venerdì 23 ottobre 2009

Dibattito su Ivan Illich/2

La pubblicazione su questo blog dell’articolo di risposta a Lucetta Scaraffia ha prodotto un dibattito a nostro avviso interessante (vedi qui), al quale ha partecipato la stessa Scaraffia. Ora, dopo la nostra recensione dell'ultimo libro di Illich, La perdita dei sensi, nuove voci si sono aggiunte al dibattito. Si tratta di Giannozzo Pucci, direttore editoriale della Libreria editrice fiorentina e curatore dell'ultimo libro di Illich.


Pucci ci ha scritto:
Grazie per la recensione approfondita e che offre importanti contributi al dibattito su Illich [...].

Nel merito c'è solo un punto del saggio su Leopold Khor da cui, usando l'argomento di Ivan della visione faccia a faccia , traggo una conclusione diversa.

Nella tradizione cristiana fin dalle origini (Luca 1:26-45: «quando Elisabetta sentì il saluto di Maria, il bambino sobbalzò nel suo grembo») confermata dai padri della Chiesa san Basilio, san Gregorio di Nissa e Tertulliano col principio dell’animazione immediata, la visione faccia a faccia della donna in attesa comprendeva in lei anche l’umanità di un bambino.

C’è una lunga storia europea di esposizione di bambini dalle membra mal fatte che, a partire dai popoli guerrieri spartani e romani, ha continuato nei secoli, ma i cristiani, come testimoniato dalla Lettera a Diogneto del secondo secolo, «non espongono i loro nati»: infatti se al cristiano è chiesto di amare il nemico, tanto più accoglierà con amore il cammino di un bambino/mostro che gli viene a complicare la vita.
Giannozzo Pucci

La nostra risposta:
Gentilissimo Pucci,
la ringrazio per l'attenzione e i risconti critici che ha voluto farmi [...] Devo davvero ringraziarla per il prezioso lavoro di cui la LEF si è fatta carico pubblicando La perdita dei sensi. Ogni sforzo editoriale che cerca di guardare al di là delle ragioni puramente economiche e che si impegna in una 'missione' culturale e civile è da apprezzare e appoggiare sempre.

Riguardo le sue critiche nel merito, che se ho ben inteso si riferiscono alla questione dell'inizio vita, mi sono limitato nella mia recensione a riportare le parole di Illich, inserendole in un contesto specifico e cercando di restituire complessità al pensiero di Illich, che a volte viene tirato per la giacchetta a destra o a manca (si veda l'articolo della Scaraffia). Non mi sembra con questo di aver proposto un Illich abortista - lungi da me - ma piuttosto, forse, un Illich che sull'aborto è vicino a posizioni pasoliniane e che fa riferimento - come ricorda spesso - al tomismo, che certo non pensava che l'embrione fosse 'una vita'. Ora, probabilmente nel mio articolo questo non risulta del tutto chiaro, se è così me ne scuso, ma del resto non pensavo di essere esaustivo sull'argomento.

In questi anni, durante i quali mi sono avvicinato a Illich, grazie anche a iniziative editoriali come la sua, sono sempre rimasto colpito dalla capacità di Ivan di 'sviare' e di sovvertire la ragionevolezza apparente di alcuni discorsi. Mi pare che la mia analisi, nel porre Illich fuori e al di là del discorso 'bioeticista', sia e resti valida, per le ragioni di cui ho scritto, tenendo anche conto di una concezione del faccia a faccia e di un ethos strettamente legato all'ethnos.

La ringrazio ancora per la sua attenzione e gentilezza
Saluti cordiali
G.G.


Risposta di Pucci:
Gent.mo Gendusa,
la sua analisi nel porre Illich fuori dal discorso bioeticista è indiscutibile, lo stesso Giuseppe Sermonti (principale critico italiano di Darwin) ha avuto parole di fuoco contro la bioetica come sottoprodotto dell'etica, e come tale impotente davanti al trono della religione scientifica e del principio di efficienza. Teddy Goldsmith, che non era cattolico e aveva un supremo rispetto e ammirazione per le religioni naturali, ha scritto un saggio strepitoso che non cita nemmeno una volta la tradizione ebraico cristiana ma solo la religiosità indigena che, come San Tommaso, vede nella natura un'autorità etica a cui l'uomo deve inchinarsi, mentre i neodarwiniani la considerano un'invenzione, cioè un frutto dell'onnipotenza umana.

Forse si potrebbe essere più dialettici con la Scaraffia e porle il problema come l'ha posto Ivan alle monache benedettine di Regina Laudis. Il caso Englaro ci ha dimostrato che quando accettiamo di metterci in guerra con ogni arma contro la morte cominciamo un percorso diabolico e poi nel caso specifico staccare il sondino sulla base di un giudizio su se la longevità postuma di tizio o di caia valga la pena di essere vissuta si avvicina pericolosamente ai ragionamenti nazionalsocialisti coi quali i matti venivano mandati alle camere a gas. Di fronte a tutto questo, nasce giustificatamente il dubbio che sdraiarsi nella neve come facevano i vecchi esquimesi, possa essere moralmente meno grave. In fondo anche la polmonite di Tolstoi presa sul treno della sua fuga, per non essersi coperto abbastanza e aver voluto sfidare il vento, ha un senso vicino al dubbio che avanza il libro che mi sembra rappresenti qualcosa di molto importante nell'opera di Illich. Mi manca ancora di pubblicare l'ultimo seminario che Ivan ha tenuto a Camaldoli nel maggio 2002 (prima di entrare in ospedale a Firenze per una tremenda pancreatite che lo portò vicino alla morte già nel giugno) e che cominciava così: "Una delle ragioni che mi rendono difficile l’insegnamento oggi è che quella frase di Darwin che tu mi hai letto, che non conoscevo, in un certo senso la sottoscriverei. Fatemela leggere ancora una volta. 'Fra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato in secoli (già c’è il senso moderno del probabilismo) è quasi certo che le razze umane più civili (oggi si direbbe più nordatlantiche, più anglofone) stermineranno e sostituiranno in tutto il mondo le altre'. Con la dichiarazione di guerra al signore terrorista (immaginarsi che onore per un terrorista avere una dichiarazione di guerra dalla maggiore potenza del mondo). Che cos’è la guerra, dove siamo? siamo su quella strada dello sterminio delle altre colture".

Ho in preparazione la traduzione del libro di Carl Amery Hitler come precursore che forse intitolerò Hitler come profeta della modernità nel quale si tira fuori dall'armadio il vero cadavere della nostra civiltà, le sue ispirazioni filosofiche fondamentali che si sono travestite di democrazia, di comprensione e anche di sinistra per trasferirsi dai vinti della seconda guerra mondiale ai vincitori diventando mentalità comune anche fra molti bravi cattolici.

Con amicizia e auguri di buon lavoro anche a lei.
Giannozzo Pucci

mercoledì 21 ottobre 2009

L'ultimo libro di Illich. Una recensione

Ivan Illich e la perdita dei sensi

La perdita dei sensi di Ivan Illich, uscito per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina lo scorso settembre, completa il corpus delle opere illichiane, proponendo in italiano i saggi, i discorsi e i testi di conferenze che coprono l’ultima fase della vita di Illich, dal 1987 al 2002.


Il volume, uscito postumo in Francia nel 2004 col titolo La Perte des sens, è un’opera fondamentale per comprendere le ultime fasi del pensiero del grande storico e filosofo, che ha sempre testimoniato con la vita la sua critica dello sviluppo, delle istituzioni e della società dei servizi. La raccolta, eterogenea sia per generi sia per argomenti trattati, permette di approfondire i temi dell’ultimo Illich, già proposti al lettore italiano dai due preziosi volumi di conversazioni curati da David Cayley e pubblicati dalla casa editrice Quodlibet di Macerata (Pervertimento del Cristianesimo, 2008 e I fiumi a nord del futuro, 2009). La perdita dei sensi consente ora di avvicinarsi al pensiero dello studioso con più precisione e rigore, ampliando e specificando meglio quanto già apparso negli ultimi anni in Italia, specialmente in I fiumi a nord del futuro, anche se l’apparato critico del volume lascia un po’ a desiderare: volutamente si è preferito non riportare in nota le edizioni italiane dei testi citati, e l'indice analitico non è pienamente esaustivo.

I temi raccolti da Illich in questa sua ultima pubblicazione, cui lavorò insieme a Valentina Borremans prima della morte, avvenuta nel 2002, vanno dalla ricerca sull’origine e la critica dei servizi (in primis scuola e salute, questioni da sempre care all’autore) sino alla storia dei bisogni e agli argomenti «economici» tesi a «risvegliare dal sonno economico» e a far «perdere la fede nell’Homo oeconomicus», illuminante a proposito è la conferenza su Leopold Kohr del 1994. Grande spazio occupano poi i temi della mutazione delle percezioni: della visione (storia dell’ottica), del leggere (lectio divina e mutazione del testo), del sentire (amplificazione…). Commoventi poi, per la loro preveggenza e la loro incidenza sull’esistenza delle persone, le riflessioni sul morire: particolarmente toccanti e significative la lettera sulla «Longevità postuma», scritta a delle monache di clausura, e quella su «La perdita del mondo della carne», indirizzata all’amico Hellmut Becker.

Illich, in questo libro, si trova più volte a rileggere le sue opere precedenti, specialmente Medical Nemesis, alla luce dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi trent’anni, confrontandosi con la «società dei sistemi» che ha inciso inaspettatamente sulla percezione del sé in relazione all’‘altro’, al di là di ogni critica dello sviluppo e che – secondo l’autore – esige analisi sempre più complesse.

L’obbiettivo di Illich, per cui si batte in tutti questi interventi, è «la rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ‘show’, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro». Pratiche ascetiche che devono necessariamente basarsi sull’amicizia. «Ho scritto questi saggi – ricorda Illich – durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis».


