domenica 2 marzo 2008

Predicazione per l'eucaristia comunitaria - Pinerolo 2 marzo 2008

Il cieco nato. Il peccato di chi si crede completo, la grazia di chi aspetta di esserlo. (Gv 9).

di g.g.


Un racconto di inclusione.

Il centro dell’episodio non è il miracolo in sé, ma il dibattito che né scaturisce. Una disputa teologica – come è tipico del vangelo di Giovanni. Tutto si snoda e parte dai diversi interrogatori che i protagonisti subiscono. Questa è la storia di un cieco che viene alla luce e di uomini che presumono di vedere e per questo restano condannati alle tenebre.

Nel racconto leggiamo due movimenti: uno di inclusione e un altro di esclusione. Il primo è la storia di un uomo, non completamente creato, cieco dalla nascita. Escluso dalla piena partecipazione ad Israele e – proprio a causa di questo suo difetto – escluso dal culto secondo le norme di purità. Il difetto esclude, la vittima viene incolpata perché infetta tutta la società. La malattia del cieco è segno di peccato, di colpa – almeno così è percepita dalla società – e anche i discepoli si interrogano: «Chi ha peccato?». Chi è il responsabile della colpa che ha fatto si che quest’uomo nascesse cieco? Gesù riesce a trasformare nell’incontro con un uomo il segno del peccato in un’occasione di salvezza. Concretamente. A Gesù non interessa l’origine della sofferenza ma il significato che essa assume nel piano di Dio. Un piano, un disegno, a cui si collega il gesto di Gesù.

La terra (adamah) impastata con la saliva è il gesto della creazione, della continua creazione del mondo da parte di Dio, evento al quale tutti gli uomini e le donne devono cooperare prolungando questo gesto d’amore che impasta terra e vita, fango e saliva. I giovani riuniti a Medellin nel 1968, durante l’assemblea del Celam (Conferenza episcopato latinoamericana) non ebbero paura di affermare nella loro professione di fede di credere «in un Dio, creatore di un mondo non ancora finito, non di un mondo che è così e che così deve continuare – come se Dio avesse proposto un piano eterno di sviluppo – nel quale noi non possiamo partecipare». Dimostrarono di aver voglia di cambiamento, di voler cooperare alla creazione del mondo degli uomini e delle donne attraverso un processo di liberazione e di responsabilità.

Gesù aiuta quest’uomo a completarsi, a terminare la sua creazione. Il cieco viene mandato a purificarsi nella piscina di Siloe e riacquista la vista. Da questo momento torna ad essere membro della società, torna ad avere voce. A questo punto del racconto, infatti, egli acquista una soggettività, diventa protagonista, la gente lo degna di considerazione dandogli del “tu”. I farisei lo interrogano, anche se vorrebbero continuare ad escluderlo: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!». Ma il cieco risponde lucidamente e riporta i farisei a rapportarsi con lui in un “noi”: «Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta».

Il racconto dell’escusione.
Il cieco nato comincia come escluso. «Egli rappresenta un esercizio per la curiosità dei passanti che si domandano sulle cause morali delle sventure fisiche» (J. Alison, Fede oltre il risentimento, Ancona - Massa 2007, pag. 23). Il problema nasce dalla guarigione compiuta in un giorno di sabato. Eppure anche questo richiama inconfondibilmente il continuarsi della Creazione. Qui sta il problema dei farisei che si domandano la liceità di questa guarigione. Essi in un primo tempo cercano di negare il fatto, ma non ci riescono. A questo punto chiamano il cieco a testimoniare tentando di fargli dire, di costruire una versione dei fatti, che riconosca la fonte peccaminosa da cui proviene il miracolo. L’ex cieco risponde: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo». (9,25). Una risposta straordinaria. «L’uomo dimostra una sana indifferenza verso la dimensione morale della questione» (J. Alison, op. cit., pag. 26). L’ex cieco si rifiuta di diventare complice dei farisei che vorrebbero da lui un giudizio negativo. I farisei vengono messi in crisi, nella loro unità e sicurezza, dalla lucidità del guarito e per questo lo cacciano.

Il sovvertimento.
Il racconto del cieco nato è il paradigma del rovesciamento del peccato dall’interno. Egli non fa nulla per meritarsi la guarigione, la riceve soltanto. Il problema – affinché Dio possa continuare nella creazione – non è il cieco nato ma coloro che pensano di essere completi, giusti, finiti. «E sono convinti che la creazione, almeno per quello che li riguarda, sia terminata. Per questa ragione pensano che la rettitudine consista nel mantenere l’ordine stabilito con i loro mezzi: la bontà è definita a partire dall’unità», dall’appartenenza al gruppo «a scapito e in contrapposizione al cattivo escluso. I giusti del gruppo, che pensano di poter vedere, diventano ciechi proprio sostenendo a oltranza quell’ordine che pensavano di dover difendere» (Alison, pag. 31-32). Il significato che Giovanni attribuisce al sabato è quello del simbolo della creazione ancora incompleta.

Franco Barbero ci ha ricordato come «non possiamo non constatare che una delle perfidie della nostra istituzione ecclesiastica, una delle più pesanti responsabilità lungo i secoli è stato questo occultamento della verità, questo tentativo di mantenere le persone nella cecità, questo strangolamento delle voci libere, questa repressione della libertà. Sono i custodi della Legge, i “sacerdoti”, i detentori della verità che hanno paura della luce. Quanti occhi vengono impediti e quante voci soffocate in nome di Dio».

Il rischio è anche il nostro.
Quello che il vangelo ci offre non è una legge, un criterio fisso, una teoria, ma una storia dinamica di incontro con l’altro, con il diverso, con l’escluso. La storia agisce in maniera sovversiva, e noi spesso nemmeno ce ne accorgiamo! Istintivamente, leggendo questo brano del vangelo di Giovanni, tendiamo ad identificarci con il cieco nato, con l’escluso. Eppure molte volte ci ritroviamo, invece, ad assumere i panni dei “buoni” della situazione – in questo caso i farisei. Identificandosi con la “bontà” che esclude, la giustizia del gruppo, non sempre riusciamo ad avvicinarci concretamente a chi non sembra essere giusto, buono, gentile, pulito… Il rischio è anche il nostro. Quello di stare dalla parte di chi crede di avere Dio in tasca, di possederlo. Di essere sempre dalla parte della ragione e mai del torto.

La dinamica del sovvertimento che l’evangelo ci insegna ci porta oltre tutto ciò. Ci spinge a voler cambiare queste divisioni, queste concezioni, queste categorie… che a lungo andare tendono ad escludere, a costruire un qualcosa che sia socialmente accettabile, ma che finisce per essere umanamente alienante e spiritualmente sterile.

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Bibliografia consultata:

- AA.VV., I vangeli, Cittadella, Assisi 1975.
- J. Alison
, Fede oltre il risentimento, Transeuropa, Ancona-Massa 2007.
-http://donfrancobarbero.blogspot.com/2008/02/quando-i-ciechi-vedono.html

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