più difficile e molto meno banale di quanto si possa pensare. La vita è un parto che si compie ogni giorno nelle piccole cose. Un parto doloroso, come tutti i parti delle donne e della Terra. Vivere non è facile perché ogni giorno incontriamo almeno un vignaiolo omicida che intende rubarci la giustizia di Dio e che ci picchia, ci uccide fuori e dentro, nella mente e nel cuore.

Non è banale perché se sei donna devi conquistarti ogni giorno il rispetto dei “maschi” che pensano di essere il centro e il metro del mondo, della realtà e delle cose. Non è facile perché se sei gay, lesbica, trans, devi avere tutti i giorni il coraggio di essere quello che sei, e non quello che gli altri, i “normali”, pensano che tu debba essere perché la “natura è così e basta”. Non è banale perché se sei rom, immigrato, clandestino; se sei giallo, nero o rosso, tutti i giorni devi avere il coraggio di camminare sotto gli sguardi taglienti e giudicanti dei “bianchi”, della gente per bene. Non è facile perché se sei povero – sia che tu viva nel Nord o nel Sud di questo mondo – devi tutti i giorni combattete per dare da mangiare ai tuoi figli e alle tue figlie.

E allora «speriamo di riuscire ad essere almeno questo miserabile resto di vinti, di soli, di stanchi, di eunuchi, di pazzi, di moribondi», come diceva Sergio Quinzio, perché «se non è bastata la croce di Dio perché irrompesse la consolazione e la gloria, mi sgomenta pensare dove si dovrà scendere. Forse si dovrà arrivare al punto in cui non si potrà avere più neppure la forza di parlare, tanto si sentirà vano tutto, tutti i nostri arzigogoli per argomentare circa la salvezza mai ancora venuta, da millenni» (S. QUINZIO, Dalla gola del leone, Milano 1980, pp. 37, 46).
In tutto questo sta lo scandalo della pietra scartata dai costruttori che è divenuta testata d’angolo.

Io non morirò, anzi vivrò,
e racconterò le opere del Signore.
Certo, il Signore mi ha castigato,
ma non mi ha dato in balìa della morte.
Apritemi le porte della giustizia;
io vi entrerò, e celebrerò il Signore.
Questa è la porta del Signore;
i giusti entreranno per essa.
Ti celebrerò perché mi hai risposto
e sei stato la mia salvezza.
La pietra che i costruttori avevano disprezzata
è divenuta la pietra angolare.
Questa è opera del Signore,
è cosa meravigliosa agli occhi nostri.
Questo è il giorno che il Signore ci ha preparato;
festeggiamo e rallegriamoci in esso.
O Signore, dacci la salvezza!
O Signore, facci prosperare!

(Salmo 118, 17-25)

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