La perdita della morte (e della vita)

Tra i molti argomenti trattati da Illich ne La perdita dei sensi, la critica alla «a-mortalità» proposta in queste pagine risulta particolarmente preziosa: precisa, infatti, il pensiero dell’autore su quelli che noi siamo oggi abituati a chiamare i «temi della bioetica». Su questo punto spesso Illich viene frainteso da chi fa dei suoi testi una lettura superficiale (vedi qui e qui), non comprendendo che egli si colloca al di là della cosiddetta bioetica. Compiendo una critica radicale delle categorie mediche imposte dall’ideologia dello sviluppo, Illich si schiera contro ogni rappresentazione degli esseri viventi come «sistemi immunitari», concezione che legittima la riduzione dell’essere umano a «una vita». «‘Zigote’ – afferma – è il nome dato all’uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell’utero. Questo ‘fatto scientifico’ sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano». Ma come si è arrivati a questo? «Almeno in parte perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io’ per il riconoscimento dell’‘altro’ – all’occorrenza, la madre» (p. 252).

Illich rivendica il «contatto con la carne» e, in questo senso, si colloca al di là (o al di qua) della bioetica, in quanto considera la morte e la sofferenza due territori che devono restare estranei alla medicina. I medici antichi «imparavano a riconoscere la facies ippocratica, l’espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nell’atrio della morte. In questa soglia la ritirata era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente». Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla «crescita esponenziale dei costi delle ‘cure’ terminali, al miserabile prolungamento di ‘pazienti’ tuffati in un coma irreversibile e che hanno l’esigenza che una ‘buona morte’ – letteralmente eu-thanasia – sia riconosciuta come una parte della missione assegnata al ‘corpo curante’» (pagg. 254 – 255).

È facile comprendere come questa critica radicale del «sistema medico», che viene prima di ogni bioetica, con tutta la sua libertà e il suo coraggio, difficilmente può essere accettata dalle fazioni che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della «vita» ad ogni costo – grazie alle preziose tecniche della medicina – sia i difensori della «libertà» e della «buona morte» si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva illichiana. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l’accettazione a-critica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o «pro» o «contro» – e viceversa) restano schiavi della medicalizzazione della vita – e della morte. Due facce della stessa medaglia, insomma. Illich scompagina questa dicotomia con la sua libertà, che si coniuga nell’amicizia e nella prassi ascetica e conviviale (che è «destinata all’uomo austeramente anarchico», scriveva ne La convivialità). In questo senso Ivan Illich è fuori da ogni bioetica, proprio perché è conseguenza della medicalizzazione. «Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno … Nell’era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d’ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine» (p. 260).
G.G.

• Ivan Illich, La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pagg. 352, euro 18.

venerdì 2 ottobre 2009

Commento al vangelo di domenica 4 ottobre

La durezza del vostro cuore

E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso». E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva. (Marco 10, 2-16)


Non parlerò né del divorzio né delle violenze sui bambini in quanto tali, anche se l’attualità potrebbe spingere noi tutti ad affrontare questi due temi. Chi vorrà approfondire storicamente la posizione di Gesù sui due problemi potrà farlo facilmente altrove. Questa premessa è necessaria se si vuole affrontare questo passo di vangelo guardando oltre le consuete interpretazioni «moralistiche» che spesso ci vengono proposte; ciò non toglie che possano avere anch’esse una loro certa validità.

Però, a volte, bisogna essere inattuali per cercare di sentire le acque che scorrono nel sottosuolo, bisogna fermarsi per ascoltare il ciangottio degli uccelli tra gli alberi. Presi troppo dall’attualità si rischia di non comprendere appieno il significato, non tanto delle parole, quanto dell’atteggiamento che Gesù dimostra in questi due brani del Vangelo di Marco. Si rischia di essere distratti dalla cose, non prestando attenzione ai fatti. Con questo non intendo dire che l’attualità, con le sue domande che ci interpellano direttamente, non sia importante, ma semplicemente che, a volte, bisogna cercare più a fondo.


L’indurimento del cuore e la violenza

I farisei interpellano Gesù «per metterlo alla prova», non perché spinti da un bisogno di confronto amichevole, ma perché sono curiosi, vogliono capire cosa pensa il maestro galileo in merito alla legge, se egli è fedele alla Torah. Dunque, come suo solito, rispondendo con un’altra domanda, rimanda i farisei alle prescrizioni delle legge mosaica. Soltanto dopo che i farisei hanno risposto, il vangelo fa rispondere Gesù. Ed ecco che avviene come una rottura, uno spostamento, l’apertura di un nuovo orizzonte: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma». Il problema non è normativo, legale, morale. Non c’entra con la Norma. Qui sta la radicalità del messaggio del Vangelo di Marco. Gesù, nella sua risposta, di fronte alle convenzioni sociali, intende rimettere al primo posto la volontà di Dio, la sua signoria. Egli non tralascia poi, in disparte coi discepoli, di porsi il problema sociale del ripudio, che comunque è importante se si pensa che a quel tempo era uno strumento utilizzato dai mariti, unilateralmente, contro le donne.

Tuttavia, la sklerokardía (la durezza di cuore) ha reso necessaria la legge. Ma la verità è un’altra: non c’è legge che possa far nascere l’amore o risuscitarlo dove è morto. E qui sta la sapienza di Gesù: egli riconosce la relatività della legge, anche quella divina, in quanto emanata per gli uomini. L’amore va al di là delle convenzioni sociali e, anche se Gesù non rinuncia a fare i conti con la realtà (fatta di anche di compromessi sociali e di matrimoni), egli annuncia la libertà della carità, l’amore che libera, ovvero, che perdona.

Mi sembra che l’atteggiamento di Gesù si muova in questo senso. E che questo vada oltre alle dispute sulla legittimità oppure no del divorzio. Nel piano di Dio c’è l’amore e ogni istituzione che intende incanalare socialmente questo bene, sia essa il matrimonio (con le diverse forme con cui storicamente e culturalmente si è dato) o qualche altra forma di contratto, è relativa, contingente e mai data per sempre. Le istituzioni non hanno mai a che fare con la carità, con la libertà. Sono sempre il prodotto di un compresso storico, sociale, giuridico, ecc. E, il più delle volte – anche se non si vuole ammettere fino in fondo, come invece fa Girard, che sono fondate sulla violenza e sul sacrificio – esse sono strumenti di violenza.


La libertà dei bambini

Passiamo ora ai bambini. Dobbiamo prima di tutto pensare che, a quel tempo, non esisteva la concezione di «fanciullezza» così come la conosciamo noi (cfr. P. Ariès, Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza, Bari 1968). Allora i bambini non erano trattati da bambini. Erano prima di tutto figli, e questo comportava che venissero trattati come degli adulti in miniatura, privi comunque di tutte le prerogative che spettavano agli uomini maturi, padri di famiglia, che, in molte società, erano i proprietari della famiglia, della terra, della moglie, dei figli. I bambini vivevano in una condizione di marginalità, come le donne.

Gesù, però, è molto attento alla marginalità, la individua sempre anche se è distante da lui (si pensi all’episodio dell’emorroissa, Mc 5,25-34). Così, egli si indigna nel vedere che i discepoli scacciano i bambini da lui. E piuttosto dice: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio». Il Regno di Dio appartiene ai piccoli, a chi non ha i mezzi, gli strumenti, per «avvicinarsi» e per farsi valere, anche se non è privo della dignità e della capacità di comprendere fino in fondo, e di scegliere.

Si pensa che i bambini, proprio perché bambini – privi di strumenti – siano incapaci di scegliere e di decidere, nel loro piccolo. Quindi, si tende a «separarli» (ad emarginarli appunto) per «proteggerli» (per il loro bene), a inserirli in dei recinti loro dedicati allo scopo di indirizzarli – o prepararli – a compiere delle scelte. L’atteggiamento di quei discepoli che, nel caso narrato dal vangelo, sono pronti a sgridare e allontanare i bambini appare dunque legittimo: «non è roba per voi, non disturbate – e nemmeno voi genitori!». Ma se questa visione è davvero cambiata?

Al tempo di Gesù i bambini erano emarginati esplicitamente: si riconosceva apertamente la loro inferiorità sociale, tanto che non c’era nessun problema ad impiegarli nei lavori faticosi, nei campi o nelle botteghe. Oggi, i bambini sono emarginati implicitamente: certo non vengono impiegati nei lavori manuali (almeno nei paesi «avanzati»), ma non per questo si è pronti a riconoscere loro la libertà di scelta, si preferisce relegarli a degli spazi separati piuttosto che farli intervenire nel mondo degli adulti.

La provocazione di Gesù, allora, ci invita a riflettere e a cercare modi nuovi di guardare le cose: dal basso verso l’alto. Una riflessione, nei confronti dei bambini, che sarebbe auspicabile anche all’interno delle chiese e delle comunità cristiane (a proposito si legga l’articolo di Paolo Sartori, I miei fratelli piccoli, Mosaico di Pace, luglio-agosto 2006).


domenica 27 settembre 2009

Dibattito su Ivan Illich

Vita o una vita?

La pubblicazione su questo blog dell’articolo di risposta a Lucetta Scaraffia sul concetto di vita in Ivan Illich, ha riscosso un certo – qualificato – interesse. Ho ricevuto diverse risposte, anche da parte della Scaraffia, ne pubblico alcune.


Lucetta Scaraffia, interpellata dall’articolo, ha risposto privatamente, ringraziandomi dell’interessamento con cui ho risposto alla sua «provocazione». Ha tenuto a sottolineare, però, che con il suo intervento «non voleva trattare del pensiero di Illich», quanto piuttosto «ragionare a partire dalla sua provocazione», ribadendo la convinzione di un impegno finalizzato alla difesa dell’embrione e dei malati in stato vegetativo permanente.

Fabio Milana, curatore del volume di Ivan Illich, Pervertimento del Cristianesimo, è intervenuto scrivendo quanto segue:
«Non so, non farei un simile fuoco di sbarramento… Se si pone in questione l’intera istituzione-chiesa o l’intero svolgimento (pervertimento) del Cristianesimo storico, si resta sì (più) fedeli a Illich, ma non si apre un dialogo nel contesto specifico, sul tema specifico, con la persona specifica.
Nello specifico, appunto, credo si dovrebbe focalizzare sul concetto sostitutivo non già di ‘vivente’ (che pertiene direttamente a Dio, e poi anche all’animale), ma su quello di persona umana. Che non può essere disincarnato, così da potersene fare un uso arbitrario, totalmente astratto da ciò che è la mia concreta, percepita, elaborata esperienza dell’‘essere persona’. Operare in questo modo significa esattamente ribaltare, pervertire quel concetto. È questo, mi sembra, il punto del pensiero di Illich che resiste alla lettura di Scaraffia, per quanto generosa e intelligente».

Da parte mia, ringrazio la professoressa Scaraffia per la premura con cui ha risposto al mio articolo e per il coraggio che dimostra in una ricerca pronta anche a scompaginare certezze e a proporre nuovi punti di vista. Tuttavia, anche se nel suo articolo non intendeva trattare del pensiero di Illich in quanto tale, mi sembrava opportuno chiarire degli aspetti riguardo a Illich. Ringrazio anche Fabio Milana per le sue preziose puntualizzazioni.
Anch’io sono dell’idea che l’embrione non debba essere controllato e manipolato dagli scienziati, ma tuttavia non credo che si tratti di una vita dotata di «anima razionale» (in questo penso di essere vicino a Illich, discepolo di Tommaso). Penso anche, per la stessa ragione – cioè per il rifiuto del potere esercitato dalla «medicina», con tutto ciò che questo comporta nel nostro mondo diventato «sistema tecnico» (Ellul mi sembra fondamentale) – che sia scandaloso che una persona sia condannata ad una non morte, in un modo tutto determinato dal «progresso», semplicemente e diabolicamente. Ma, se mi fa paura l’eutanasia e l’eugenetica, ho ancora più timore di una società dove non è più concesso morire naturalmente; dove l’idea della morte è stata bandita e la sola parola morte considerata impronunciabile, tabù – nonostante che sia sempre presente nella società, sotto le più svariate forme, e danza intorno a noi travestita degli abiti più sensuali e vitali.
Credo che solo la fede e la carità, vissute nella libertà, possano aiutarci a camminare per i sentieri di questo mondo seguendo la direzione indicata dal Vangelo. (G.G)


Il dibattito prosegue qui.




martedì 15 settembre 2009

Il fraintendimento di Ivan Illich

Quale vita? Non questa.

Note a margine dell’intervento di Lucetta Scaraffia su L’Osservatore Romano

Ogni volta che Ivan Illich1 apriva bocca temeva di essere frainteso. E molte volte il corso delle cose dimostrò che questa sua preoccupazione era fondata (si pensi agli infuocati dibattiti che seguirono la pubblicazione delle sue due opere più famose: Deschooling Society e Medical Nemesis). E così, quando ho letto l’articolo della storica Lucetta Scaraffia, Qual è la vita che difendiamo? (L’Osservatore Romano, 9 settembre 2009), non sono rimasto affatto sorpreso, mi sono semplicemente chiesto: dov’è sta il fraintendimento? Perché di fraintendimento doveva trattarsi o, peggio, di strumentalizzazione.



La Scaraffia prende le mosse dalla lettura di un saggio di Ivan Illich intitolato La vita umana come nuovo feticcio2 in cui l’autore cerca di mettere in guardia dall’utilizzo della parola vita, nuovo idolo di chiese e di bioeticisti, utilizzata per designare l’uomo come «un oggetto che si può manipolare, del quale ci si sente responsabili, che si può gestire», cosa che, dice, è «la perversione più radicale possibile»3. Utilizzare «il termine vita per uno zigote, un ovulo fecondato che dev’essere impiantato nell’utero» è un abuso4. Illich cerca di spiegare che «la ‘vita umana’ è una costruzione sociale recente, una cosa che oggi diamo tanto per scontata da non osare metterla seriamente in discussione». Per questa ragione, propone «che la Chiesa esorcizzi ogni riferimento al nuovo sostantivo ‘vita’ dal proprio discorso»5. Il pensatore si muove verso una demistificazione del termine «vita», che si è trasformato in un idolo proprio grazie ai movimenti per la vita sostenuti dalle chiese cristiane, che è un «feticcio sociale che, da un punto di vista teologico, perverte la Vita rivelata in un idolo»6. Illich dunque attribuisce chiaramente delle responsabilità politiche e teologiche ben precise alle chiese, che in questo modo perdono di vista il messaggio del Vangelo («Io sono la Vita», Gv 19) e pongono le basi di una complicità con l’ideologia dello sviluppo che propone il mito di una salute perfetta e di una vita illimitata.


Non si capisce perché mai la Scaraffia, dalle pagine del giornale della Santa Sede, proponga ai cattolici una lettura di questo genere. Loro, che hanno fatto della difesa della vita una battaglia idolatrica, cercano ora una nuova definizione di vita? Bisogna dare atto alla commentatrice dell’Osservatore che la sua lettura di Illich e la spiegazione che ne dà nella prima parte dell’articolo è rigorosa e riassume con chiarezza il contenuto del saggio, anche se in alcuni punti tende a smorzarne i toni e i riferimenti diretti alla responsabilità della Chiesa. Parafrasando le parole di Illich, la storica cattolica arriva comunque a scrivere: «Le Chiese, utilizzando il loro potere di creare dei miti, nutrono, consacrano e santificano questa nozione astratta di vita umana che non ha nulla a che vedere con la tradizione cristiana. Si permette così a questa identità spettrale di rimpiazzare progressivamente la nozione di ‘persona’».



Tutto procede sin quando, dopo aver citato nella seconda parte dell’articolo anche Foucault e Pichot, la Scaraffia giunge ad una conclusione quantomeno sospetta. Alla fine dell’articolo si legge: «Non sarebbe meglio, allora, invece che di vita in senso astratto, parlare dei problemi delle singole creature – siano essi embrioni o feti, o malati senza speranza di guarigione – e difenderle, occuparsi della loro condizione fragile e delle possibilità di intervenire per proteggerle da tentativi di distruzione?». Se da una parte c’è la buona intenzione, ereditata dalla lettura di Illich, di prendere in considerazione le «singole creature», e non in senso astratto, ecco che dall’altra parte si ricasca nel solito errore: considerare feti ed embrioni come persone, intervenendo per proteggerle dai tentativi di distruzione. Ora, a chi non ha presente l’intero corpo delle opere di Illich, queste parole potrebbero apparire coerenti con la prima parte dell’articolo della Scaraffia. Ma chi, invece, ha una discreta conoscenza degli scritti di Illich, si ritrova subito a storcere il naso e ad avvertire puzza di bruciato. Qualcosa, infatti, non torna.


Non si può leggere un piccolo saggio senza tener conto del contesto e dell’intera opera dell’autore che l’ha scritto. E, sorprende che la Scaraffia, da qualche tempo impegnata a proporre questo pensatore libertario ed ‘eretico’ a certi ambienti della destra cattolica, non conosca le opere fondamentali di Illich, soprattutto Nemesi medica. Per Illich uno dei problemi fondamentali era quello del limite, del pericolo di ignorare i limiti. Egli, in Nemesi medica, descrisse l’espropriazione della salute come diretta conseguenza dell’operare di una classe medica «diventata una grave minaccia per la salute», responsabile di una sempre maggiore medicalizzazione della vita. Si tratta dello stesso processo che ci ha messo di fronte ai vastissimi problemi della cosiddetta bioetica, il problema della fine e dell’inizio della vita. Illich parlava di iatrogenesi (i danni creati dalla medicina) in senso clinico, sociale e culturale; la iatrogenesi culturale «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà»7. Di conseguenza «la società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni [il malato] dovrà morire … L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire»8. Come si vede, Illich non poteva minimamente accettare che fosse la medicina a stabilire, con le sue tecniche e i suoi protocolli, con i suoi respiratori artificiali e i suoi sondini gastrici, quando e come a un uomo era consentito morire. Non poteva accettare che fosse il medico ad avere la completa responsabilità della vita, «da sperma a verme»9.


Non si può nemmeno ignorare quello che fu l’atteggiamento personale e la testimonianza che Illich diede con il suo corpo quando si trattò di affrontare la malattia. Quando alla fine degli anni ’70 fu colpito da una crescita tumorale sul volto, decise di lasciarla stare, senza intervenire chirurgicamente e alleviando il dolore che il tumore gli provocava fumando oppio, ricorrendo all’agopuntura e allo yoga. La decisione di rifiutare ogni trattamento medico contro il tumore che gli comparve sulla guancia, che giunse a diventare grosso come un pompelmo e che lo accompagnò per vent’anni, fino alla sua morte, non deve essere letta come un atto di fondamentalismo o di oscurantismo ma semplicemente come la presa di coscienza che la malattia doveva essere accettata come parte del proprio essere; egli la chiamava: «la mia mortalità».



Stupisce allora che la Scaraffia utilizzi Illich, del quale dovrebbe conoscere le opere, per propagandare una sorta di personalismo dell’embrione e del feto, nonché la «protezione» ad oltranza dei «malati senza speranza di guarigione». Eludendo in tal modo il senso complessivo delle riflessioni del pensatore. Per Illich, infatti, lo scandalo sta nel fatto che la società possa arrivare a creare la possibilità che ci siano «malati senza speranza di guarigione» e non che questi possano, un giorno, morire.


Scrive ancora la Scaraffia: «Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l’amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili». Se queste parole fossero accompagnate dal massimo della coerenza sarebbero parole piene, e cariche di significato. Ma, questa lettura, con ogni probabilità, risente dei problemi di collocazione politica e delle lotte di potere che si stanno consumando dentro i sacri palazzi, mostra come si sia disposti ad ogni gioco e ad ogni strumentalizzazione. Tanto che deve aver creato qualche imbarazzo in Vaticano se si è sentita la necessità di affiancare all’articolo della Scaraffia, forse per tutelarsi, un commento di risposta affidato ad Adriano Pessina (Parole pericolose nel gioco degli equivoci). Così, c’è anche chi ha visto in questo «nuovo approccio» della Scaraffia una mossa politica «assai critica verso la ‘cultura della vita’ dell’epoca Wojtyla-Ruini», segno della nuova linea dell’Osservatore e del suo direttore Vian, e delle strade che si stanno aprendo verso nuove alleanze politiche10.


La Scaraffia, poi, non tiene conto di un altro aspetto fondamentale dell’opera di Illich. Nella lettura che fa, non esplicita quello che per il nostro pensatore è stato un presupposto fondamentale per tutta la sua opera, senza il quale non sarebbe possibile comprendere appieno le sue analisi e la sua critica della modernità. Illich credeva che con il passare dei secoli le pratiche cristiane subirono un «pervertimento»11, un capovolgimento. Ed è da questo rovesciamento del Vangelo, perpetuato ad opera delle istituzioni ecclesiastiche, che trae origine la modernità. Così, «nei discorsi contemporanei su salute, responsabilità per la vita, educazione permanente», Illich ci invita a vedere «non un adempimento della religione cristiana né una sua dimenticanza, ma la sua demoniaca parodia»12. Quello che nelle sue ultime riflessioni chiamò il «pervertimento del cristianesimo» è uno degli aspetti più interessanti della sua opera, come critica alla religione e delle istituzioni. Un tema che, come è facile da comprendere, non potrà mai andare giù a chi tenta di tirare Illich per la giacchetta, facendolo rientrare nel dibattito politico italiano al fine di trovare una mediazione tra le posizioni più intransigenti e quelle più liberali della gerarchia cattolica, in relazione al mondo laico. Addirittura qui – ironia delle sorte – vittima di un «pervertimento» è il pensiero stesso di Illich, la Scaraffia, infatti, arriva ad affermare che «questo [problema] non presenta alcuna somiglianza con le ideologie conflittuali che la Chiesa ha affrontato nella prima fase della secolarizzazione, quando uno Stato nemico tentava di cancellarla: ora si cerca di rendere superfluo il suo ruolo con dei poteri che promuovono l'assistenza, lo sviluppo e la giustizia». Come se la Chiesa, in quanto istituzione, possa considerarsi priva di ogni responsabilità nell’aver congiurato, alleata dello Stato (qualsiasi esso sia), contro la fede cristiana originaria, per un pervertimento del cristianesimo. Si capisce quindi perché, quando uscì il volume di interviste a Illich Pervertimento del Cristianesimo, la stessa Scaraffia, scrivendone la recensione su Avvenire, definì questo titolo «provocatorio» ed «eccessivo» (Illich, domande al cristianesimo, Avvenire, 22 luglio 2008), facendone una questione di forma piuttosto che di contenuto. La Scaraffia, infatti, si guarda bene dal citare il passo dove Illich afferma che «si profila un ruolo nuovo per istituzioni mitopoietiche, moralizzanti, legittimanti, un ruolo che non può essere compreso nella prospettiva delle vecchie religioni, ma che certe chiese si precipitano ad occupare»13.


Illich fu sempre un pensatore fuori da ogni schema, il suo pensiero ancor’oggi si dimostra scomodo sia per i «difensori» che per gli accusatori della fede. Egli, infatti, criticò la religione proprio a partire dalla strumentalizzazione e dalla istituzionalizzazione che ha fatto del Vangelo, trasformando la libertà e la carità in bisogni da soddisfare e in norme da rispettare. Le parole di Ivan Illich, nonostante la polvere degli anni e i vari tentativi, a destra e a manca, di renderle partigiane, restano profetiche e, in tutta la loro libertà, più che mai attuali. «Ci sono persone – scriveva – che si dichiarano ‘per la vita’: alcuni si oppongono all’aborto, altri alla vivisezione, alla pena di morte o alla guerra. I loro antagonisti difendono il diritto di interrompere una gravidanza o una procedura medica di prolungamento della vita … ‘La vita sta lacerando la Chiesa’. E tuttavia nessuno osa opporsi all’uso di questo ameba verbale nei dibattiti pubblici. Meno di ogni altro gli ecclesiastici. Alcuni accendono incensi alla vita. Altri si specializzano nello smercio di pie banalità pseudo bibliche sul ‘valore’ della vita. Mentre la medicina controlla la vita dallo sperma al verme, le chiese hanno acquisito una nuova credibilità sociale inquadrando queste attività mediche nell’apparenza di un discorso etico»14.


G.G.



P.S.: C’è un racconto di Lev Tolstoj intitolato La morte di Ivan Il’ič che, per uno strano gioco del destino, tratta proprio di quella «medicalizzazione della vita» di cui si occupò il nostro Illich. Leonardo Sciascia, accorgendosi di questa comunanza oltre il tempo, quasi come in un racconto di Borges, giunse a proporre che nelle traduzioni italiane del racconto di Tolstoj non si scrivesse più Ivan Il’ič, Ivàn Iljíč o Ivan Ilíč ma, più semplicemente, Ivan Illich15.

______________________

1Ivan Illich (1926-2002), storico e critico della modernità. Prete cattolico, rinunciò all’esercizio pubblico del ministero nel 1969 a causa delle censure ecclesiastiche dovute alla sua attività di oppositore dello «sviluppo», esportato nei paesi poveri come forma più raffinata e pericolosa di colonialismo. Divenne celebre per aver contestato la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (Descolarizzare la società, 1971; La convivialità, 1973; Nemesi medica, 1976). In seguito, fu un acuto studioso delle trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo (Il genere e il sesso, 1982; Nello specchio del passato, 1992; Nella vigna del testo, 1993).

2 Scaraffia cita questo saggio (che in realtà è il testo di un discorso tenuto da Illich ad un incontro della Chiesa evangelica luterana d’America nel 1989) nella sua versione francese, col titolo La construction institutionelle d’un nouveau fétiche: la vie humaine (in Oeuvres complètes, II, Paris 2005); la traduzione italiana si trova in I. Illich, Nello specchio del passato, Milano 2005, pagg. 223-236.

3 Conversarzioni con Ivan Illich. Una archeologo della modernità, a cura di David Cayley, Milano 1994, pagg. 194-195.

4 E aggiunge: «Per questa ragione quando ho tenuto [questo] discorso a un folto gruppo di ministri protestanti degli Stati Uniti, ho cominciato con una bestemmia formale, la bestemmia più forte che ti puoi immaginare, dicendo per tre volte: ‘Al diavolo la vita!’» (Ibidem).

5 Nello specchio del passato, op. cit., pag. 224.

6 Ivi, pag. 231.

7 da Medical Nemesis, cit. in I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Macerata 2009, pag. 252.

8 I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2005, pag. 205.

9 Cfr. I fiumi a nord del futuro, op. cit., pag. 112.

10 Così ha scritto il cattolico ultratradizionalista Antonio Socci in un articolo apparso su Libero l’11 settembre 2009.

11 Si veda a questo proposito Jacques Ellul, La subversion du christianisme, Paris 1984.

12 I fiumi a nord del futuro, op. cit., pag. 287. Si veda a questo proposito anche l’opera Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo chiesa e modernità, Macerata 2008.

13 Nello specchio del passato, op. cit., pag. 229.

14 Ivi, pag. 228.

15 L. Sciascia, Cronachette, in Opere 1971-1983, Milano 2001, pag. 1219.



giovedì 3 settembre 2009

Commento al vangelo di domenica 6 settembre

In attesa che qualcuno ci tocchi


Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!». (Mc 7,31-37)


Per noi, uomini e donne di oggi, un fatto prodigioso come quello che ci viene raccontato in questo brano di Marco è quantomeno difficile da comprendere; immersi come siamo in una società che cerca sempre di dare una spiegazione il più possibile «scientifica» dei fenomeni che ci circondano, non ci accontentiamo più del silenzio di fronte all’inspiegabile, al mistero (dal greco mystérion, da myo, serrare le labbra) inteso come l’insufficienza del linguaggio umano di dare una spiegazione della totalità dei fatti. Non si tratta di credere ai «miracoli» (madonne in lacrime, frati sanguinanti, suore allucinate, ecc) ma piuttosto di lasciarsi stupire, di meravigliarsi ancora di fronte alle cose e agli avvenimenti della vita (miraculum deriva da mirari, meravigliarsi); occorre tornare a scoprire l’autenticità delle cose cercando di riappropriarci della nostra fisicità. Il vangelo, infatti, ci narra di un fatto fisico, talmente fisico che finisce per avere una forte valenza sociale, tanto da essere riconosciuto da tutti.

Le azioni e le parole di Gesù di fronte al sordomuto sono espressione estrema di fisicità: gli tocca le orecchie con le dita, la lingua con la saliva, sospira, parla. E tutto questo avviene «in disparte, lontano dalla folla». Per la cultura del tempo, la sordità e l’afasia erano considerati un castigo; il segno di una colpa commessa, la concretizzazione fisica di un peccato commesso, dall’interessato o dai genitori. Eppure Gesù non teme la contaminazione e, come sempre, tocca; restituendo non solo la parola e l’udito al sordomuto, ma reintegrando nella vita sociale e religiosa un individuo sino ad allora considerato un emarginato.

Si può dire che anche in questi momenti, compiendo questi «segni», Gesù mina alle basi la dimensione sacrale della cultura del suo tempo. Egli, infatti, reintegra nella comunità dei puri qualcuno che ne era stato separato a motivo della sua impurità o del suo rapporto anomalo con il divino. E lo fa con dei gesti, con delle parole, con dei segni che pur nella loro semplicità destano meraviglia, creano stupore. Non fa altro che avvicinare gli uomini e le donne alla vita: questa è la buona notizia che i profeti avevano annunciato e per cui avevano lottato («Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto», Isaia 35,5-6).

La buona notizia, l’evangelo, rompe con lo stato delle cose, con il mondo come siamo abituati ad intenderlo. L’annuncio di Gesù apre nel mondo, nella storia, una spaccatura irrimediabile: squarcia il velo del Tempio, il dominio del sacro. Gesù, uomo autentico, con i suoi gesti ha compiuto questo miracolo: l’unica legge è l’amore. Tuttavia il sacro, che è principalmente una struttura di potere, religioso ma anche politico, si ripropone nel corso della storia continuamente, sotto le forme più diverse e ambigue.

Oggi, abituati come siamo a riporre la nostra fiducia nella Tecnica (internet, auto, cellulari…), viviamo ormai in un mondo artificiale dove le relazioni umane sono mediate dagli oggetti che l’uomo si è costruito e che hanno finito per imprigionarlo, costringendolo in un «mutismo» che, seppur diverso da quello del sordomuto guarito da Gesù, impedisce ogni espressione di autenticità e ostacola ogni scelta inserita in una dimensione umana. Ci troviamo di fronte ad una situazione dove il sacro, lo stesso contro il quale ha lottato Gesù, si ripropone con insistenza anche in luoghi in cui non avremmo mai immaginato, non solo nelle chiese ma negli apparati statali, nelle multinazionali e in ogni struttura di potere che propone una nuova «religione», impedendoci di vivere fraternamente, nella convivialità, in un mondo dove possa esserci armonia tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi: gli animali, le piante. Questa «società tecnica» – come l’ha definita Jacques Ellul – si è rivestita di una sacralità mostruosa, tanto da trasformarsi in un nuovo terribile Moloch che ogni giorno chiede in sacrificio la libertà (Cfr. J.Ellul, Les nouveaux possédés, Paris, Fayard, 1973, p. 259).

In gioco, infatti, è la nostra libertà. Si fa un gran parlare di libertà: questa continua presenza della parola «libertà» sulle nostre bocche è il segno più evidente della mancanza di essa nel nostro mondo. Non sappiamo più, effettivamente, chi prende le decisioni per noi, e la cosiddetta crisi della politica è il segno più evidente di questo smarrimento. In questo tempo di crisi, ci troviamo così impossibilitati a compiere delle scelte, sentiamo tutta la forza e il peso di un vortice fuori da ogni controllo che non sappiamo dove ci porterà. Sappiamo soltanto – e lo vediamo tutti i giorni – che uomini e donne provenienti da paesi lontani in cerca di fortuna nei nostri «paradisi occidentali» vengono respinti, rigettati in un mare mangia-disperati; che donne e uomini liberi di amare vengono picchiati, minacciati, accoltellati perché hanno il coraggio del loro amore; che le donne sono vittime di violenza perché i «maschi» non vogliono che anche loro esistano; che i bisogni che ci hanno fatto credere nostri sono stati creati ad arte e che esaudendoli non si diviene felici; che i giovani non hanno speranza perché non riescono più a guardare l’orizzonte.

Ellul, questo grande critico della società tecnologica e della modernità, nelle ultime pagine del suo ultimo libro (Le bfuff technologique, 1988), annunciava «un enorme disordine mondiale che si manifesterà attraverso ogni contraddizione e smarrimento». Ebbene, forse ci siamo già. Egli si chiedeva: non siamo «immobilizzati, bloccati, incatenati»? Si rispondeva in questo modo: «No, se in realtà, alla fine, conoscendo la limitatezza del nostro margine di manovra, approfittiamo, mai dall’alto e con la forza, ma sempre avendo a modello il modo di farsi strada di una sorgente e attraverso la sola attitudine allo stupore, dell’esistenza frattale di questi spazi di libertà, per instaurarvi una tremolante libertà (ma una libertà effettiva, non concessa, non mediata da strumenti, non politica), inventarvi ciò che potrebbe essere il Nuovo che l’uomo attende» (cit. in J-L Porquet, Jacques Ellul, l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, Jaca Book, Milano 2008, pag. 244).

È di fronte a tutta questa violenza, ad un mondo che non controlliamo più e che ci condanna ad una iniqua precarietà dell’esistenza, che dobbiamo sperare con tutta la nostra forza di essere «toccati»; che un giorno qualcuno si affacci alla nostra porta e ci dica con forza, un po’ in disparte: «Apriti!».



venerdì 3 luglio 2009

Commento al vangelo di domenica 5 luglio

Profeti in casa nostra

Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. (Marco 6,1-6)


Gesù «non poté operare nessun prodigio» tra questa gente (v. 5). È il primo caso di sconforto e d’impotenza manifestato nel Vangelo di Marco, tanto da spingere il Nazareno ad affermare: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4).
Un punta negativa di incredulità conclude questa sezione di Marco. Come fa notare la professoressa Clementina Mazzucco, «Anche questi concittadini fanno parte del gruppo di coloro che guardano ma non sanno vedere, ascoltano ma non sanno capire: un pericolo, quindi, che non tocca soltanto chi è sempre stato lontano dal vero Dio, come i Geraseni, ma anche, e forse soprattutto, coloro che invece hanno addirittura famigliarità con Gesù, che credono di conoscerlo bene. Costoro … non riescono ad ammettere che manifestazioni divine e messianiche possano verificarsi in una realtà tanto quotidiana e modesta quale è quella del Gesù che svolge l’umile lavoro dell’artigiano, che vive in una famiglia normale una vita normale: come può il divino conciliarsi con un umano così banale? Come può un seme così piccolo produrre una pianta tanto grande? È il mistero del Regno che sfugge ai più» (C. Mazzucco, Lettura del Vangelo di Marco, Silvio Zamorani editore, Torino 1999, p. 78).
Nella sinagoga si scandalizzavano di lui: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (vv. 2-3).
Questa tentazione di non accogliere la parola di chi ci è vicino, le provocazioni e i pensieri di chi riteniamo troppo umile, limitato e prossimo, a cui siamo abituati è anche e sempre la nostra tentazione. Con questo non intendo spostare il discorso sull’aspetto «morale» della questione, sulle ricadute personali e relazionali che questo comporta, ma su un movimento più vasto, su una capacità di ricezione delle cose e delle parole (davar) che sgorgano come fiumi in piena dalla bocca dell’altro, soprattutto da chi meno ci aspettiamo. Cerchiamo sempre l’oratore più simpatico, il relatore più capace e affascinante, il professore più famoso. Ci sentiamo rassicurati dalla presenza di questi «sapienti», di questi esperti – loro sì hanno le credenziali, loro sì hanno studiato e i certificati, i diplomi e le «carte» che hanno appesi alle pareti lo testimoniano. Spesso ci si sente impotenti di fronte alla Parola e alle parole e non si osa dire la propria parola, la propria interpretazione.
Questo ha a che fare con il coraggio, con la «parresia», la libertà della parola. La parola è di tutti, dobbiamo ridarle libertà. Ciò non significa che dobbiamo dar retta a tutte le parole, a chi parla a sproposito o a chi mente sapendo di mentire, ma che dobbiamo avere il coraggio di ascoltare e di dare valore anche alle parole di chi consideriamo troppo inesperto per dire la sua, di chi non ha gli attestati per poter parlare con sapienza e intelligenza.
La parola è parola di vita e la sapienza viene d’alto, non dalle università, dalle scuole, dalle cattedre di teologia, dai giornali e dagli esperti. La sapienza viene dalla vita delle persone, dall’esperienza dei poveri, dalla sofferenza di chi non ha voce. Chi non ha voce, non ce l’ha perché qualcuno gli ha sottratto la possibilità di gridare, di parlare, di dire la sua e di essere ascoltato, seriamente e con rispetto, con considerazione. Liberiamoci allora dagli «esperti di troppo» – come li ha definiti il simpatico Ivan Illich – riprendiamoci la libertà di dire le parole e di dire sulla Parola. Non dobbiamo avere timore di essere derisi, cacciati, presi per matti.
Dall’altra parte, facciamo attenzione a non andare in cerca di «profeti», esperti che possano soddisfare e dare risposta alle nostre domande. Prendiamo su di noi il coraggio della profezia, della parola. Il tempo dei profeti è finito, è iniziato il tempo della profezia. Diamo retta agli umili, ai piccoli, ai noiosi. Parliamo tra noi spinti dalla caritas, dalla simpatia e dall’amicizia. Fuggiamo dai congelatori della parola, dai ripetitori di parole morte e mortifere.
E, se ci sentiamo inesperti, prendiamo in mano i libri, studiamo e meditiamo liberamente – senza nessuno che ci dica cosa imparare e come dobbiamo farlo. Non perpetuiamo le condizioni che hanno fatto respingere Gesù, la sua sapienza; che gli hanno fatto dire: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4).
«I figli spirituali di coloro che non hanno accolto Gesù diranno oggi, dinnanzi alla testimonianza evangelica dei poveri del nostro paese, ma “questo non è un contadino che a malapena sa parlare lo spagnolo? Cosa possono dirci costoro che passano la vita protestando, senza lavorare?”. Li conosciamo, pertanto non possiamo attenderci nulla da costoro» (G.Gutierrez, Condividere la Parola, Queriniana, Brescia 1996, p. 232).
Perciò non dobbiamo passare dalla parte di chi toglie la parola, ma creare le condizioni affinché tutti possano essere profeti. Gesù inizialmente aveva annunciato il regno a tutti, passò poi ad annunciarlo a pochi e, infine, nessuno si dimostrò capace di ascoltare il suo annunzio, la buona notizia del regno. Restò solo, lo lasciarono solo.
Accettare profeti in patria, significa essere coinvolti personalmente, e non per sentito dire. Significa trovarsi di fronte alla provocazione, all’autenticità delle cose, alla denuncia nel nostro quotidiano. Non è facile, perciò, lasciare che un profeta parli nella sua stessa patria, nella sua casa, nella sua famiglia: il messaggio da lui annunciato sarebbe troppo duro, troppo vero, perché dentro alle cose.
È un discorso che tocca lo spazio del vivere, del quotidiano. Le dimensioni autentiche della nostra vita – non c’entra il moralismo, altrimenti sarebbe come dire: «poveretto, sappiamo com’è, lasciamolo parlare, così poi si zittisce e possiamo continuare con i nostri discorsi». Non è questo. Si tratta di considerare le dimensioni di libertà che ci vengono tolte ogni giorno e di lottare per riconquistarle, per ridare a tutti l’autorità della parola («Donde gli vengono queste cose?»).
Non possiamo continuare a delegare conoscenze, saperi, capacità di intervento. Dobbiamo muoverci verso la strada della «convivialità» – che non è utopia (non-luogo) ma eu-topia (buon-luogo) – intesa in senso sociale e culturale. «Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni» (Illich). Una strada verso la gioia e l’amicizia. Un cammino di emancipazione che ci consenta di riprenderci e di rivendicare la libertà di intervenire nella materialità del vivere, nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre famiglie.

mercoledì 10 giugno 2009

Incontro Cdb Chieri - Gruppo biblico di Torino su Giobbe

La provocazione di Giobbe per il credente di oggi:
tempo di sfide per la nostra fede


Marc Chagall, La preghiera di Giobbe


Sabato 6 giugno, presso la sede della Comunità di base di Chieri, si è tenuto l'incontro di fine anno del Gruppo biblico di Torino.
Qui il link con la registrazione dell'incontro, con gli interventi di Carlo Bianchin, Vilma Gabutti, Franco Barbero.


lunedì 20 aprile 2009

Un nuovo Credo


Credo in Dio, amore infinito,
che esprime sovranamente il suo essere più profondo nell'evoluzione del cosmo e dell'umanità.

E in Gesù, nostro Messia,
immagine unica di Dio,
nato da genitori umani,
senza essere opera umana,
ma interamente frutto della grazia salvifica di Dio.
Egli percorse il cammino della sofferenza e della morte,
fu crocifisso per ordine di Ponzio Pilato,
morì e fu sepolto,
ma vive in pienezza,
perché si è aperto a Dio rimanendo interamente immerso in Lui,
diventando per questo una forza di guarigione,
in modo da poter condurre tutta l'umanità alla sua pienezza.
Credo nell'azione ispiratrice del soffio di vita di Dio
e nella comunità universale della Chiesa,
nella quale Gesù, il Cristo, continua a vivere con volto umano.

Credo nel dono di Dio,
che ci sana e fa di noi una nuova creazione,
per diventare, infine, esseri umani.
E credo nel futuro divino dell'umanità,
un futuro che significa la vita senza limiti.
Amen.

(Roger Lenaers)

giovedì 2 aprile 2009

Commento al vangelo di domenica 5 aprile

La morte del Cristo

Marco 14,1-15,47

Il racconto della Passione è lungo e complesso. Gli studiosi si sono concentrati sull’analisi di ogni singolo elemento, sino ai particolari più nascosti e misteriosi, e questo ha portato alla produzione di una raccolta molto estesa di opere che trattano il tema. Dunque, non mi avventurerò in una esegesi del racconto, in una spiegazione complessiva degli ultimi giorni della vicenda storica di Gesù. Il testo, del resto, è molto coinvolgente, sia emotivamente sia letterariamente, e forse bisognerebbe leggerlo semplicemente, così com’è, senza avere troppe pretese; senza pensare di arrivare ad una ricostruzione storica e definitiva dei fatti che portarono alla morte del profeta di Nazaret. Del resto, il racconto in questione non è né una cronaca né un verbale di interrogatorio, ma piuttosto una ricostruzione a posteriori che ha come scopo principale la narrazione di una vicenda di fede, un’esperienza che è diventata fondante per le prime comunità.


Una morte avvenuta nel silenzio

«Si può pensare che la sua morte sia avvenuta nel silenzio». Così, il biblista Giuseppe Barbaglio conclude il capitolo sulla crocifissione del suo libro su Gesù (Gesù ebreo di Galilea, Edb, Bologna 2002, p. 519). Probabilmente, nessuno era presente sul Golgota durante la morte del maestro galileo – a parte qualche soldato, gli esecutori materiali del supplizio. Nessuno dei suoi discepoli – troppo impauriti per farsi vedere in giro – e nessuno dei grandi e dei potenti della terra – troppo lontani da quella periferia di Impero romano che era la Palestina dell’epoca. Ma lì, sul quel monte, si stava consumando la vicenda di un uomo che avrebbe cambiato la storia dell’Occidente (nel bene e nel male) e che avrebbe assunto il ruolo – suo malgrado – di «personaggio fondante» di una nuova religione.
Quando i seguaci di Gesù provarono a raccontare la vicenda dell’uccisione del loro maestro, partirono praticamente da zero: «Tutto ciò che i discepoli più prossimi sapevano della Passione era che Gesù era stato crocifisso» (J.D. Crossan, The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, San Francisco 1992, p.375). Dunque, «la ricostruzione del processo di Gesù nei vangeli è in funzione apologetica», ciò non toglie che «la sentenza e la condanna non sono state una finzione» (O. da Spinetoli, Gesù di Nazaret, La meridiana, Molfetta 2005, p. 209).
Il motivo della condanna di Gesù è da ricercare nella sua vita, nelle sue scelte, nella sua autenticità e nella coerenza del suo stile di vita con il messaggio da lui annunciato. Così, «giunto al compimento del suo dramma, al momento di massima tensione emotiva, riaffiora la fedeltà allo stile di vita che aveva abbracciato. Gesù rimane solo, con le sue sole forze, faccia a faccia con Dio. Continua a essergli obbediente. Non chiede nulla che non sia quello che deve avvenire. E tutto avverrà davanti a un mondo che non può dominare e che gli è sostanzialmente lontano ed estraneo. Uomo della mobilità e della convivialità, rimarrà totalmente solo e immobilizzato sul legno» (A. Destro – M. Pesce, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008, p. 214).
Quando fu il momento di narrare la vicenda della Passione, i discepoli – attuando un procedimento tipico delle tradizioni antiche e presente in tutta la Bibbia – attinsero dalle Scritture ebraiche le immagini e le citazioni adatte a descrivere Gesù all’interno del piano salvifico di Dio e della storia di Israele – cominciando ad identificare il maestro di Nazaret con il Cristo, il Messia. Nacque così l’accostamento tra Gesù e l’immagine veterotestamentaria del «servo sofferente» (cfr. Isaia 52,13 e il Salmo 22). «L’intero salmo 22 diventò un repertorio di elementi che entrarono nella narrazione della morte di Gesù, e più tardi vennero inseriti nella liturgia della Passione» (C. Ginzburg, Ecce. Sulle radici scritturali dell’immagine di culto cristiana, in Occhiali di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 100-17, p. 107). Così, in Marco leggiamo che «si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse» (v. 15,24), e che «i passanti lo insultavano scuotendo il capo» (v. 29). Tutte citazioni del Salmo 22.
Ma il racconto raggiunge il culmine della drammaticità nel grido di Gesù sulla croce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34, cfr. Sal 22,2).


La maledizione della croce

La morte sulla croce di Gesù dovette rappresentare un trauma enorme per i suoi discepoli e le sue discepole. Morire in croce, oltre all’atroce supplizio che comportava, significava – per la tradizione ebraica – essere «maledetti». Le origini di questa maledizione si trovano nel Deuteronomio, dove si legge: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità». (Dt 21,22-23).
Per le prime comunità questo trauma fu fondamentale. Si cercò di porre rimedio a questa situazione e si arrivò a «spiegare» in altri modi la morte di Gesù di Nazaret. Paolo, nella lettera ai Galati, diede la sua interpretazione dell’evento: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno» (Gal 3,13). Questo problema, comunque, continuò a destare scandalo ancora per molto tempo, risultando a molti inspiegabile. Per esempio, l’autore della traduzione latina della Bibbia (la Vulgata), il padre della chiesa Girolamo, tentò di dare una sua spiegazione del problema negando completamente la visione di Paolo (cfr. Girolamo, Comm. in Gal. Lib. II, Patrologia latina, vol. 26, 388).
Nonostante i numerosi tentativi per dare una soluzione a questo scandalo con la Chiesa che ci ha costruito sopra tutta una serie di impalcature teologiche, l’idea della maledizione è giunta fino a noi. Sergio Quinzio così scrive: «Alla croce è stato appeso e sulla croce è morto Dio, diventato peccato e maledizione, e si può solo sperare che la morte di Dio sia più sapiente e più forte della vita degli uomini». A morire sulla croce, così è stato «creduto lungo i secoli, è Dio, a salire sulla croce non può essere altri che Dio» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 57).


«Maledetta incarnazione!» ovvero il tarlo della secolarizzazione

La «rivoluzione» di Gesù – se così vogliamo chiamarla – consistette nella liberazione dell’essere umano dal dominio del sacro. Ed è da questa idea di desacralizzazione che nasce la modernità, con tutte le implicazioni che questo ha comportato e continua a comportare. Ma a queste correnti sotterranee di liberazione (che potremmo definire le «correnti del regno di Dio»), si affiancano perennemente delle forze contrarie che lavorano per rinnegare il regno e trasformarlo in dominio del sacro. Uno studioso francese, Jaques Ellul, ha definito questo processo continuo e dialettico la «subversion» (sub-vertere) del cristianesimo, intendendo questo termine come «sovversione» ovvero come «pervertimento». (cfr. J. Ellul, La subeversion du christianisme, Seuil, Paris 1984, p. 73-75). Il processo di desacralizzazione, innescato dal cristianesimo nascente, pur essendo per sua natura irreversibile, è stato ad un certo punto arrestato – o almeno si è tentato di farlo o creduto di poterlo fare – per avviare una «ricostruzione del sacro» che, nella storia, si è rivelata «pervertimento del cristianesimo».
Potremmo dire che il tarlo della secolarizzazione, il germe della liberazione dal sacro, è stato portato dal cristianesimo insieme al concetto di kenosis (abbassamento, svuotamento di Dio). Il grande studioso Ivan Illich, arrivando a porsi il problema del male e del continuo emergere del sacro, e della violenza che esso comporta, ha affermato: «Mi trovo, come storico, di fronte a una realtà storica, un’epoca che, quanto più la guardo, tanto più mi appare confusa, incomprensibile e incredibile. Non ha nulla a che spartire con nessun’altra epoca storica ... Come spiegare questo male straordinario che non si è visto in altre società, ma solo là dove è stata importata la società occidentale? È qui, a mio parere, che il mysterium iniquitatis mi fornisce una chiave per comprendere il male di fronte al quale oggi sono, e per il quale non so trovare oggi una parola. Come uomo di fede, dovrei chiamarlo il misterioso tradimento o la perversione di quel tipo di libertà che i Vangeli hanno portato ... Quanto più ti permetti di concepire il male che hai sotto gli occhi come un male di nuovo genere, di un genere misterioso, tanto più forte diventa la tentazione – non posso fare a meno di dirlo – di maledire l’incarnazione di Dio». (I.Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, Macerata 2008, p. 28).
Il mondo moderno, secondo Illich, è coinvolto in un tradimento del suo antecedente cristiano ed è sostanzialmente un tempo apocalittico: «la perdita di fiducia nelle istituzioni moderne esprime non la fine del cristianesimo, ma il disvelamento di quel male misterioso che fece il suo ingresso nel mondo col cristianesimo. Questo male fu identificato dagli autori del Nuovo Testamento come l’Anticristo, un male, essi sostennero, che sarebbe maturato in seno alla chiesa come l’intima e sempre presente possibilità di un tradimento del Vangelo da parte di coloro che avrebbero falsamente proclamato di parlare in suo nome» (Ivi, p. 100).
Questo male, causa del pervertimento continuo e della corruzione (corrupto optimi pessima, ciò che era ottimo, una volta corrotto, è pessimo) del cristianesimo non è una forza esterna, qualcosa che interviene da fuori, ma è insito nel cristianesimo stesso, e tramandato lungo i secoli. È questo il mysterium iniquitatis («Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene», 2Te 2,7). È questa la chiave ermeneutica necessaria per giungere ad un disvelamento definitivo della storia, affinché il regno possa arrivare.
Questa concezione non è lontana dalla vita, ma anzi ci permette di leggere dentro le cose, e demistificare, e decostruire gli oggetti, i fatti, la realtà che ci circonda a partire dalle istituzioni economiche e sociali. «L’Anticristo, che assomiglia in così tante cose a Cristo, e che insegna concezioni globali, responsabilità universale, umile accettazione di quel che viene insegnato anziché personale ricerca della verità, guida attraverso istituzioni. L’Anticristo, o diciamo il mysterium iniquitatis, è il conglomerato di una serie di perversioni con le quali cerchiamo di dare alle nuove possibilità che sono state aperte attraverso il Vangelo, istituzionalizzandole, sicurezza, capacità di sopravvivenza, indipendenza dalle persone singole. Io sostengo che il mysterium iniquitatis ha covato a lungo ... ma oso dire che oggi esso è presente più chiaramente di quanto lo sia stato prima». (Ivi, p. 101, sottolineatura nostra).
Questo è il paradosso del pervertimento del cristianesimo. Il tradimento della Chiesa «non è qualcosa di non-cristiano» ma «è parte della kenosis», è dentro la chiesa stessa, dentro il cristianesimo. E, addirittura, la paradossalità della corruptio optimi è trasferita direttamente in Dio (cfr. Ivi, p. 149).

domenica 15 marzo 2009

Intervento di Antonietta Potente sugli echi del cambiamento politico internazionale

... Bisognerebbe essere un po’ alchimisti, maghi e poeti per poter solidarizzare con tutti coloro che nonostante tutto hanno speranza e pensano, creano e ricreano la storia tutti i giorni...
(Antonietta Potente)

Restiamo svegli sul tempo storico che ci sospinge

di Antonietta Potente


Che è un oceano?
Il mare è solo un lungo sogno

che sta sognando la terra

tra altalene di soli…

È il sogno della terra addormentata su una fiamma…

E che cos’è un sogno ? Un sogno…vediamo…un sogno…

Lasciamo la lezione per domani…

(Dulce Marìa Loynaz. Poetessa Cubana)

Osservo gli ultimi movimenti che si delineano in questa parte di storia dove vivo (Bolivia); percepisco l’importanza di questo tempo, il peso che può gravare sulla vita di tante donne e uomini comuni, bagnati una o più volte in battesimi di sangue e fango, sabbia, roccia, sole e pioggia, per poter incontrare l’arte della vita e il diritto a plasmare il proprio destino.
Scelgo un avvenimento tra tanti, più o meno nitidi; uno di quelli che ha avuto ripercussioni internazionali: la vittoria del «Sì» e dunque l’approvazione della nuova Costituzione politica dello Stato boliviano. Uno Stato, come scandisce lo stesso testo: plurinazionale e multietnico.
Come ogni avvenimento sociopolitico, anche questo provoca echi differenti, sia a livello nazionale che internazionale, ma personalmente non voglio commentare questa nuova possibilità a cui siamo giunti come popolo, ma piuttosto raccolgo alcune domande che, come nel poema che introduce le mie riflessioni, sottendono costantemente la vita e, anche in questo caso, guai se smettessimo di formularle, anche se fosse solo, nel segreto introspettivo delle nostre storie. Che cos’è…un oceano…un mare…una terra addormentata…un sogno. Non a caso ho scelto una poetessa che fa parte della tradizione culturale cubana; non a caso raccolgo il suo eco lasciato nel tempo, ancora più in là del suo sogno o della sua stessa vita e di quella della sua isola.
Come sempre e, sempre più volutamente, le mie riflessioni resteranno sospese nel tempo presente e, come canta questo bellissimo poema…lasceranno la risposta per domani…, così come ogni sogno, davanti a una più o meno certa realizzazione, non cesserà mai di accompagnarci e inseguirci in ogni giorno che ha ancora da venire.

Gli echi storici.
So molto bene che, dovuto alla situazione politica europea e soprattutto italiana, ogni intuizione di cambio alternativo nel panorama politico mondiale, sembra rianimare il respiro di chi sogna ancora una politica diversa da quella che, da anni, si è consolidata nel potere economico e sociale del neoliberalismo postmoderno.
Per questo, capisco che ogni eco che arriva agli orecchi dei sensibili uditori assetati di nuove macro e micro strategie politiche, solleva gli animi e crea un alone di speranza, soprattutto in quelle persone o gruppi che hanno sempre accompagnato processi di autodeterminazione dei popoli in differenti continenti e con differenti soggetti. È dunque normale, che i successi sociali di popolazioni con maggioranza indigena, o la introduzione di nuovi attori politici nel panorama mondiale, come per esempio Obama, facciano pensare alla realizzazione di un sogno. È normale anche che, per lo meno gli ambiti di tradizione di sinistra, guardino con interesse il capillare movimento politico dei popoli latinoamericani, tra riflessioni metafisiche e prassi alternative di vita e di economia.
Ed è proprio dal panorama latinoamericano che, ormai da un po’ di anni, giungono, anche se in modo diverso, echi di cambio. Tutti guardiamo con simpatia e speranza alle quotidiane metamorfosi di paesi come Bolivia, Ecuador, Paraguay, Brasile, convocati e assistiti da un Venezuela sempre più «primo attore». Nonostante tutto ciò, anche queste nazioni coinvolte in processi politici che attirano l’attenzione e alimentano la speranza di molti, in realtà restano ancora avvolti in correnti che in qualche modo bloccano il cammino vincolandole tra vecchio e nuovo.
Forse è per questo che, chi sta da questa parte del mondo, chi ha percepito i primi movimenti strategici di moltitudini di persone nelle loro quotidiane rivendicazioni, tra sogni di dignità e benessere, tra ancestrali fedeltà e nuove strategie economiche e sociali, percepisce che il cammino è ancora lungo. Chi ha visto infatti da vicino e ha avvertito sulla propria pelle e su quella degli altri una sensazione di brivido, vedendo varie volte l’alternarsi di presidenti o interi governi, nel giro di pochi mesi, giorni, ore o secondi, è probabilmente soggetto a una visione più critica su quello che accade nel mondo e anche nel mondo latinoamericano e, certamente non si pacifica e non si accontenta di vedere riuniti i capi di stato di questi paesi emergenti, o ascoltare i loro discorsi, anche quando tra di loro tracciano un’unica trama e una sola strategia.
È proprio su questo punto che irrompono i versi della poetessa cubana e soprattutto l’ultima parte…il sogno…la risposta lasciata per domani… Così che, se pur persistendo e appoggiando i sogni segreti e i concreti processi di cambio e, continuando a contrapporsi energicamente e criticamente a coloro che invece vogliono sviare questi processi e indebolire ogni tentativo alternativo. Mantengo infatti una sottesa nostalgia per qualcosa che, per ora, abbiamo solo visto o… salutato da lontano, come dichiara il testo biblico neotestamentario della lettera agli Ebrei (Cfr. Eb 11).

Il fantasma del populismo.
Circondata dunque da questi processi ancora in atto, vivendo notti inquiete che alimentano pensieri, paure, ma anche ulteriori sogni, mi ritorna in mente un antico testo profetico, a mio avviso molto interessante in questa congiuntura latinoamericana. Mi riferisco ad alcuni versetti del libro profetico di Daniele; una sorta di lamentazione di cui, oggi, come allora, forse non abbiamo ancora compreso il vero significato e la sua potenzialità mistico-politica. nella crescita di un popolo e di una umanità in cerca del riconoscimento della propria maturità, come direbbe Bonhoeffer: un mondo maggiorenne. Ed è proprio stando da questa parte di mondo che oggi come oggi, ritorna questa immagine biblica come una sfida silenziosa e perenne lanciata ai nuovi attori politici o alla politica in generale, una politica che sembra cadere nelle stesse trame di sempre.
Il testo a cui faccio riferimento è quello di Daniele 3,38: …ora non c’è più tra di noi principe, profeta o caudillo, sacerdote e olocausto, sacrificio, oblazione né incenso né un luogo dove possiamo offrire le nostre primizie.
Questo testo, probabilmente raccolto da una lunga litania di dolore, e ricordato sempre in momenti considerati drammatici lungo il cammino di un popolo in ricerca di liberazione, in realtà, a mio parere, sottende qualcosa di molto più profondo e ispiratore. Forse potrebbe diventare una e vera e propria critica a una mentalità che in realtà soggiace dentro ogni visione politica e religiosa di tipo soteriologico (salvatrice).
Infatti, sembra quasi che in ogni processo di liberazione, di crescita e di corresponsabilità socioeconomica, non riusciamo a pensarci senza nessuno che ci guidi, che faccia le veci di noi stessi e delle nostre responsabilità. Sembra quasi che allora, come oggi, tutti cerchiamo comunque e sempre un rappresentante, un mediatore, un leader, qualcuno che guidi.
Mi riferisco a processi di cambio che, in un modo o nell’altro, ricadono in un certo caudillismo o populismo che in fin dei conti è un nuovo processo di dominazione di pochi su una immensità che nessuno può contare e che comunque è la unica e vera protagonista di evoluzioni e rivoluzioni storiche economiche e politiche da cui sono nati questi stessi principi, sacerdoti e caudillos .
L’arte della sopravvivenza alternativa dei popoli, resta un mistero che sottende, qualcosa che, per esempio, dal punto di vista teologico, leggeremmo come una e vera e propria opera alternativa di un sogno divino che come nella genesi dei tempi, sorvolava le acque e creava ancora più caos fino a partorire infinite e differenti esistenze. È comunque certo che quest’arte alternativa non è sinonimo di perfezione o assenza di ambiguità, ma solo teatro di sempre nuove possibili alternative e cambi. E probabilmente è su questo piano che si gioca la lamentazione del profeta. Pensare che il popolo abbia sempre bisogno di persone che facciano da mediatori e quindi da leader politici o religiosi. Da questa lamentazione sembra proprio che non riusciamo mai a stare senza distaccate o evidenti figure istituzionali che ci rappresentino. In questa prospettiva sembra che cadiamo tutti e destra e sinistra si assomigliano e coincidono, così come coincidono istituzioni religiose e politiche.
Mentre il mondo che si considera adulto e cerca bene o male di togliersi di dosso ogni dipendenza, dottrinale, ideologica, il sistema politico anche quello che si presenta come alternativo ai vecchi sistemi, non riesce a inventarsi e pensarsi in un altro modo.
Così che il lamento del profeta che nel quadro biblico si potrebbe anche capire, visto ciò che significavano quei ruoli nell’universo simbolico del popolo di Israele, oggi come oggi, lo potremmo rileggere in un altro modo. Una storia, infatti, che si continua a pensare rappresentata da capi, sacerdoti o profeti non è ancora una società veramente responsabile e creativa. Anzi questi processi assumono un aspetto molto ambiguo rivestendo i processi di liberazione di un tono profondamente populista e sappiamo che ogni populismo è comunque negativo.
Oggi, senza retrocedere o negare i parti storici latinoamericani, sentiamo che il momento che viviamo non è un nuovo ordine politico, ma un tentativo ancora molto lontano da quella che può essere una possibilità alternativa. In realtà anche qui, non abbiamo trovato ancora un altro modo di far politica. Eravamo fiduciosi in sapienze alternative, gestioni differenti della vita e visioni del cosmo diverse. Come donna, in realtà, questa critica e questa paura, la attribuisco a che il modello sociopolitico comune è comunque un modello che fa parte dell’immaginario collettivo maschile di cui, dopo secoli, non possiamo ancora liberarci. Ogni rivoluzione ed evoluzione ci sembra possibile solo se portata avanti da questi rappresentanti maschili. È sintomatico nella profezia di Daniele, come questa lamentazione gira intorno alla mancanza di leader maschili. Così oggi come oggi, la politica latinoamericana soffre ancora questo pericolo; sembra che l’essere umano abbia bisogno di recuperare i suoi eroi, indigeni o meticci, ma comunque leader che si sentono rappresentanti di una moltitudine, dentro processi che per ora assicurano la sopravvivenza ma non sono ancora una vera possibilità alternativa. Senza sottovalutare niente di questi processi in atto nel mondo, non guardiamo la realtà come se queste fossero vere e proprie visioni di liberazione, ma piuttosto, restiamo critici, sentendo che per ora abbiamo solo intravisto qualcosa e che questi sono processi di transizione che vanno accompagnati e che hanno bisogno non solo di sostegno o solidarietà economica e politica, ma di un acuto senso critico e una ascetica vigilanza per non abbandonare un sogno dove prima o poi davvero e per fortuna, non ci saranno più profeti, né principi, né sacerdoti… né luoghi privilegiati per ottenere mediazioni particolari.
So benissimo che queste opinioni sono discutibili e che probabilmente per quelle persone che leggono alcune riviste o alcune pagine web, possono risultare riflessioni pericolose visto che, dopo il forum mondiale tutti continuiamo a pensare che abbiamo già trovato spazi alternativi e che i popoli sono coscienti di questi processi di cambio e soprattutto di ciò che questi processi comportano. Ma la mia inquietudine continua, perché ciò che rende questi processi più deboli non sono solo le minacce esterne, le ambigue politiche internazionali e i giochi economici degli organismi finanziari o la piovra dei poteri di entità transnazionali con le loro mafie politiche affiancate anche da quelle religiose. Ciò che rende precari i nostri processi alternativi sono anche alcuni fattori interni, come per esempio un certo caudillismo politico, o modelli ora mai obsoleti nell’immaginario individuale dell’essere umano postmoderno e soprattutto delle fasce culturali di altre provenienze e in quelle fasce più giovani, ma che in realtà restano in vigenza nel quadro politico più comune. Forse ancora una volta la vittoria delle opposizioni a ogni cambio è proprio questa, far sì che per difendersi, anche questi attori politici che sembrano alternativi, tornino alle vecchie posizioni populiste, con sapore militare, con sapore a welfar state, qualcosa che assicura la mediocrità di ogni cittadino, qualcosa che comunque perpetua relazioni ambigue tra i generi, qualcosa che comunque serve per educare a una visione del mondo profondamente ristretta, fuori da ogni parto di dialogo storico, dove l’individuo senza le solite strutture sociali non è niente ed entra in preda di una depressione politica e sociale oltre che psicologica. Errori che si ripetono incessantemente, anche se gli uni accusano gli altri di averli propiziati, da un lato proprio in questi paesi dove comunque la maggioranza è sempre stata in balia di credi religiosi o politici con annunci assistenziali di liberazione che, in realtà, hanno fatto sì che la coscienza umana restasse legata al filo della dipendenza, e dell’infanzia spirituale e sociale, proprio perché chi assicurava la liberazione e la vita era comunque un intermediario, un mediatore e se rappresentante del sesso maschile, meglio.
Oggi, mentre i processi di autodeterminazione dei popoli si sono intensificati ciò che non si è intensificato è la struttura di questo processo che comunque segue sempre gli stessi parametri e dunque tiene, gli stessi rischi, cadendo in una prassi che più che assumere i colori di un processo di autonomia dell’essere umano, sembra restare costantemente ancorato a quello stato primordiale di bisogno che ha fatto dell’essere umano un essere religioso, ma decisamente non mistico o delle sue intuizioni sociopolitiche un eterno ritorno simile a quello dell’olimpo degli dei greci.
Come ci piacerebbe invece, pronunciare questa lamentazione al rovescio: …per fortuna oggi non abbiamo più principe, profeta, sacerdote… perché come si sognava in un altro testo biblico, per bocca del profeta Gioele, tutti hanno la possibilità di sognare: anziani e giovani, liberi e schiavi divenuti liberi… (Cfr. Gio 3,1-2).
Forse questa è una anarchica illusione, può darsi, ma è comunque una intuizione di chi continua a credere nei parti di sopravvivenza di donne e uomini comuni, nei percorsi della ricerca e dell’osare umano, nel desiderio di sfociare in altre dinamiche di resistenza e di vita, perché, come direbbe il filosofo Edgar Morin, la prosa ci fa solo sopravvivere mentre la poesia invece, ci fa vivere…
Purtroppo, ci sembra che la politica sia ancora legata alla prosa e che ogni cambio, in fin dei conti ci porta alla mediocrità di essere cittadini, indigeni o meticci, ma comunque mediocri cittadini assicurati dalla certezza che qualcuno penserà e veglierà su di noi e ci assicurerà la sopravvivenza.
Un’antica dialettica dunque, tra la mediocrità di una storia che mi assicura il sopravvivere e la creatività di un sogno che risveglia costantemente, come ispirazione poetica, per poter vivere e non solo sopravvivere.
Europa come sempre, soprattutto la sinistra, forse guarda con speranza a questi movimenti con sapore rivoluzionario dei popoli, forse anche per consolarsi o per tranquillizzare la propria coscienza dopo il fallimento di una politica nazionale ed estera decisamente mal gestita. E così, oggi come oggi a questo sogno si è aggiunto anche il mito di Obama con tutto ciò che questa persona rappresenta nell’identità individuale e collettiva della complessità nordamericana. Ma nella vita concreta di chi davvero ha lottato in lunghi e inquietanti dormiveglia e più volte, ha attraversando i sentieri del limite e della sopravvivenza, il mito non basta più. Così come non gli basta più il senso di un immaginario collettivo, perché vuole camminare ancora con le sue proprie gambe. È così che la sua creativa resistenza scompiglia le correnti sicure e statiche dei venti che nacquero come moti vorticosi incontenibili ma che la ufficialità li ha resi ripetitivi e piatti, come coltri pesanti sul cammino dei popoli. Riconosciamo dunque che noi esseri umani ci muoviamo ancora nell’ottusa visione di coloro che pensano che gli altri hanno sempre bisogno di qualcuno e così abbiamo costruito i nostri universi simbolici individuali e collettivi e atrofizziamo il sogno, per fortuna esiste una incoscienza totale, che sospinge i sogni e trasforma le notti in spazi di significative ricerche e di inquietanti attese.
Restiamo dunque attenti, attente, come testimoni di un sogno che si muove nell’esistenza di donne e uomini comuni che, probabilmente, senza conoscere tutta la storia ideologica dei partiti e delle correnti politiche, ha il bellissimo sentore di una «altra vita possibile», un’altra storia, un’altra logica, altri rapporti, altri scambi, altri progetti istituzionali, altre leggi e altri cammini culturali e sapienziali di questa sinergica storia eco-antropologica.

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